"SINODO DELLA CHIESA ITALIANA
QUALE PIEGA PRENDERA’?"
di Alberto Bruno Simoni
Padre domenicano,
animatore della rivista “Koinonia” (Pistoia)
e socio fondatore di Viandanti
Dopo anni di sollecitazioni, di reiterati inviti da parte del Papa Francesco nei confronti della CEI, l’Assemblea Generale dei Vescovi ha votato questa mozione:
“I Vescovi italiani danno avvio, con questa Assemblea, al cammino sinodale secondo quanto indicato da Papa Francesco e proposto in una prima bozza della Carta d’intenti presentata al Santo Padre. Al tempo stesso, affidano al Consiglio Permanente il compito di costituire un gruppo di lavoro per armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme, tenendo conto della Nota della Segreteria del Sinodo dei Vescovi del 21 maggio 2021, della bozza della Carta d’intenti e delle riflessioni di questa Assemblea”.
Il tono notarile di questo annuncio, messo a confronto con le attese e le istanze dei vari interventi del Papa lascia intuire la decisione di andare sì dove il Papa dice, ma di andarci a modo proprio, attraverso adempimenti burocratici.
L’insufficienza dello status quo
La prolusione del card. Gualtiero Bassetti alla Assemblea della Cei è pienamente plausibile e condivisibile: si direbbe che non fa una grinza! Ma proprio qui è l’insidia, nel lasciarla passare come adempimento dovuto e percorso obbligato, e quindi non chiedersi neanche quale piega potrebbe prendere il Sinodo della chiesa italiana. In effetti, tutto sembra tornare alla perfezione, ma alla fine non si sa quale possa essere la sua proiezione futura e la sua forza propulsiva: è difficile cioè individuare un “punctum saliens” che consenta l’auspicato salto di qualità per cui il Sinodo è stato sollecitato.
Va bene valorizzare lo status quo, ma un punto di rottura ci deve pur essere, se davvero si vuole rispondere alle istanze di un “cambiamento d’epoca” e di una “conversione pastorale”.
Il discorso non manca di questi riferimenti, in omaggio alla inevitabile spinta di Papa Francesco, ma si dovesse dire che ruoti intorno a questa preoccupazione non saremmo nel vero. Una più attenta lettura di questo testo, da non archiviare come semplice preliminare, servirebbe a capire verso quale svolta ecclesiologica si sta andando, o se invece il Sinodo non rischi di consumarsi in una nuova nomenclatura pastorale che lascia le cose come stanno!
La recezione del Concilio e la categoria “Popolo di Dio”
Questo lavoro collettivo di interpretazione andrebbe fatto seriamente su come il Sinodo sta partendo. Ecco perché mi permetto qualche nota di lettura a margine, tanto per cominciare una riflessione d’insieme: il Discorso si inquadra nell’evento di Pentecoste come narrato in Atti 2,1-11 e si innesta “nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II”, da cui la sollecitazione ad essere Chiesa sinodale, Chiesa come “santo e fedele Popolo di Dio”. Facendo presente che “a caratterizzare lo stile, i gesti e le parole del Papa è l’intero Vaticano II. Francesco sta scrivendo pagine preziose di recezione del Concilio”.
Quindi alla fonte c’è la sorte de Vaticano II ai nostri giorni: ma allora, qual è lo specifico di questa nuova recezione, e come può portare ad una nuova immagine di chiesa? Non è quanto andrebbe colto nella sua peculiarità e assunto come principio orientativo? Si dice “chiesa-sinodale” ma non bisogna ignorare il rischio che “sinodalità” si presti ad ambiguità e a generalizzazioni di copertura: in fondo si tratta di una modalità, di un metodo che non basta applicare per ottenere una “Chiesa-sinodale” nella sostanza. Ma il problema è proprio questo, o no?
Per la verità, un principio di fondo il card. Bassetti lo indica quando dice che “Popolo di Dio è la categoria elaborata dal Vaticano II per esprimere la natura aperta, universale e storica della Chiesa.
Il popolo di Dio non è una grandezza puramente sociologica, ma teologica, pastorale e spirituale. Questo popolo di Dio è insieme santo e fedele”. Quindi l’asse portante di un Sinodo del Popolo di Dio è appunto questa “santità” e “fedeltà” intesa come “sensus fidei” dei fedeli, che dovrebbero provocare l’”umile accoglienza della Parola di Dio, la celebrazione dei sacramenti, la fraternità e la preghiera, ossia le quattro “assiduità” della prima comunità cristiana” (cfr. At 2,42).
Dovrebbero essere cioè la matrice e il fermento per la nascita di comunità di credenti di nuovo conio e non più di vecchio stampo: e cioè con tutta la soggettività e la partecipazione che l’essere Popolo di Dio comporta! Qualcosa però di cui non si fa minimamente parola!
