Pietro e Paolo, espressione di pluralità nella Chiesa
Due Apostoli alla base della Chiesa Madre ci dicono che non tutti, nella Chiesa, sono chiamati a fare la stessa cosa, perché non tutti sono capaci di fare la stessa cosa, ma che nessuno si può però dimenticare che qualunque cosa faccia, andrebbe fatta per amore
(Foto Siciliani-Gennari/SIR)
“Sancti Apóstoli Petrus et Paulus, de quórum potestáte et auctoritáte confídimus, ipsi intercédant pro nobis ad Dóminum”: così inizia la formula che il Papa recita nella benedizione Urbi et Orbi. Nella persona del Papa non vige solo il successore di Pietro, ma, in qualche modo, anche quello di Paolo, perché il sangue di entrambi ha fecondato la Chiesa di Roma, Madre e Maestra di tutte le Chiese.
È molto significativo che al fondamento dell’autorità della Chiesa ci sia una duplice radice, e cioè non Pietro soltanto, ma Pietro e Paolo, così come è molto importante che di Vangeli ce ne siano quattro e non uno solo, sebbene qualcuno, spinto dalla smania di semplificare, ci avesse provato con il Diatessaron, nel II secolo.
Due Apostoli, quattro Vangeli: il numero pari apre uno spazio incompiuto e indefinito, dove la trascendenza di Dio rimane non imprigionabile, e ogni cosa si rivela un punto di vista tra altri, massimamente autorevole, ma mai assolutizzabile.
Due Apostoli alla base della Chiesa Madre ci dicono che la Chiesa è nella sua essenza quello che Dio è nella sua essenza: dialogo.
Quattro Vangeli, con la difettosità tipica dei numeri pari, ci dicono che ne mancherà sempre un quinto: il tuo, quello che dovrai scrivere necessariamente tu sulla tua storia con il Signore.
Due Apostoli alla base della Chiesa Madre ci dicono che nella Chiesa ci può essere pluralismo e anche dissenso (non è che andassero proprio d’accordo, Pietro e Paolo…), ma che l’importante è che si cerchi davvero la gloria di Dio, e non il plauso del mondo.
Quattro Vangeli ci dicono che nessuno si potrà permettere mai di dire “Gesù è così e basta”, perché ciò che di Lui vedo io va necessariamente completato da ciò che ne hai visto e capito tu.
Due Apostoli alla base della Chiesa Madre ci dicono che non tutti, nella Chiesa, sono chiamati a fare la stessa cosa, perché non tutti sono capaci di fare la stessa cosa, ma che nessuno si può però dimenticare che qualunque cosa faccia, andrebbe fatta per amore (Gal 2, 10: “Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri”).
Quattro Vangeli ci dicono che anche se ho delle preferenze di paradigma e di impostazione, anche gli altri hanno diritto a esistere, e che senza chi la pensa diversamente, la mia idea rimane incompleta e parziale, fantasmatica.
Dunque nella Chiesa ci può essere pluralismo di visioni,
perché la pluralità è sintomo di fecondità vitale e di accoglienza rispettosa.
Tuttavia questa pluralità, per non disperdersi nel frammentario e nel molteplice, ma per rimanere piuttosto espressione dell’unità della fede e della comunione ecclesiale, implica anche che si capisca cosa accomuna ciò che per altri versi è diverso e distante (nella sensibilità, nelle priorità, nello stile).
Pietro e Paolo ce lo mostrano chiaramente: la si può pensare molto diversamente, si può anche litigare… l’importante è che si ami di vero cuore il Signore, che non lo si prenda come pretesto per “sistemarsi”, che si sia pronti a versare il sangue per Lui che l’ha versato per noi, e che al di là di ogni dissenso possibile, in fondo ci si voglia bene sinceramente.
Solo con questi elementi essenziali, che dicono la sincerità dell’amore, la Chiesa potrà vagliare tutte le istanze che oggi la provocano dal di dentro e dal di fuori, e accogliere quanto la può arricchire di visioni e intuizioni necessarie all’attualizzazione dell’annuncio, respingendo ciò che potrebbe insidiare la sua fedeltà nuziale a Cristo.
(fonte: SIR, articolo di Alessandro Di Medio 29 giugno 2021)