di Maria Teresa Pontara Pederiva
Nel suo ultimo libro padre Giulio Albanese
analizza le cause degli squilibri mondiali
invitando i cristiani
a seguire la svolta del magistero
di papa Bergoglio
Si potranno anche non condividere le analisi sulla situazione economica nel mondo, ma possiamo forse come cristiani restare indifferenti al grido dei poveri della terra? Il grido di quelle migliaia di bambini, donne e anziani che non sono numeri da indicare in statistiche, bensì esseri umani e figli di Dio, ciascuno con il suo volto e la sua storia, minacciati da fame, pandemie, guerre, persecuzioni?
Giulio Albanese, religioso comboniano e giornalista, impegnato da anni a far conoscere la realtà dei poveri della terra, è uno che si fa portavoce di questo grido. A dirlo è il cardinale tedesco Walter Kasper nella prefazione del suo ultimo libro a loro dedicato.
Non un testo di teorie economiche con risposte di carattere tecnico, ma, dopo una seria analisi degli squilibri globali, delle reali cause del fenomeno migratorio di oggi e delle sfide che la politica dovrà decidersi ad affrontare, una risposta c’è ed è proclamata in maniera chiara e forte: l’insegnamento del Vangelo. Di qui il titolo «Poveri noi!» che deriva direttamente dal discorso delle Beatitudini. Non è un caso – sottolinea Kasper – che proprio quella frase di dom Helder Camara ricordata spesso anche da papa Francesco (tra l’altro anche nel libro-intervista curato da Giacomo Galeazzi e Andrea Tornielli «Questa economia uccide» Piemme 2015) sia stata posta all’inizio del testo. «Quando io do cibo ai poveri, mi chiamano santo. Quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, mi chiamano comunista». L’espressione dell’arcivescovo di Recife, strenuo difensore dei «suoi» poveri e di tutti i derelitti della terra, spiega come le due questioni rappresentino in realtà due facce della stessa medaglia. Ma non tutti lo capiscono e, nonostante papa Bergoglio, abbia riportato con forza il problema all’attenzione del mondo e della Chiesa (il sogno di «una Chiesa povera per i poveri») il cammino è ancora in salita e sono ancora tanti i cristiani che guardano con una certa sufficienza al tema della povertà, quasi che si trattasse di un refuso e non dell’essenza stessa del Vangelo. Che poi è quanto aveva compreso già Francesco d’Assisi – di qui il nome scelto da Bergoglio – e indicato chiaramente dal Vaticano II (i termini «poveri» e «povertà» sono richiamati rispettivamente 42 e 21 volte nei documenti conciliari).
Non si tratta della risposta che i supponenti tacciano come «ingenua» a fronte di un immane cambiamento epocale, bensì dell’invito pressante ad una conversione, anzi, come scrive Albanese di «evangelica contraddizione». Perché una lettura non strabica del Vangelo ci obbliga ad aprire gli occhi e i cuori ad una visione molto più ampia e profonda. È un invito ad «un cambiamento di rotta dalla mentalità individualista, spesso chiusa negli stretti confini nazionali o familiari e di clan, da una post-modernità deragliata, che ha tradito le grandi idee dei diritti umani, a un atteggiamento di condivisione dei beni terrestri, che secondo il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa, riaffermata già dagli ultimi papi, appartengono a tutti».
La conseguenza non è affatto quella prospettata da quanti, pur dall’interno - «gerarchie ecclesiastiche come anche frange dei christifideles laici» - frenano allarmati manifestando «una celata dissidenza, fatta di silenzi farisaici misti ad imbarazzanti mormorazioni o addirittura palesi denunce, rigurgiti inquietanti di una Chiesa fatta di merletti e candelabri, decisamente preconciliare». Non si tratta di pauperismo fine a se stesso, di esaltazione della miseria per motivazioni diverse, né dell’atteggiamento paternalista di chi dà in elemosina qualcosa del (tanto) superfluo – seppure tutto abbia comunque il suo valore – piuttosto è l’impegno in prima persona del condividere non solo «per» ma «con» i poveri, del lavorare per la promozione di un’economia sociale e sostenibile, un’economia che non escluda nessuno perché fondata sulla dignità di ogni persona e sulla centralità del lavoro umano in ogni regione del pianeta, come sollecita Bergoglio dalla sua elezione.
