Ancora morti e dispersi nel Mediterraneo, tre bambini annegati
Mentre in Europa si cercano a fatica accordi sulla gestione della crisi dei migranti, nel mar Mediterraneo si continua a morire. Tre neonati sono annegati e circa 100 persone risultano disperse dopo il naufragio di un'imbarcazione di migranti avvenuto ieri al largo della costa libica. Le piccole vittime della tragedia in mare sono state portate a terra - nella regione di Al-Hmidiya, 25 chilometri a Est di Tripoli - insieme alle persone che si sono salvate e ora portano la testimonianza di quanto è accaduto.
I testimoni hanno detto che a bordo c'erano molte famiglie marocchine e cittadini yemeniti. Tra i dispersi figurano due neonati e tre bambini di età compresa tra 4 e 12 anni, così come tra le 10 e le 15 donne.
Adesso troviamo il coraggio: parliamo di morti
di Domenico Quirico
I morti: per favore, per una volta invece dei vivi, dei migranti vivi, quelli che ci ingombrano, che
non sappiamo ripartire come armenti, dei flussi, degli utili e degli inutili, degli aventi diritto e dei
clandestini, si abbia il pudore di non parlare.
Contiamo gli altri, i morti, i migranti morti.
Guardiamo il mare, un chioccolio di acque calme, l’acqua viva, qua e là, di chiazze iridescenti di
petrolio. Uomini portano a riva piccoli cadaveri con vestiti colorati.
Diciamo la verità: non
sapremmo enumerarli tutti questi morti. Sono tanti, sono dappertutto, in ogni lembo del
Mediterraneo, ieri davanti alla Libia e a Lampedusa e nelle acque delle isole greche.
Se ci
provassimo a contarli, i morti, quelli che rientrano nelle statistiche, ebbene ne dimenticheremmo
sempre la metà. Forse di più, quelli che non sappiamo, i naufragi senza nome, di cui non abbiamo
trovato i segni.
Sì. Parliamo dei morti. Se ne abbiamo il coraggio.
Attenti. Ne avete chiacchierato amabilmente, mentre loro affogavano davanti alle tavole, imbandite
dei vostri vertici.
Così: numeri, piccole battaglie diplomatiche, la limatura geniale e grottesca di un
aggettivo, volontario... non volontario, destini umani.
Attenti perché i morti sono implacabili. Con i
vivi si può essere avari: ma con i morti no.
Dove sono le vie di uscita per aggirarli, per far finta che non esistano? Dove li possiamo
nascondere, in preda al comodo oblio, le storie di ciò che sono stati?
Non basteranno gli occulti
mattatoi degli anni, i ghirigori delle competenze, la carta bollata del tocca a te, la geografia dello
scaricabarile diplomatico.
I morti sono lì, implacabili, irrimediabili. Ci guardano.
La solitudine c’è,
forse, solo per i vivi. Rispetto ai morti non c’è solitudine, i morti sono sempre qui.
Quelli di ieri, e gli altri prima di loro, si insinueranno in ogni nostra singola ora. È il loro destino, la
loro vendetta.
Ci chiederanno conto: chi siete voi? La vita anche la mia, la nostra non è sacra per
voi?
Uccideranno, loro, le nostre bugie. Fino a quando ci scopriremo anche noi morti.
Raccontano
che i naufraghi sono rimasti a lungo in acqua aspettando i soccorsi, prima di affogare.
Nascondiamo, per favore, almeno per oggi i vuoti documenti di Bruxelles, le millanterie, il falso
vigore della chiacchiera. Parliamo soltanto di quel tempo che hanno passato in mare: quelle che
sono le ore che contano tra la vita e la morte. Proviamo a immaginare qual era l’oggetto più
prezioso che si erano portati dietro su quella barca dannata, l’ultimo frammento, si illudevano del
loro viaggio infinito: un paio di scarpe, un telefonino, una foto del villaggio, di una madre?
I
naufragi dei migranti, la loro immondizia santificata dalla morte.
Non neghiamo nulla, non saltelliamo via.
Salveremo ciò che siamo solo se sapremo guardare questi
morti, immutabili, ormai lacerati dalla sofferenza, ma non sfigurati, caparbi, immortali.
(fonte: “La Stampa” del 30 giugno 2018)