L’eroismo di chi aiuta il prossimo
La giornata mondiale dell’aiuto umanitario
«È il giorno più nero nella storia delle Nazioni Unite» dichiarò l’allora segretario generale Kofi Annan: era il 19 agosto 2003 e, a Baghdad, con un camion bomba lanciato da un attentatore suicida contro il Canal Hotel, quartier generale della missione delle Nazioni Unite, l’agenzia internazionale veniva colpita duramente come mai in passato. Nell’esplosione 22 vittime, tra cui il brasiliano Sergio Vieira de Mello, Alto commissario per i diritti umani e capo della missione di ricostruzione in Iraq. Quel giorno rappresenta una data simbolo, che segna uno spartiacque tra il vecchio e il nuovo millennio: il passaggio alla nuova epoca — segnata da inedite incertezze globali — è annunciato da un drammatico salto di qualità nella ferocia della strategia del terrore.
Cinque anni dopo l’Assemblea generale a New York istituiva il World Humanitarian Day, Giornata mondiale dell’aiuto umanitario, a sostegno di tutti gli operatori umanitari impegnati nel mondo e in ricordo di coloro che avevamo perso la vita sul “campo”, adempiendo alla propria missione. Quest’anno RealLifeHeroes è il leit motiv della campagna mondiale dell’Ocha, l’Agenzia Onu per gli affari umanitari, perché forse, più che mai nel passato, intervenire sui tanti fronti di emergenza nel pianeta, ha comportato in questi mesi uno spirito eroico. Cosa può significare, nel pieno di una pandemia, con i bisogni e i rischi che si moltiplicano, i conflitti che si acuiscono, le differenze che si radicalizzano e le distanze che si estremizzano, arrivare all'altro, a chi con la vita sta perdendo la dignità. A chi non ha voce e forza per chiedere aiuto. A chi si trova nella disperazione o in solitudine. E, talvolta, questo “altro” non è così lontano da noi. Perché l’aiuto umanitario è una forma di solidarietà che non si traduce solo in missioni internazionali, non è destinata solo ai Paesi del terzo mondo, alle popolazioni perseguitate da regimi dittatoriali, genocidi, repressioni sanguinarie o sfollate a causa di guerre o terrorismo, come non è destinata solo ai profughi, costretti da disastri naturali, epidemie o carestie ad abbandonare casa e terra in cerca di salvezza.
Certo, sono organizzati e coordinati per far fronte a emergenze e crisi, allo scopo, in primo luogo, di salvare vite umane e alleviare situazioni di sofferenza, portando assistenza logistica e sanitaria, forniture alimentari, mezzi di prima necessità, allestendo campi profughi, predisponendo strutture di accoglienza e ricostruendo infrastrutture e mezzi di comunicazione. Ma, anche accanto a noi, nelle nostre città, come denunciano i tanti “angeli” della strada, i nuclei familiari e i senzatetto, gli anziani e i più fragili, privi di ogni mezzo di sostentamento, sono sempre di più. In tutti i casi, all'estremità del globo o sotto il portone di casa, sono coinvolti volontari, associazioni no profit, organizzazioni non governative, ed è questa rete, questa catena umana, che, il più delle volte, consente di arrivare laddove talvolta appare impensabile.
«A 17 anni da quel 2003, i dati non sono rassicuranti» commenta Kostas Moschochoritis, segretario generale Intersos, la più grande organizzazione umanitaria italiana, da 27 anni in prima linea per garantire protezione e aiuti salvavita alle vittime di conflitti, violenze e disastri naturali, a cominciare dai più vulnerabili, donne e bambini: la dichiarazione giunge proprio mentre è in corso l'ultimo di una serie di interventi in Libano, a sostegno delle persone colpite lo scorso 4 agosto dall’esplosione che ha distrutto il porto di Beirut, provocando oltre 200 morti e 300 mila sfollati. E, quel RealLifeHeroes trova riscontro nei numeri, visto che per gli operatori umanitari svolgere il proprio lavoro è spesso un'impresa eroica: solo lo scorso anno si sono contati 483 attacchi violenti, 125 vittime, 234 feriti e 124 rapiti. «Abbiamo ancora negli occhi le orribili immagini dell’esecuzione a freddo di 5 nostri amici rapiti in Nigeria nel corso di un agguato: uno di una lunga serie — racconta Moschochoritis — condotti da gruppi armati e milizie, così come da eserciti di Stati sovrani, con un preciso obiettivo: i principi inviolabili dell’azione umanitaria, indipendente da ogni condizionamento esterno, neutrale e imparziale».
