LIVATINO ‘BEATO’: LA LEGGE SALE IN PARADISO?
di Padre Felice Scalia
Il 9 maggio prossimo, ad Agrigento, su decreto di Papa Francesco, sarà dichiarato “Beato” Rosario Livatino, giovane magistrato assassinato a 38 anni dalla “Stidda”, famiglia mafiosa in cerca di potere e rivale di “Cosa nostra”. Era il 21 settembre 1990.
Il rito sarà presieduto dal Cardinale Marcello Semeraro e ovviamente alla presenza del nostro Cardinale Franco Montenegro che ha portato a termine il cosiddetto “processo di canonizzazione”.
La data di tale evento ricorda il 9 maggio del 1993, quando papa Giovanni Paolo II gridò nella Valle dei Templi ad Agrigento il suo anatema contro la mafia. Se questo richiamo al Papa polacco fosse opportuno o meno, me lo chiedo ancora.
Forse si mettono insieme due mondi diversi, pur nell’unica fede cristiana. Uno politico-religioso, tipico del Papa polacco, che aveva definito Livatino “martire della giustizia ed indirettamente delle fede”; l’altro di mera testimonianza di fede, tipico del Papa Argentino, per il quale proclamazione della fede e difesa della giustizia sono un tutt’uno, inscindibili nella vita di ogni cristiano. E ancora, per il quale ogni “potere” o è un servizio di amore gratuito ai fratelli o è connivenza con “banda di ladroni”. La data del rito comunque c’è, rimane quella e noi l’accogliamo.
Forse per dileggio, un quotidiano ha scritto su Livatino, titolando “Un santo senza miracoli”. La motivazione della “beatificazione” del giudice siciliano è “Martire in odio alla fede”, “martire della fede”, non soltanto martire, testimone del suo dovere, tanto meno di una astratta giustizia umana a volte umanamente così problematica, come gli scandali in seno al Consiglio Superiore della Magistratura, appena ieri hanno denunziato. “Miracolo” assente perché non necessario per chi muore in odium fidei. Miracolo non necessario perché la vita di chi da’ la vita per i propri fratelli è in sé un “miracolo”, qualcosa di “meraviglioso”, qualcosa che ci sconvolge, che ci fa uscire dai nostri stili di raffazzonati accordi tra senso morale ed opportunismo, tra l’aurea regola di stare nel “giusto” mezzo, di non esporsi mai, mai dichiararsi, di andare avanti con furbizia: “adelante, Pedro, sed cum juicio”… .
Ricordiamo (forse tutti) il nomignolo che al giovane Giudice regalò uno dei peggiori Presidenti della Repubblica Italiana, Francesco Cossiga, perché gli aveva contestato la legalità della doppia appartenenza al Palazzo di giustizia ed alle Logge massoniche: “il giudice ragazzino”. Quello cioè che nella sua ingenuità di credente baciapile, non aveva ancora capito che la giustizia o è servizio al sistema della prepotenza, istituzionalizzata e no, o è funzionale al “potere” (quale che sia l’aggettivo che lo accompagna: politico, religioso, finanziario, militare, malavitoso, bancario, mafioso…) oppure non è giustizia per umani. In quel “ragazzino”, c’era forse il “paterno” desiderio che uno intelligente come lui aprisse gli occhi e finalmente diventasse un adattato alla sua epoca.
Livatino non li aprì questi occhi come non li aprirono Saetta, Chinnici, Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, e furono ammazzati. Certo il lavoro sporco fu fatto dalla mafia, da povericristi disperati nati in quella “plebaglia” che si compera per quattro soldi, ma con la complicità e l’assenso di chi?
Forse di quanti progettavano gli accordi stato-mafia, o la legittimazione della mafia che in diversi modi al potere già era arrivata. Gente, come quegli assassinati, muore ma non si arrende, questo è il “miracolo”!
In realtà Rosario Livatino era un “eretico” della magistratura, come era eretico del suo ambiente siculo ed agrigentino, eretico nella chiesa-istituzione (non nella “chiesa-mistero di salvezza”, qua e là viva) dove religione e mafia potevano anche andare d’accordo.
