Benvenuto a chiunque è alla "ricerca di senso nel quotidiano"



martedì 3 novembre 2020

QUEI TRE OPERATORI DEL 118 SFINITI CI PARLANO DI NOI


QUEI TRE OPERATORI DEL 118 SFINITI CI PARLANO DI NOI

Siamo tutti stanchi, ma abbiamo il dovere di non perdere la lucidità, ci serve per stare attenti per non lasciare che tutto travolga un sistema sanitario di cui nei prossimi mesi ci sarà grande bisogno

Non vediamo i loro occhi, ma li possiamo immaginare. Vediamo tutta la loro stanchezza. La foto diffusa dal 118 ritrae tre operatori stremati dopo una giornata in coda sulle ambulanze al Pronto soccorso di Cagliari. Anche i loro pensieri sembra di vedere: più di tutto l’ansia di sapere che siamo solo all’inizio di uno tsunami che sta travolgendo l’Italia intera, che di giorni come questi ce ne saranno “n” davanti, prima di tirare il fiato. La curva sale, il virus corre, ormai senza zone franche, in tutto il Paese. Sembra marzo, ma se da un lato tecnicamente è meglio (riusciamo a controllare di più e negli ospedali ne sanno di più) dall'altro è peggio, almeno psicologicamente, perché allora chi era chiamato ad assisterci viveva tutto per la prima volta, si è trovato dentro senza il tempo di pensare. Come ha raccontato Annalisa Malara, la rianimatrice che a Codogno ha diagnosticato il primo caso di Covid-19 il 21 febbraio scorso: «quando ti volti indietro e vedi che non c’è nessuno che potrebbe prendere il tuo posto ti riorganizzi e fai anche se nessuno ti ha insegnato la medicina di guerra in tempo di pace». Adesso, invece, tutti sanno com’è l’onda che arriva, quanto faticoso sia fronteggiarla. Chi, come accade al Sud la affronta per la prima volta ha conosciuto l’esperienza di chi c’è già passato; chi l’ha già attraversata sa. Sa e basta. E senza avere avuto il tempo di assorbire la fatica fisica e psicologica di un turno senza pace cominciato ai primi di marzo e finito a metà maggio, ricomincia.

Siamo ancora nelle loro mani come allora, abbiamo per noi e per loro il dovere della massima responsabilità e coscienza. Lo dobbiamo a loro e a noi, perché se non ci saranno loro, nessuno dietro di loro potrà prendere il loro posto per venire a salvarci. Possiamo ancora credere che vada tutto bene, se ci sforziamo di piegare la curva, anche se come ci ricorda il presidente Mattarella è il virus e nessun altro a chiederci sacrifici. Quando li chiameremo, quei tre e tanti altri come loro, anche sfiniti così, ci saranno. Ma sono un numero finito e non possiamo pensare che il loro sforzi si possano moltiplicare all’infinito. Per questo la sfida è non contagiarsi, non arrivare a loro, anche se costa sacrifici. È una fatica anche la nostra, siamo stanchi anche noi. La situazione è critica per molti, la tensione sociale certifica la crisi: ma non saranno i gesti di Pesaro (una supercena di protesta organizzata via flashmob); né le vetrine rotte di Napoli, Milano e Torino a rendere più facili le cose a ristoratori e negozianti per cui chi spacca dice di manifestare: rompere significa solo aggiungere problemi a problemi, costi a costi, sociali e materiali, ma anche sanitari perché poi anche chi si contagia per protesta quando le cose si mettono male chiama il 118 di quei tre.

Ce lo ricorda Alessandro Manzoni: una folla in tumulto perde il lume della ragione: ma i singoli prima di diventare folla hanno il dovere di restare lucidi, di non scegliere strade che possono solo sommare i problemi enormi che già ci sono. Quando Renzo arriva nella Milano in tumulto preda della carestia, prima di lasciarsi trascinare dall’irrazionalità collettiva dell’assalto ai forni, ha il pensiero di un bravo ragazzo di buon senso: «Se concian così tutti i forni, dove vogliono fare il pane? Ne' pozzi?». Adesso ci serve la forza di far prevalere quel pensiero razionale e tenere duro per i mesi che servono, anche per dare a quei tre e ai tanti come loro la forza di ricominciare ogni giorno, perché ne hanno bisogno loro, ma soprattutto perché – intanto che qualcuno ci trova un rimedio - potremmo averne bisogno noi.