Il “Noi ecclesiale”
Ma è proprio a questo punto che il Discorso prende una piega diversa, ed invece di accettare questa sfida di rinascita effettiva alla luce del Concilio, si preferisce guardare indietro e alla storia dei Convegni ecclesiali a scadenza decennale, per arrivare a dire che “la ricchezza di questa nostra storia conferma che la sinodalità, come stile, metodo e cammino, è perfettamente coerente con un percorso che abbraccia cinque decenni, tanto più per la consapevolezza di un cambiamento d’epoca in atto”.
Quindi saremmo perfettamente in linea, ed oggi basterebbe rendersi conto che “la Chiesa che è in Italia è chiamata a un discernimento che generi conversione, comunione e corresponsabilità: disegnare forme rinnovate è la nostra responsabilità odierna”. Non per sottilizzare, ma forse “disegnare forme rinnovate” non è la stessa cosa che cercare una forma nuova di chiesa!
L’accento in realtà è posto sul “santo popolo fedele di Dio”, ma l’attenzione si sposta subito su quanto la chiesa storica ha operato di importante sulla scena italiana. Si vorrebbe far emergere la santità sommersa nella vita della gente come valore primario della esistenza cristiana, ma poi la preoccupazione dominante torna ad essere il “Noi ecclesiale” visibile, per quanto “allargato, inclusivo, capace di favorire un reciproco riconoscimento tra i credenti, all’altezza di dare forma storica alla figura conciliare di una Chiesa ‘popolo di Dio’”. Abbiamo cioè una chiesa la cui tendenza è in senso centripeta, mentre il mondo rimane sullo sfondo come destinatario della sua azione ad extra: non è assunto per essere salvato dal di dentro e diventare così “comunità di salvati.
La riconciliazione nella Chiesa e con il mondo
Molto coraggiosamente il cardinale dice: “Ebbene, se qualcuno oggi mi chiedesse: Di cosa la nostra Chiesa e anche la nostra società hanno urgente bisogno? Risponderei, senza esitazione, di riconciliazione, aggiungendo subito due sottolineature”. Che riguardano in primo luogo “una riconciliazione ecclesiale”, in secondo luogo “la riconciliazione con il mondo”.
In questo senso: che “la comunità ecclesiale, tutta intera, porta il contributo costruttivo della mediazione e della pace, della razionalità e della carità, costruendo ponti di comprensione con tutti e prendendo sul serio le domande antropologiche fondamentali”. È il motivo dominante del momento e della presentazione del Sinodo, a prova di come si intenda la presenza della chiesa sulla scena pubblica, e cioè come agente sociale e culturale!
Non so quanto in realtà si tenga conto di una necessaria riconciliazione interna alla chiesa con quella base da cui si vorrebbe partire, ma che di fatto è rimasta in gran parte fuori gioco per ragioni tutte da chiarire: una storia di conflitti che in un Sinodo di svolta dovrebbe essere tenuta presente. Ma già separare le due riconciliazioni, e non solo distinguerle, è indice di una prospettiva ecclesiologica dualistica, che prevede una chiesa mondo a sé “prossima” al mondo di tutti, pronta a guardare alle ferite della società.
Non si tiene conto che le divisioni e le lacerazioni interne alla chiesa sono nate spesso proprio dal diverso approccio che si intende intrattenere col mondo, nodo sempre da sciogliere dal Concilio in poi, e che non può essere risolto gordianamente. È la Scilla e Cariddi da superare, che il card. Bassetti formula in questo modo: “La stagione che si sta aprendo richiederà che soprattutto noi pastori abbiamo il cuore largo di chi sa discernere, evitando gli estremi di un gretto massimalismo o di uno scialbo minimalismo”.
Di quale Sinodo si sta parlando?
È chiaro che questo esclude fughe in avanti ma anche facili ripiegamenti sullo status quo, che non va preso come metro di misura; che all’atto pratico tutto funzioni a dovere e che le cose vadano nel senso giusto – è quello che il cardinale sembra dirci nella parte finale del suo discorso – non vuol dire che non ci sia uno scatto da fare, se davvero c’è da voltare pagina. Perché il discrimine è proprio qui: se un cambiamento si ritiene inevitabile perché è nelle cose o lo si voglia solo per semplice accondiscendenza e come fatto accessorio ad un sistema preesistente di cui farsi custodi.
Insomma tante cose da dirci per un Sinodo a 360 gradi e non semplicemente pilotato a senso unico! È fuori discussione la diversità di accenti tra il Sinodo pensato da Papa Francesco e il Sinodo come si va configurando alle sue prime battute: vuol dire che un lavoro di discernimento non può mancare già in fase di impostazione.
La sensazione è di una chiesa insediata sul territorio, ma sradicata dal Paese, alla ricerca di un nuovo radicamento, ma più con una conversione della pastorale che attraverso una “conversione pastorale” di se stessa: quando si potrà parlare di un “magistero pastorale” dal basso più che di una “chiesa gerarchica” dall’alto? Non è questa la sfida ereditata dal Concilio Vaticano II?
(Fonte: Viandanti - 31 maggio 2021)
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