di Alberto Melloni
Secondo la tradizione 500 anni fa il padre della Riforma affisse le 95 tesi a Wittenberg Un episodio mai avvenuto ma che dimostra quanta leggenda ancora circonda la sua figura Oltre le tante maschere resta il nocciolo duro del personaggio: un cristiano deciso a porre la scrittura e la grazia davanti a tutto
Aveva quarantacinque anni Lucas Cranach in quella fine ottobre del 1517. S' era guadagnato una prima fama dipingendo a Vienna crocifissioni originalissime, come quella del 1503 (ora a Monaco), con i condannati posti attorno a Maria e Giovanni. Dal 1505 era entrato a servizio dei principi elettori di Sassonia a Wittenberg: la "città" (duemila anime) in cui Federico il Saggio voleva far nascere un suo ateneo e dove era stato chiamato, poco dopo di lui, Martin Luder, monaco agostiniano, prima professore di etica e poi di sacra scrittura, autore di commentari biblici importanti. Figura inquieta e travolgente a cui viene attribuito un gesto che è entrato nell' immaginario collettivo: l' affissione, esattamente 500 anni fa, delle 95 tesi alla porta della chiesa del castello di Wittenberg.
Un gesto mai avvenuto: Lutero non prese il martello né i chiodi, non numerò le tesi, e non affisse proprio nulla; semplicemente sollevò in una serie di punti, in una disputa accademica, il tema della disgustosa compravendita delle indulgenze che svenava la Germania e minacciava la fede.
Un appello ai dotti e agli ecclesiastici, che però, dopo pochi anni, assunse nella leggenda la forma eroica dell' affissione e della sfida. Una scena immaginaria che altri artisti hanno ritratto, e che è diventata cinema con Joseph Fiennes (quello di Shakespeare in love, per intenderci) protagonista di Luther (2003). Un' iconografia fasulla opposta alla quale c' è la ritrattistica di Cranach (e dopo di lui dei suoi figli), diventati i gestori dell'"immagine" di Lutero nei dipinti: da quello dal fondo immobile in cui spiccano lo sguardo e le occhiaie del riformatore a quello funebre che lo ritrae morto, con la faccia gonfia e la testa sprofondata nel cuscino su cui si spense trentuno anni dopo l' inizio di quella che tutti, a buon diritto, chiamano "la" Riforma.
Ecco perché adesso - ancora una volta, come a ogni celebrazione - il ricorrere dell' anniversario di quella svolta condita di leggenda interroga la coscienza delle chiese, la storiografia e la cultura: ponendo una di fronte all' altra le letture di quell' uomo, crinale e cerniera di mondi ed epoche.
E ancora oggi, nel cinquecentesimo anniversario di quell' inizio la "cosa" Lutero domanda una interpretazione alla quale non sfugge nessuno: sia chi sa tutto di Lutero, sia chi ne sa niente, sia chi è a mezza via. Forte, fortissima è la tendenza a leggere Lutero come l' inventore della modernità e delle sue libertà. Era la tesi dei suoi nemici e lo è stata per tanto tempo dentro il confessionalismo cattolico: dove appunto si dava del protestante come un insulto a tutto ciò che sembrava dotato di una dose di libertà e di coscienza di sé superiore a quella accettabile dal bigottismo ideologizzato.
Ma è stata anche la linea di un apprezzamento sincero per il monaco che, cercando di spogliare dagli orpelli la vita di fede, è stato posto all' inizio di una età della soggettività. Sono i sostenitori di questa tesi che nella frase detta da Lutero davanti all' imperatore ragazzino Carlo V a Worms, col rischio di diventare l' ennesimo arrosto di riformatore - «qui io sto e non posso far diverso, amen» - notano che l' unica parola ripetuta era appunto io: un "io" nuovo, distante da quello del Quattrocento. È questo Lutero che a differenza di Colombo, partito per il nuovo mondo in cerca dell' oro necessario a fare la crociata su Gerusalemme e incappato in un continente sconosciuto, avrebbe invece scoperto, come scrive l' ultimo bel lavoro di Adriano Prosperi, il continente della libertà.
Falso? Assolutamente no: perché Lutero è personaggio così grande da portare e sopportare anche il rischio dell' eccesso di interpretazione. Così come è in grado di reggere e sorreggere la discussione sul suo essere l' ultimo dei medievali e il primo dei moderni, che vede dibattere in Germania i tre "tenori" della storiografia luterana, il grande storico berlinese Heinz Schilling (intervistato lo scorso giugno su queste pagine), Thomas Kaufmann e Volker Leppin. Ed è anche in grado si resistere alla insopportabile semplificazione che vede incarnata nella figlia del pastore Kasner (la cancelliera Angela Merkel) una cultura politica ispirata al rigore "luterano", e in noi, terroni europei, una "cattolica" inclinazione all' autoindulgenza.
In realtà proprio le dimensioni teologiche, politiche, culturali di Lutero, domandano e impongono una lettura più profonda: che cerchi di capire non solo a cosa Lutero è "servito", o a cosa si vorrebbe fosse "servito". Ma cosa Lutero è stato e ha voluto essere: cioè un cristiano che in un mondo pronto ad accontentarsi di Erasmo e delle sue svenevoli finezze, ha travolto tutto ponendo davanti la fede, la scrittura, la grazia nella loro nudità. Con la durezza insopportabile di una persona insopportabile: insopportabilmente violento, insopportabilmente antiebreo, insopportabilmente ardente. Ma che dentro tutto questo ha portato una attesa di salvezza che ha cambiato il mondo e ha trascinato nella riforma anche il grande antagonista papista: perché, pur nella condanna e nel rifiuto, il papato dopo Lutero non è più stato quello di prima e ha dovuto iniziare una ricerca di autenticità evangelica di cui noi forse oggi vediamo non un approdo ma un frutto
(Pubblicato su "La Repubblica del 31.10.2017)