di Enzo Bianchi
rubrica "Bisaccia del mendicante"
pubblicato su "Jesus" - Giugno 2018
Si narra che le perle nascano dal dolore: quando un granello di sabbia trasportato dalle onde penetra nella conchiglia di un’ostrica, questa avverte una puntura e per liberarsi del dolore, piange, secerne una lacrima che avvolge progressivamente il granello di sabbia fino a renderlo non più offensivo. Solo le ostriche che conoscono la sofferenza inferta loro del granello di sabbia piangono e creano le perle, splendenti, lisce, rotonde, quelle che non a caso chiamiamo anche “gioie“.
Ma noi, sappiamo ancora piangere? La sorpresa che suscita questa domanda è già di per sé indice del progressivo affievolirsi della presenza di questo atto eminentemente umano nel nostro quotidiano. Oggi si piange poco, le lacrime si sono fatte più rare. Certo, ci sono lacrime e lacrime: “lacrime vuote”, addirittura false lacrime, lacrime non convinte, “lacrime di coccodrillo”… Il linguaggio stesso che le lacrime veicolano può essere pervertito: conosciamo tutti quanti adulti si affidano al pianto – l’eterno linguaggio infantile per chiedere cibo, richiamare l’attenzione o manifestare un dolore – per ottenere qualcosa, per strappare un beneficio, per ingannare un sentimento…
Le ricerche storiche attestano secoli o epoche in cui si piangeva molto, e di questo sono testimoni la letteratura, la musica, la pittura, la pietà popolare, la spiritualità.
Oggi invece piangiamo poco e facciamo fatica a lasciarci vedere nel pianto, anzi spesso anche nel dolore e nella sofferenza abbiamo gli occhi secchi: occhi secchi nelle situazioni cariche di dolore, occhi secchi perché abituati a vedere la sofferenza umana, occhi secchi perché temiamo di mostrarci nel pianto, quasi che questa situazione fosse indice di una nostra debolezza, una nostra indegnità.
La diffidenza verso le lacrime, del resto, è antica: i filosofi greci, per esempio, dicevano che le lacrime sono segno di debolezza, che sono le donne a piangere. Platone ricorda che Socrate stesso era critico sulle lacrime dei suoi amici che assistevano al suo suicidio con la cicuta in ottemperanza alla legge: solo Fedone piangeva! Così pure nel mondo latino Marco Aurelio, l’imperatore sapiente, propone l’apatia, l’atarassia come virtù in grado vincere le tentazioni del pianto.
Ma le lacrime sono il segno di sentimenti umani precisi, sentimenti che gli esseri umani vivono, sentimenti da prendere sul serio, che abbisognano di essere espressi materialmente, visibilmente. Altrimenti cosa ne sarebbe dell’unità della persona?
Se una persona non sa piangere, non sa neanche ridere: è una persona in cui il pudore si è trasformato in aridità, rendendo il suo cuore calloso, malato di sclerocardia. Maurice Bellet, recentemente scomparso, denunciava la situazione oggi dominante, presentandola come segnata da un preciso sintomo: “un’anestesia generale”, che appare sotto la forma dell’indifferenza, dell’abitudine a vedere lo spettacolo del male. Diciamo la verità: oggi è più facile vedere piangere delle persone in una fiction televisiva strappalacrime, piuttosto che vedere qualcuno piangere davanti al male reale, concreto, perché il male è rifuggito, oscurato, rimosso il più possibile dal vivere quotidiano.
Dobbiamo constatare – senza per questo finire per condannare in modo moralistico l’attuale società – il prevalere della dominante utilitaristica, per la quale il bene e il male sono ridotti a ben-essere e a mal-essere! Ogni piacere è un bene, ogni pena è fatica sono un male. Di conseguenza, è in atto una ricerca ossessiva del piacere, del massimo benessere possibile. Ciò richiede di tenere lontano tutto ciò che, per l’appunto, minaccia il nostro benessere, di non vedere la sofferenza, di rimuovere tutto ciò che ci può far piangere.
Roland Barthes, nei suoi Frammenti di un discorso amoroso, si chiedeva:
“Chi scriverà la storia delle lacrime? In quale società, in quali epoche si è pianto? Da quando gli uomini hanno smesso di piangere? Che ne è della sensibilità?”.
È un appello accorato a restare attenti alle lacrime, a imparare a a discernerle, a comprendere ciò che esse vogliono esprimere quando escono dagli occhi di persone che soffrono; quando colano sulle guance dei bambini; quando appaiono lente sui volti inespressivi di vecchi colpiti da demenza senile. Ma impariamo soprattutto a piangere con chi piange e a rallegrarci con chi si rallegra (cf. Rm 12,15; 1Cor 12,26). Allora le lacrime faranno in noi il loro lavoro, come le lacrime dell’ostrica:
ci doneranno una perla preziosa!