In testa alla classifica dei paesi con il più alto numero di attacchi, si colloca, per la prima volta, la Siria, con 36 vittime nell’ultimo anno, la maggior parte delle quali provocate da bombardamenti aerei ed esplosioni. Un triste primato che, per molti anni, era appartenuto al Sud Sudan, ancora impegnato in un fragilissimo processo di transizione dal conflitto civile scoppiato nel 2013. «Sono numeri che, purtroppo, non stupiscono — osserva Moschochoritis — perché cresce la complessità degli interventi, l’instabilità delle condizioni, la frammentazione degli attori in gioco e degli interlocutori». Si tratta, per altro, di gestire crisi che si protraggono anni, talvolta, decenni, come nei casi di Afghanistan, Somalia, Sud Sudan e Congo. Insurrezioni, raid e regioni fuori da ogni controllo rendono lenta e assai rischiosa la negoziazione dell’accesso umanitario. Da qui l'importanza di non perdere di vista il vero obiettivo: «Concentrare i nostri interventi sui bisogni dei singoli: un pasto, un letto in un ospedale, un banco a scuola o un riparo in cui trovare protezione» sintetizza il direttore Moschochoritis, ricordando che, nella sua trentennale esperienza, ha assistito ad un generale cambiamento del contesto operativo, con un parziale aumento delle risorse disponibili, a fronte, però, di sfide sempre più impegnative da affrontare. «Il punto fermo è che questo mondo, quello in cui viviamo, ha un estremo bisogno di azioni umanitarie e di umanità» sottolinea l'operatore. «Tra il 2019 e il 2020 le persone bisognose di assistenza umanitaria sono passate da 131 a 168 milioni: sfollati e rifugiati hanno superato i 70 milioni. Numeri mai visti, a fronte dei quali gli stanziamenti destinati agli interventi sono cresciuti da 22 a 29 miliardi di dollari: insufficienti già prima dell'emergenza sanitaria».
Come prevedibile, infatti, la pandemia ha esasperato tutte le situazioni di fragilità e i bisogni hanno subito una repentina e drammatica impennata. Tra i 40 e i 60 milioni di persone, secondo la Banca mondiale, stanno precipitando nella povertà estrema. Aumenta la fame, quella vera: secondo le previsioni, la fascia di individui che non riusciranno a provvedere al fabbisogno alimentare potrebbe raddoppiare, raggiungendo i 265 milioni e lasciando adombrare lo spettro, purtroppo molto reale, secondo i dati del Programma alimentare mondiale, di carestie multiple e diffuse in diverse aree del mondo. A causa dell’interruzione dei programmi di vaccinazione, molti bambini potrebbero non superare l'anno per cause prevenibili.
Intanto, in molte regioni, si registra la crescita esponenziale, oltre al coronavirus, di morbillo e colera. Non solo. Non è trascurabile, poi, l'effetto prodotto dal lockdown, imposto in buona parte del mondo allo scopo di contenere la diffusione dei contagi, sulle vulnerabilità già esistenti: donne e bambini oggetto di violenza, perseguitati per ragioni politiche o razzismo, disperati schiacciati nella loro solitudine ed emarginazione. Un dato, in tutto questo, non può lasciare indifferenti: «La tendenza a ridurre i fondi tra il 2020 e il 2021 e che sta già sortendo effetti drammatici, ad esempio nella crisi yemenita — rimarca ancora Moschochoritis — per la quale l’ultima conferenza dei donatori ha stabilito un dimezzamento delle risorse rispetto all'anno precedente». Occorre, dunque, interrogarsi su quale mondo immaginiamo: se è vero che nulla sarà come prima, in quale direzione intendiamo andare? «Se condividiamo il cammino verso un modello inclusivo e solidale, è il momento di rilanciare una battaglia di riaffermazione dello spazio umanitario: lo spazio in cui si realizza l’idea di un'umanità in cui ci riconosciamo».
I media stessi non possono esimersi dalla responsabilità di tenere alti interesse e attenzione sui valori umanitari, senza dimenticare che, pur avendo radici profonde, il diritto umanitario ha una storia relativamente recente e, forse, non può essere dato per scontato. C'è un enorme bisogno di comprendere e testimoniare, soprattutto, ai più giovani le esperienze di vita di chi ha scelto di dare qualcosa di sé al prossimo: «Tra noi ci sono tanti giovani professionisti, molti italiani, preparatissimi e motivatissimi. E ci sono migliaia di operatori locali nei paesi in cui lavoriamo, altrettanto preparati, ancora più esposti ai rischi delle crisi in cui sono quotidianamente immersi: non meritano di essere abbandonati sulla prima linea».
(fonte: l'Osservatore Romano, articolo di Silvia Camisasca 18/08/2020)