Montenegro. «Bisogna rispondere a tutti i poveri.
Serve coraggio, non c'è più tempo»
Intervista al Card. Montengro di Diego Motta
Per il cardinale e presidente di Caritas «se solo una parte di chi è indigente potrà ricevere dei vantaggi, è evidente che occorrerà tutti aprire un po’ di più il nostro cuore»
La povertà non aspetta, «le mani tese degli ultimi sono mani che graffiano. A loro non si può dire: un giorno toccherà anche a te. È necessario intervenire subito». Il cardinale Francesco Montenegro tratteggia, una per una, le immagini di un Paese che fatica ad arrivare a sera. «C’è chi dorme per strada, chi rovista nei cassonetti. Ci sono intere famiglie che vanno alle mense degli indigenti e si portano appresso tanti di quei bambini, chi ha perso il lavoro a 50 anni e si è ritrovato solo. Sono tanti quelli a cui non si sta pensando. Una cosa è certa – dice l’arcivescovo di Agrigento e presidente di Caritas italiana –: se uno dovesse guardare ai numeri, i poveri oggi in Italia sono molto di più di quelli a cui ora si sta rispondendo». Sullo sfondo c’è la legge di Bilancio presentata ieri dall’esecutivo che, tra le altre misure, prevede l’importante introduzione del Reddito d’inclusione nella lotta contro la povertà, che darà risposte a 1,8 milioni di persone, il 38% del totale della popolazione in povertà assoluta. Che fare del restante 62% di italiani esclusi? «Se solo una parte dei poveri potrà ricevere dei vantaggi, è evidente che occorrerà tutti aprire un po’ di più il nostro cuore», osserva Montenegro, alla vigilia della Giornata internazionale per l’eliminazione della povertà.
Quale deve essere l’obiettivo, in una fase storica come questa?
Dobbiamo andare al di là della mera contabilità dei beneficiari e pensare invece a chi resterà escluso dai nuovi provvedimenti. Sono in tanti coloro che non riescono oggi ad avere il necessario per vivere e questa platea di persone va considerata nella sua universalità. Richiede la giusta attenzione. Subito, sin da oggi. Non è altro che un discorso di equità e giustizia.
Il Papa, parlando alla Fao, ha invitato a inserire la categoria dell’amore nel linguaggio della cooperazione internazionale...
Francesco ci dice che bisogna agire con amore e per amore. La carità è rispondere alle necessità dell’altro. Ripeto: non è elemosina, è ricerca di giustizia. Anche Benedetto XVI sottolineava l’importanza della carità nella costruzione di un’economia più giusta. L’amore ci spinge a guardare al di là di noi e ci invita ad avere coraggio nel fare scelte diverse.
Secondo molti osservatori, i primi segnali dati in materia di povertà sono già incoraggianti. Quanto si potrà aspettare per vedere interventi ancora più incisivi?
Le mani tese sono mani che graffiano, che ci interrogano sulle decisioni prese. Ci dicono anche che, se si può, si deve dare una risposta oggi. I poveri dicono: se oggi voglio vivere, devo essere aiutato. Non si può rispondere: vedrai, un giorno toccherà anche a te. Non c’è tempo. Tutti ormai sappiamo che in un mondo globalizzato, chi paga il prezzo più alto è il povero. Le ri- sorse siano meglio distribuite, si faccia di tutto per garantire dignità a chi non ha nulla. Senza distinzioni.
A questo proposito, cosa pensa di chi agita lo spettro di una guerra latente tra italiani e stranieri dentro le nostre comunità?
Come presidente di Caritas, non ho mai fatto la scelta a favore di uno contro gli altri. Invece, chi vuol cavalcare l’onda della paura, dice esattamente l’opposto: prima noi, poi loro. Distinguere non è carità. Per il credente, ogni volto è volto di uomo e volto di Cristo. Ma anche per chi non crede, volere il bene del prossimo, chiunque esso sia, è questione di coscienza.
Accoglienza e integrazione sono due fasi diverse di un processo delicato: come procedere, a suo parere?
Lavorare per l’integrazione dei migranti vuol dire chiedersi come possiamo stare bene insieme. È nell’accoglienza reciproca che si può iniziare a camminare. Lo stesso discorso vale per la gestione degli arrivi nel nostro Paese. Riusciremo a regolamentare i flussi nel momento in cui ci daremo da fare perché anche in Africa ci si muova con intelligenza: se quel continente resterà per l’Occidente terra di conquista, da cui poter prendere ciò che mi serve per stare bene, come fanno le multinazionali, non si faranno passi avanti. Se, al contrario, sapremo ottenere vantaggi condivisi dall’incontro tra popoli diversi, le nostre civiltà non potranno che trarne beneficio.
(Pubblicato su Avvenire il 17.10.2017)