“Qualsiasi sia il calcolo politico
non vale il prezzo di uno solo dei bambini ammazzati a Gaza”.
Intervista a Paola Caridi
attacco aereo israeliano su Gaza City (Ansa)
Continua l’operazione militare “Il guardiano delle mura”. L’esercito israeliano ha lanciato lunedì notte un’altra forte ondata di attacchi aerei sulla Striscia di Gaza: secondo il bollettino militare sono stati distrutti altri dei tunnel sotterranei che collegano la Striscia all’Egitto e le case di nove comandanti di Hamas. Intanto continuano i tardivi sforzi della diplomazia internazionale per porre fine alla guerra che dura già da una settimana e ha ucciso centinaia di persone: ma finora i progressi sono limitati. Ma stando agli ambienti diplomatici statunitensi, nelle prossime ore, si dovrebbe raggiungere una tregua. Lo speriamo davvero. Per approfondire questa ennesima guerra mediorientale abbiamo intervistato la giornalista Paola Caridi, grande esperta di Medioriente. Tra le sue opere ricordiamo : Gerusalemme senza Dio: ritratto di una città crudele (Ed. Feltrinelli).
Paola, come sappiamo le radici di questa guerra tra Hamas e il governo di Israele sono ben più antiche della scellerata decisione, Israeliana, di cacciare i residenti palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, per insediare, usando uno escamotage giuridico, cittadini ebrei. Una colonizzazione del territorio. Tu affermi: “per capire questo conflitto bisogna capire quello che è successo in questi ultimi anni a Gerusalemme”. Cosa è successo in questi anni a Gerusalemme?
Quando tempo abbiamo? Difficile riassumerlo in poche battute. Eppure, le cancellerie lo sanno, le organizzazioni internazionali lo sanno. Gerusalemme è una realtà urbana estremamente complessa, almeno dal 1948 in poi. Negli ultimi anni, la presenza dei coloni israeliani dell’estrema destra religiosa ha reso ancora più complicata la situazione. Il loro obiettivo dichiarato è di “redimere la terra”, e cioè di rendere sempre più israeliani i quartieri palestinesi della parte occupata di Gerusalemme. La parte orientale, che comprende anche la Città Vecchia e i luoghi santi. La tensione c’è da molti anni, acuita – stavolta – dalla decisione della polizia israeliana di transennare il cuore della Gerusalemme palestinese, la Porta di Damasco, durante il ramadan e poi di intervenire con violenza sulla Spianata delle Moschee. I lacrimogeni e i gas assordanti sparati dalla polizia dentro la Moschea di Al Aqsa, terzo luogo santo per l’islam globale, hanno fatto il giro del mondo. Alzando alle stelle la tensione.
Per un attimo vorrei chiederti dell’aspetto simbolico o religioso. Sappiamo quanto sia importante, in quella terra, il simbolismo religioso. In particolare questo vale per Gerusalemme. Una città che si basa su un equilibrio simbolico tra le grandi religioni monoteiste. Non c’è il rischio che questo conflitto metta in discussione questo equilibrio simbolico?
Per essere precisi, si tratta di un conflitto politico che usa i simboli religiosi. Li abusa e li dissacra nello stesso tempo. Per essere più precisi, non sono affatto convinta che sia giusto utilizzare un termine come “conflitto”, che sottende uno scontro tra due soggetti su un piano di parità. Gerusalemme est, per la legalità internazionale e le risoluzioni ONU, è occupata.
Torniamo al conflitto odierno. Israele continua a rispondere ai lanci missilistici di Hamas con continui attacchi aerei (bombardamenti). Dietro questa scia di sangue c’è un calcolo politico ben preciso sia per Hamas che per Israele (o per meglio dire Benjamin Netanyahu). Qual è secondo te questo calcolo?
