IL MIO UNICO TALENTO
Nessuno è senza talenti, è la legge della creazione;
ogni creatura è talento per gli altri...
I commenti di p. Ermes al Vangelo della domenica sono due:
- il primo per gli amici dei social
- il secondo pubblicato su Avvenire
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro (…)». Matteo 25, 14-30
per i social
Ogni creatura è talento per gli altri, e poterlo dichiarare a qualcuno ci fa entrare, con passo creatore, nella liturgia dei viventi.
IL MIO UNICO TALENTO
Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, consegnò ai servi i suoi beni.
Dio ci consegna qualcosa con poche istruzioni per l’uso, e tanta libertà. Ci consegna il mondo, e poi esce di scena.
Un volto di Dio che ci innalza a con-creatori con l’unica regola di Adamo nell’Eden: ‘coltiva e custodisci’ il giardino dove sei posto, cioè ama e moltiplica la vita. Tu, sacerdote di quella che è la liturgia primordiale del mondo.
Ecco due visioni opposte dell’esistenza: la vita, e i suoi talenti, come opportunità; oppure la vita come un lungo tribunale, pieno di rischi e paure.
I primi due servi vedono la vita come possibilità felice, e Dio li sorprende raddoppiando la posta: sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto. Non di una restituzione si tratta, ma di un rilancio.
L’ultimo non ci prova neppure, paralizzato dalla paura di uscirne sconfitto. Non ha capito che, affidandogli il suo talento, il padrone vuole insegnargli la fiducia, opportunità che lui seppellisce.
Su tutto incombe la paura del castigo, e il dono si trasforma in incubo. Il servo ha paura di Dio! Ne ha un’immagine orribile: tu mieti dove non hai seminato… Si sbaglia su Dio e tutta la vita è sballata; diviene schiavo della sua stessa paura, Adamo senza più giardino.
Noi non viviamo per restituire a Dio i suoi doni, il padrone non ha bisogno di quei talenti affidati, immagine distorta che lo immiserisce. Non c’è un capitalismo della quantità, e chi consegna dieci talenti non è più bravo di chi ne rende quattro. Dopo la lunga e fiduciosa assenza di Dio, il giudizio non guarderà alla bilancia della quantità di guadagno, ma a quella della qualità del servizio. Una pedagogia gioiosa della vita.
La parabola dei talenti è il poema della creatività senza retorica. Nessuno dei tre servi crede di dover salvare il mondo. Tutto invece sa di casa, di vite e di olivi, o, come nella prima lettura, di lana, di fusi, di lavoro e di attesa: fedele nel poco, nel piccolo.
Il mondo e la vita mi affidano un pezzetto di giardino incompiuto, mio talento che deve fiorire. Una spirale di vita crescente che è legge divina, pena il non senso della vita stessa.
Un giorno non mi sarà chiesto perché non sono stato Mosè o Elia o uno dei profeti, ma dovrò rendere conto se sono stato o meno me stesso, servo fedele ed emozionato della vita, camminatore avvolto dai doni di Dio.
Nessuno è senza talenti, è la legge della creazione; ogni creatura è talento per gli altri, e poterlo dichiarare a qualcuno ci fa entrare, con passo creatore, nella liturgia dei viventi.
Non ci sono dieci talenti ideali da raggiungere: è sufficiente la fedeltà a ciò che ho ricevuto, a ciò che so fare, là dove la vita mi ha messo. Fedele alla mia verità, proverò a coltivarla e a gustarla, senza maschere né paure.
per Avvenire
C’è un signore orientale, ricchissimo e generoso, che parte in viaggio e affida il suo patrimonio ai servi (…)