Forse non gli hanno detto “comunista” perché la sua pratica religiosa era troppo assidua e convinta, troppo autentica; ma qualche dubbio sarà anche sorto su questo uomo “fissato” con la “Legge uguale per tutti”, con “Io sono un servitore delle Stato”, e così deciso a dare dignità ad un popolo fin troppo, da secoli, oppresso e sfruttato.
Non avrebbe fatto meglio a cercarsi una vita personale, magari un affetto femminile che avrebbe potuto giustificare il suo assassinio? Niente! E allora: Livatino è per i credenti “una meraviglia agli occhi nostri”, un miracolo; per tanti potentati invece è uno da far fuori.
Ernst Bloch, il comunista che parlò di speranza (e per questo fu cacciato via dal Partito) diceva che le religioni valgono per gli “eretici che producono”. Niente eretici, dunque basso valore della religione. Alto? La religione si avvicina al fine per cui esiste.
Solo che gli “eretici”, a qualsiasi istituzione appartengano, hanno un brutto destino. Vengono prima espulsi, scomunicati, isolati, emarginati. E se questo non basta, uccisi. L’istituzione (sia un partito, una chiesa, una setta, una loggia massonica …) difende se stessa, la sua conservazione. Solo molto marginalmente si preoccupa del fine per cui essa esiste.
L’”eretico” (che è tale per la sua fedeltà al “fine”) è come un tumore che va estirpato. All’uomo cacciato tolgono non una tessera, non una divisa o una laurea, non gli rendono nullo il concorso. Questo sarebbe forse sopportabile. Gli tolgono molto, ma molto di più, cioè qualcosa di totalizzante, oltre che la vita. Gli dicono che ha sbagliato tutto, che quanto ha amato è solo cianfrusaglia, gli affetti e le consonanze trovate in amici, sono solo illusioni o strumentalizzazioni. Rubano affetti, fede, speranze. Tentano di sedurlo, di minacciarlo, di attentare alla sua vita. E quando queste cose falliscono, non c’è che un cenno del capo: “Va astutatu”!
Nelle istituzioni dittatoriali, uccidono avvelenando e seppellendo, in regimi “men feroci”, uccidono col silenzio più assordante, saldando la memoria come si fa con un cadavere prima di seppellirlo.
Nella nostra Italia c’è un “servizio” collaudato da secoli di esperienza, la mafia. Essa comunque, servendo il Potere dei potenti, difende se stessa. E viceversa.
Il Beato Rosario Livatino, eretico di quella parte della magistratura che è appannaggio di illustrissimi assetati di potere, affari e carriera, non porta nessuno con sé in Paradiso. La sua beatificazione non è proprietà di nessuno, neppure della chiesa-istituzione. Appartiene al meglio dell’umanità, a quella che ha intravisto come condizione essenziale della vita sulla Terra, un più di umanità, un più di responsabilità, un più di spiritualità, un più di apertura al nuovo da “svegliare” ed accogliere.
Ora la magistratura sa che può essere “altra”, “altrimenti”, quello cioè per cui è nata: la protezione ed il bene vero di tutti i cittadini, la tutela dell’ uguale dignità di ogni nato da donna. E la chiesa, oggi tanto divisa da vedere un Papa contestato dai suoi collaboratori e più intimi consiglieri, ora sa che è chiamata ad essere “miracolo”, come lo è stato Rosario e come lo fu prima il suo Signore.
Sa, per usare un pensiero del neo-Beato, che il mondo non ha bisogno solo di una chiesa “credente” se essa, insieme, non è “credibile”.
L’istituzione ed il Potere sono vincenti fino a quando l’eretico, l’espulso, l’emarginato, il “cacciato fuori le mura”, scende a compromessi e diventa come tutti. Ma se questi affronta la sua emarginazione e condanna come la affrontò Cristo, come la affrontano tutti i testimoni (martyroi) “credibili”, allora possiamo concludere che di veri uomini ne esistono tanti al mondo, che sono i veri cardini della vita e insieme la nostra inquietudine quotidiana. Ci indicano, senza volerlo, da che parte bisogna andare, quale scelta dobbiamo fare per restare o ridiventare giudici onesti, cristiani, o semplicemente umani.
(fonte: STAMPA LIBERA 24 Aprile 2021)
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