RISUS PASCHALIS - VERSO LA PENTECOSTE
CON LA GIOIA DELLA RESURREZIONE
Il meglio deve ancora venire!
di Vincenzo Paglia
Siamo nel cuore dei “quaranta giorni” durante i quali i discepoli fecero l’esperienza dell’incontro con Gesù “risorto”. Un’esperienza assolutamente inedita. Senza termini di paragone. I discepoli furono destabilizzati in tutti i sensi. Quel “risorto” non era un cadavere rianimato e neppure un fantasma della mente. Non era una regressione del corpo mortale: era — ed è — un oltrepassamento della morte che ti viene incontro dal mondo di Dio. È un’esperienza che non può essere comparata a niente, solo Gesù, appunto, può confermarla. Devi pur sempre credergli, per poterla decifrare. Gesù impiega quaranta giorni di incontri per convincerli. E non è stato facile: ha dovuto dar loro il tempo di assimilare e fare propria la “risurrezione”, o meglio “il risorto”. La fede di quei discepoli si rinfranca — proprio come la nostra — lungo il cammino della sequela del Signore risorto e nel dono dello Spirito vivificante. Lo Spirito di Dio, promesso e inviato da Gesù, nel momento in cui diventa dono del Risorto, cambia la vita. E cambia anche la morte. Il Risorto si presenta ai suoi precisamente con questa testimonianza: la creatura attraverserà la morte e Dio la cancellerà dalla sua vita.
Credo che facciamo poco tesoro della lezione dei “quaranta giorni” del Risorto, per il nostro apprendistato della risurrezione della vita. Una battuta d’arresto è forse venuta anche dalla preoccupazione di fissare la radicale diversità della vita eterna, ha finito per allontanarla dall’esperienza di una vita risorta. Nell’inerzia di questa marginalizzazione della “risurrezione della carne”, anche “la vita dello spirito” ha finito per perdere la sua capacità di muovere la carne della nostra vita, che deve essere trasformata, non persa. Questo è il punto di vista della morte, non della risurrezione. Se lasciamo alla morte l’ultima parola, questa vita è persa per sempre. La vita — la vita che abbiamo, la vita che siamo, la vita per la quale crediamo, speriamo e amiamo — ha finito così per essere divisa in due. La vita prima della morte, piena di umanità, viene consegnata alla morte e si estingue con essa: senza più fare distinzioni, abbiamo imparato a chiamarla vita mortale, corruttibile, mondana, destinata alla morte. La vita dopo la morte, invece, viene svuotata di eventi, prosciugata di emozioni e senza gli affetti, ha finito per essere fissata nell’eternità di uno stato di pura durata: come se alla vita dell’anima bastasse di durare per sempre, riempita di Dio e vuota di umanità. Come se le nostre qualità migliori — la libertà e la creatività, la scoperta e l’immaginazione, la relazione delle persone e la signoria del mondo — non avessero più campo nella beatitudine della vita della creatura umana con Dio.
Ma se pensiamo agli incontri del Risorto con i discepoli, noi vediamo quanto siano reali le relazioni, gli affetti, i colloqui, tra i discepoli e Gesù. È in questa prospettiva che va inquadrato il tema della risurrezione dei morti e dei corpi. Gesù risorto: che entra nel cielo con il suo corpo “risorto”, sigilla l’inaudito e impensabile compimento “terreno” del “cielo” di Dio. Questo cielo sarà — come Gesù ha rivelato — il regno della vita e della signoria di Dio con le sue amate creature. La vita eterna promessa con la risurrezione non è post-umana. Rimane umana. Vivremo la vita di Dio, che incominciamo ora ad incorporare grazie al mistero della nostra redenzione secondo lo Spirito, come creature umane.
I corpi risorti sono corpi totalmente trasformati dalla luce generatrice di Dio: ma sono nondimeno i nostri corpi, con la nostra carne, la nostra singolarità, le nostre relazioni, la memoria dei nostri affetti e l’immaginazione di tutta la vita che ci rimane da vivere. Saranno trasformati, non alienati. Come? Non sappiamo. E anche questo fa parte delle sorprese che ci attendono. Ma una cosa è certa: la nostra carne, il nostro corpo, verranno trasformati, non sostituiti. Nel mondo di Dio, ci riconosceremo gli uni gli altri. Purtroppo, molto cristianesimo moderno si è quasi rassegnato a investire i valori della vita eterna nell’impegno per il benessere della vita presente, caduca corruttibile e mortale, per rendersi credibile come parola di vita, appunto. Dirottamento non privo di rischio. È vero che il Vangelo suscita umanesimo. Ci mancherebbe altro! Ma per la fede, questa vita è il seme, non la fioritura. Insomma, il più bello deve venire. Sì, il più bello deve ancora venire! E non è alla portata della nostra volontà di potenza, figlia della disperazione, e delle nostre tecniche di manipolazione, che generano incubi. La vita eterna dell’inaudita promessa da Dio ha perso, nel nostro linguaggio, proprio la sua desiderabile continuità con la vita. E proprio così, si è svuotata la potenza della sua attrazione verso il cielo di Dio, che è l’unico luogo abitabile per il nostro desiderio di riscatto e di compimento. Lasciamoci travolgere dai “quaranta giorni” dell’incontro con il Risorto.
(fonte: L'Osservatore Romano 06 maggio 2021)