Il naufragio di Lampedusa, quattro anni dopo: "Sembravano rassegnati a morire"
Parla Renato Solustri, comandante del nucleo carabinieri sommozzatori di Roma, uno dei sub che partecipò ai primi soccorsi e che poi è entrato nella stiva del barcone carico di migranti naufragato il 13 ottobre 2013 a poche miglia dal porto di Lampedusa. Una strage di oltre 350 persone. “Nella mia mente come dei flash, immagini incancellabili. Fra i corpi e gli oggetti si sentiva la disperazione ma anche la voglia di ricominciare”.
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“Figlio mio in fondo al mare ho visto l’orrore e piango ancora”
di Renato Sollustri
in “la Repubblica” del 1 ottobre 2017
Il maggiore Renato Solustri, che oggi ha 56 anni, è il comandante dei carabinieri subacquei di Roma che con i suoi uomini riportò a galla i cadaveri rimasti prigionieri nel barcone affondato davanti a Lampedusa il 3 ottobre 2013. All’epoca, subito dopo aver finito il suo lavoro, scrisse questo messaggio via Facebook al figlio.
Ciao Tommy, siamo appena usciti dall’acqua. Questa mattina ci siamo alzati molto presto perché il mare è piatto e ci permette di lavorare in sicurezza. Ne mancano all’appello 3 e, su 517, è un successo anche se, si parla sempre di vite umane. È molto strano che un padre scrive al proprio figlio tramite mex o, in questo caso, tramite Fb. Un tempo c’erano le lettere e le cartoline. Questo era un modo molto più affascinante di comunicare, anche se, la risposta arrivava almeno dopo una settimana! Come sai, mi sento molto spesso con la mamma. I primi due giorni è stato terribile: ho mandato sms anche a lei perché non riuscivo a parlare dalla commozione. Ti chiedo scusa per non aver provato a fare una chiacchierata con te ma, avresti sentito un papà singhiozzare senza spiccicare una parola. Mi rode il fatto di aver dovuto recuperare decine di ragazzi della tua età, che scappavano da una nazione dove il loro futuro era solamente la morte. Sono ragazzi che non potranno mai giocare alla Play o avere un cellulare “figo” o magari, andare a vedere un film con amici. Non potranno mai più sentire le risate di gioia tantomeno, le congratulazioni per aver preso un bel voto a scuola. Non sentiranno nemmeno la stretta delle braccia della mamma... come quella stretta che stava dando una mamma al suo bambino all’interno della cabina del peschereccio. Sai una cosa, mi viene da sorridere quando, ogni volta che stiamo per qualche giorno lontani, ci abbracciamo tutti e tre e ci diciamo: «... la mia famiglia...». Solo ora riesco a capire l’importanza di queste semplici parole. Camminiamo per le strade di Lampedusa e, i superstiti al naufragio, ci salutano e ci chiamano eroi. Non credo a quest’ultima parola ma, di certo, vedo nei loro sorrisi, la speranza che deve avere obbligatoriamente qualsiasi ragazzo della tua età. Vabbè, ti lascio alla tua giornata. Torno a casa il 16. Mi raccomando, non perdiamo la tradizione del nostro abbraccio e, della nostra straordinaria frase «la mia famiglia». Ti voglio bene. Papà
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