Possiamo fare solo delle ipotesi, al limite della dietrologia, sui calcoli politici. I fatti certi sono: le telecamere si sono spostate da Gerusalemme, dove le dinamiche umani sociali e politiche molto diverse, verso Gaza e Tel Aviv, riproponendo il confronto armato che abbiamo visto nel 2008, nel 2012, nel 2014, e ora nel 2021. Razzi sparati da Gaza. Bombardamenti massicci da parte dell’aviazione e dell’artiglieria israeliana. L’ennesima guerra asimmetrica. In mezzo, i civili, dall’una e dall’altra parte. Il risultato? Una fiammata di violenza, con un numero di morti a Gaza che è già impossibile da sopportare per qualsiasi persona che abbia a cuore l’umanità, la dignità, il rispetto della vita umana. Qualsiasi sia il calcolo politico, per me, non vale il prezzo di uno solo dei bambini ammazzati a Gaza.
La rete dei sostenitori di Hamas, per Israele si tratta terroristi, si estende dal Qatar alla Turchia, passando per l’Iran. Erdogan fomenta il conflitto. Quale obiettivo si pone? Ai palestinesi conviene questo appoggio di Erdogan?
Sono molti gli attori regionali che provano a capitalizzare, ad aver un guadagno politico da quello che succede in Israele/Palestina.
La polarizzazione Hamas – Israele mette in crisi l’Olp. Perché questa debolezza della Olp? Come può rientrare in gioco?
La debolezza dell’OLP è figlia della divisione interna palestinese, non certo della polarizzazione Israele-Hamas. Cosa rappresenta l’OLP? Questa è la vera domanda. Per molti palestinesi, l’OLP è ormai il retaggio di una storia che non ha più un legame con la realtà sul terreno.
Questo conflitto ha fatto da detonatore drammatico contro la convivenza tra cittadini ebrei israeliani e cittadini arabi israeliani. Pensi che la democrazia israeliana riuscirà a sanare la ferita?
Non credo, a meno che non faccia una seria e profonda riflessione sulle ragioni che hanno condotto agli scontri e alle violenze di queste ultime settimane. La convivenza, dappertutto, si regge sulla difesa dei diritti di ciascuno e di tutti. Laddove non succede, il vulnus è profondo, la ferita è difficilissima da ricucire. È una riflessione che va alle origini, soprattutto al 1948: i cittadini israeliani riconoscono il legame con la stessa terra dei palestinesi con cittadinanza israeliana? Ne riconoscono la storia?
Che fine faranno i così detti accordi di Abramo? Quali sono i limiti? Per Biden sono ancora validi?
Lo capiremo solo tra un po’ di tempo. Di certo, gli accordi di Abramo rispondono a una logica verticistica, che nessun rapporto ha con una delle parti in causa. I palestinesi. In più, alcuni dei paesi, come gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, che hanno firmato gli accordi di Abramo, non rispettano i diritti civili e la libertà di espressione dei propri cittadini. Per non parlare del coinvolgimento degli EAU nella guerra in Yemen.
Per la comunità internazionale, un tempo, l’obiettivo era : “due popoli e due Stati”. Tu dici, invece, che l’obiettivo deve essere uno stato confederale. In che senso? Ma è davvero più realistico della prima opzione?
Il problema non è il realismo. Anche la soluzione dei due Stati, proposta dal processo di Oslo, sembrava essere un compromesso possibile perché pragmatico, pur nelle estreme difficoltà di mettere insieme le due parti. È fallito. L’ipotesi di una confederazione, allo studio da anni soprattutto da figure che vivono in Israele e Palestina, parte non solo dal fallimento di Oslo. Parte dalla necessità di condividere la terra a cui tutti appartengono, israeliani e palestinesi. Due Stati sì, due Stati indipendenti, ma intrecciati, come ora sono intrecciati ma in modo asimmetrico. Occupante e occupato. Chi detiene il monopolio della forza e chi no. Non è possibile reggere una situazione che oramai tutti, comprese le associazioni di difesa dei diritti umani e civili, considerano di apartheid.
Ultima domanda: un tempo vi erano grandi leader (Rabin, Arafat). Oggi chi c’è?
Rispondo con un’altra domanda: dove? In quale parte della Palestina? Se si parla, per esempio, di Gerusalemme est, la protesta delle ultime settimane non ha avuto leadership, né sentito il bisogno di averne. La maggior parte dei giovani palestinesi di Gerusalemme est è lontana e distaccata dalla leadership dell’Autorità Nazionale a Ramallah. Altrettanto lontana e distaccata è da Gaza.
(fonte: Confini 18/05/2021)