LA MORTE DI YOUSSEF INTERROGA LE NOSTRE COSCIENZE
di don Luigi Ciotti
Quando capiremo che dare agli altri è dare a se stessi, ai poveri sarà restituito quello che gli è stato tolto, ai bambini il diritto di una vita di amore, agli anziani la cura e l’ascolto, ai migranti la possibilità di cercare l’oltre per libera scelta e non costretti da guerre o carestie
«Ci si salva soltanto insieme», ha detto di recente papa Francesco, per ribadire, in occasione della quarta Giornata mondiale dei poveri, che in vista di questo Natale accerchiato dalla pandemia, dovremmo chiederci non tanto cosa comprare ma cosa possiamo dare a chi non ha nulla. Parole ed esortazioni su cui riflettere, come tutte quelle del Papa. Sì perché qui stanno le chiavi della rivoluzione antropologica necessaria per uscire non solo salvi ma migliori da questa crisi. La prima chiave sta nell’intendere quell’“insieme” nel senso più radicale dell’avverbio. Insieme vuol dire “tutti”, nessuno escluso. E noi viviamo in un mondo dove milioni di persone non possono salvarsi perché sono state lasciate sole, espulse e emarginate da “insiemi” non abbastanza accoglienti e inclusivi. Di questi milioni di persone faceva parte Youssef, il bimbo di sei mesi annegato pochi giorni fa. Nel mondo ci sono milioni di persone condannate a morte dal loro luogo di nascita; destinate, per essere nate in una parte del mondo sfruttata, depredata, impoverita, a vite precarie, fragili, sofferte, spesso effimere come quella di Youssef o quella del piccolo Aylan, finita cinque anni fa su una spiaggia della Turchia.
Morti di fronte alle quali – bisogna dircelo con forza – non basta più commuoversi: bisogna muoversi, denunciare, darsi da fare per invertire la rotta. Cioè abbracciare, accogliere e riconoscere, invece di volgere lo sguardo, far finta di nulla, respingere. Il silenzioso Olocausto che si consuma da decenni sulla pelle di poveri e migranti è proprio ciò che c’impedisce di salvarci, perché la salvezza, come sottolinea il Papa, è collettiva come la libertà e la dignità: non ci si può salvare a scapito di qualcuno, ci si salva soltanto insieme. E allora la prima e più urgente misura è annullare le disuguaglianze economiche (meglio chiamarle ingiustizie) che la pandemia ha reso ancora più acute e evidenti. Ben vengano i cosiddetti “fondi di recupero” europei, ma immesso in questo sistema economico il denaro non sanerà mai iniquità che sono strutturali. «Sistema ingiusto alla radice» l’ha definito senza mezzi termini Bergoglio. Secondo passo per una necessaria rivoluzione antropologica, per un cambiamento di pensiero e di costume: impegnarci ciascuno nel suo piccolo per sanare le distanze sociali e economiche. Chiederci, come esorta il Papa, non cosa possiamo comprare ma cosa possiamo dare. Un dare non solo materiale, ma un fare dono di sé.
Quando arriveremo a capire che dare agli altri è dare a se stessi, che la contrapposizione io/altro è fittizia avendo scoperto l’altro non solo attorno a noi ma dentro di noi, ai poveri sarà restituito quello che gli è stato tolto in termini di dignità e libertà, ai bambini il diritto di una vita di amore, protezione e gioco, agli anziani la cura e l’ascolto di cui necessitano, ai migranti la possibilità di cercare l’oltre e l’altrove per libera scelta, non perché costretti da guerre o carestie provocate da un’economia omicida e da una politica troppo spesso passiva o complice.
(fonte: Famiglia Cristiana 18/11/2020)
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