E padre Albanese, ancora una volta, come tanti suoi confratelli missionari prova ad indicare la strada, a ribadire che siamo di fronte ad un’idolatria del mercato che accumula risorse e denaro nelle mani di pochi abbandonando altri, troppi nella povertà talvolta assoluta di chi non ha nulla. Significativa la conclusione con una frase mutuata dall’antica saggezza dei popoli d’Africa «capace di capovolgere tutta l’ideologia individualista postmoderna»: «Io sono perché gli altri sono».
Occorre proiettarsi al di là della «miopia dell’anima» denunciata da papa Francesco attraverso il suo magistero, per certi versi spregiudicato, per traghettare oltre quella teologia disincarnata di quei devoti che relegano, quando fa loro comodo, volentieri la fede in sacrestia dimenticando che il Verbo si è fatto carne. È l’incapacità di cogliere non solo la profezia di un papato che supera l’eredità pesante di una Chiesa costantiniana (Francesco d’Assisi e il papato hanno rappresentato per secoli due distinti archetipi della cristianità), ma «il rifiuto dichiarato di coniugare le istanze dello spirito e della fede con i bisogni esistenziali di chi deve lottare o addirittura sopravvivere».
Perché l’«eco-teologia» della Laudato si’, fondata sul valore della «Casa comune» è l’espressione di una svolta radicale per la causa del Regno, «l’opzione – scrive Albanese – che trova la sua massima espressione sacramentale nella Fractio panis e la sua concretizzazione nelle parole di Gesù come leggiamo nel libro degli Atti: “Si è più beati nel dare che nel ricevere!” (At 20,35)».
La povertà allora – intesa non come miseria, ma nel suo significato di non attaccamento ai beni - è o non è un valore? La domanda si ripropone oggi con forza proprio a causa del pontificato di Bergoglio e su questo crinale si gioca la sfida della Chiesa contemporanea, sostiene il comboniano. Non c’è infatti in gioco solo la credibilità dell’istituzione ecclesiastica, ma anche il destino di milioni/miliardi di esseri umani. È una sfida che, da san Francesco e i suoi Minori fino ai preti operai e alla teologia della liberazione, ha intrecciato, con un eufemismo “senza troppo successo”, la storia della Chiesa, ma che prima o poi era destinata a riaffacciarsi prepotentemente alla ribalta perché il grido dei poveri non è destinato al silenzio.
Il racconto di padre Albanese è minuzioso, scritto con la competenza dello storico e con la lungimiranza del sociologo che guarda l’oggi e si proietta nel futuro, ma è soprattutto dalla sua esperienza di missionario e dal magistero di papa Francesco che trae la sua conclusione: «la povertà “il mysterium magnum” del Concilio, non è solo un fine, ma il mezzo stesso, la via della riforma che egli intende attuare alla Chiesa».
Il suo è un appello a tutti i credenti in Cristo, ma è altresì un appello rivolto agli ordini e congregazioni religiosi perché ritrovino l’autentico spirito originario come ricorda ancora papa Bergoglio nella «Lettera nell’Anno della Vita Consacrata» (28 novembre 2014).
Mai come oggi occorre non gettare la spugna, conclude Albanese citando Bauman: «Essere morali significa non sentirsi mai abbastanza buoni». «La sfida contro lo scandalo della povertà prima ancora che essere sociale, politica, economica, è culturale».
(Fonte: Vatican Insider - Recensioni)
Giulio Albanese, «Poveri noi! Con Francesco dalla parte dei poveri» (prefazione di Walter Kasper), Edizioni Messaggero Padova, 2017, pp. 184, € 15,00