Chiesa e pandemia, il vescovo Olivero: incarniamo la salvezza
Secondo il presule di Pinerolo in Piemonte, di fronte alla pandemia i cristiani devono sapersi assumere nuove responsabilità e aiutare chi è nel bisogno. “Mi auguro - ha detto nella nostra intervista - che l’Avvento sia davvero un cammino d’incarnazione”
All’Angelus di domenica 15 novembre, in cui ricorreva la IV Giornata mondiale dei poveri, Papa Francesco ha sottolineato che alcuni fedeli criticano i preti e i vescovi che, a loro avviso, “parlano troppo dei poveri”. A questi credenti, che vorrebbero sentir parlare solo “della vita eterna”, il Papa ha ricordato che i poveri sono al centro del Vangelo. “Queste parole sono un richiamo a vivere una fede incarnata nella storia, soprattutto nei giorni drammatici della pandemia”. Lo sottolinea, ai microfoni di Radio Vaticana Italia, monsignor Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, che durante la prima ondata di pandemia è stato colpito dal virus rimanendo in pericolo di vita. Il presule presta servizio pastorale in Piemonte, una delle regioni definite dalle norme governative, in questa seconda ondata, “zone rosse” per l’alto rischio di contagio.
R.- Spesso noi vescovi e sacerdoti ci sentiamo dire: parlateci della salvezza, della cura dell'anima e lasciate perdere questi temi troppo sociologici, per così dire “orizzontali”. Il fatto è che a volte noi cristiani siamo troppo impegnati a mantenere pura la coscienza e poco propensi a lasciarci interrogare dalla storia, dalle vicende e dalle persone. Invece credo che quest’ultima sia una prassi indispensabile. Non basta tenere pura la coscienza, bisogna lasciarsi interrogare dall’oggi.
Cosa significa questo durante la seconda ondata di pandemia in cui, in Italia come altrove, la povertà continua ad aumentare?
R.- Lo sappiamo, purtroppo molte categorie sociali sono in ginocchio. Tra i poveri, bisognosi di cura, dobbiamo annoverare anche tutti i malati. È veramente una società che ha bisogno. Ma come ci ha ricordato il Papa noi a volte siamo un po’ come il terzo servo della parabola dei talenti: non sappiamo assumerci le nostre responsabilità. Anche in quest’emergenza siamo abituati a scaricare le colpe sugli altri e cercare dei colpevoli, mentre invece sarebbe bello se spendessimo le nostre energie ad aiutare quelli che sono in difficoltà, cominciando dai malati, dai poveri, dai nuovi poveri. Forse sarebbe più saggio e ci faremmo meno male. Dalle emergenze si esce soltanto insieme e assumendosi le proprie responsabilità. Una frase che io ho sempre amato molto dice: io sono responsabile di tutto e di tutti e sempre più degli altri. Credo che questo potrebbe essere una bella definizione di chi è il cristiano.
Ancora di più in questo tempo di pandemia…
R.- Oggi più che mai. La Gaudium et spes, scritta parecchi anni fa, è stata davvero profetica perché ci ha detto che noi cristiani siamo dentro la storia. Questo non significa dimenticare la salvezza o rinnegarla, ma incarnarla. Noi siamo coloro che credono nel Dio incarnato e non nel Dio assente e lontano. Dunque, per quel che siamo capaci di fare, dobbiamo cercare di incarnare la salvezza nella storia e la storia è sempre diversa, non è mai uguale. La storia ci rivolge sempre domande nuove e a volte “urla”, come in questo tempo drammatico.
Proprio durante questa seconda ondata di contagi lei ha deciso di sospendere per due settimane le messe festive nella sua diocesi. Perché?
R.- È stata una scelta che è nata da una domanda che ci siamo fatti insieme come Chiesa, non si tratta di un mio pallino personale. La grande questione che ci ha interrogato - noi che siamo in una “zona rossa” - è: “che cosa possiamo fare per aiutare tutti a non aumentare i contagi”. Perché è questo che ci viene chiesto in modo netto e su questo non si può scappare. Ognuno deve fare la sua parte. Potevamo dare tante risposte, ma ci è sembrato che questo potesse essere un modo, anche se non è l’unico che abbiamo scelto. È solo quello che ha destato più clamore. Certo, per noi cristiani non andare a Messa è un grosso sacrificio. Ma è un grosso sacrificio fatto proprio per essere di aiuto alla comunità, per favorire la diminuzione del contagio, che mi pare una responsabilità grave.
La scelta ha suscitato critiche perché il più recente decreto governativo in Italia lascia il diritto di celebrare il culto. Un decisione controcorrente?
R.- Non la definirei così. Direi che il sentire di questa Chiesa, assieme a quello dei fratelli valdesi, che hanno condiviso la scelta, ci ha portato a rispondere così a quella domanda. Quando si risponde a una domanda della storia, in particolare in un'emergenza come questa, non si è mai perfetti. Il nostro è un tentativo. È vero, sono arrivate molte critiche, ma soprattutto generate secondo me dall’atteggiamento stigmatizzato dal Papa. Si vuole a tutti i costi mantenere la propria identità e la propria coscienza pulita e quindi non trasgredire il saggio e giusto precetto della domenica, ma lo si fa chiudendo gli occhi all’urlo della storia.
Stiamo per entrare nel tempo di Avvento e molti credenti sono atterriti dall'idea di dover celebrare il Natale in maniera diversa per le norme di sicurezza sanitaria legate alla pandemia...
R.- Io sono stato quaranta giorni in ospedale, in terapia intensiva, proprio nel tempo di Quaresima. Sono stato estubato, di nuovo intubato e tracheotomizzato nel tempo della Settimana Santa. Io i riti quaresimali non ho potuto celebrarli. Ma ho scoperto una Quaresima nuova, molto interessante, che è stata per me un profondo cammino di Fede. Durante questo Avvento speriamo invece di poter celebrare tutti i riti, io me lo auguro perché tengo tantissimo alle celebrazioni. Ma se saremo limitati, per le regole anti-contagio, scopriremo ancora una volta che Gesù nasce povero per entrare nella storia disarmato. Saremo disarmati ma molto incarnati, io spero. Mi auguro che questo Avvento sia anche per noi davvero un cammino d'incarnazione.
(fonte: Vatican News, articolo di Fabio Colagrande 18/11/2020)
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