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lunedì 3 giugno 2013

La beatificazione del prete di Palermo e i funerali del “prete da marciapiede” Il Vangelo degli ultimi di don Gallo e don Puglisi

La beatificazione del prete di Palermo
e i funerali del “prete da marciapiede”


Il Vangelo degli ultimi di don Gallo e don Puglisi

Due eventi scuotono la coscienza della Chiesa in questi giorni: la celebrazione della beatificazione di don Pino Puglisi a Palermo con la partecipazione di decine di migliaia di fedeli, e i funerali di un sacerdote come don Andrea Gallo, simbolo di un cattolicesimo di base spesso al limite dell’irriverenza dottrinale ma sempre vicino ai più emarginati, dai tossicodipendenti, agli immigrati, alle prostitute. Si tratta di due percorsi di vita assai diversi fra loro eppure coincidenti nella scelta di un Vangelo dalla parte degli ultimi: il quartiere Brancaccio a Palermo, la Comunità di San Benedetto al porto a Genova. Don Gallo ha anche praticato l’impegno politico, la battaglia controversa, il discorso pubblico su temi scomodi pure per la dottrina; Don Puglisi è stato di certo un educatore, un prete coerente, che ha provato però a svuotare il lago in cui nuotavano i pesci mafiosi. La Chiesa italiana trova dunque due modelli, esempi di vita popolari, lontani da quell’immagine un po’ retorica e alla fine quasi imbalsamata della Chiesa degli ultimi anni, con gerarchie forse fin troppo ufficiali e formali nelle loro pose, nelle photo-oppotunity con i vari governanti che si sono succeduti.

La realtà dell’episcopato è certo più complessa, molti sono i pastori impegnati nei territori, eppure sembra che lo stesso presidente della Cei Angelo Bagnasco sia piuttosto in imbarazzo di fronte a questo sommovimento. Qualcosa di simile accadde nel settembre scorso con la morte del cardinale Carlo Maria Martini, quando sfilarono davanti alla bara del grande porporato 200mila persone a testimonianza che esisteva un’altra chiesa, viva, lontana dagli intrighi che in quel periodo scuotevano il Vaticano.

Bagnasco ha commentato con una certa prudenza, di fronte alla stampa, la beatificazione di don Pino Puglisi: il timore è quello che il sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993 possa diventare una sorta di “santo politico”, al di là della volontà e del controllo della Chiesa. Timore in certo modo fondato; da questo punto di vista, infatti, l’esempio di don Puglisi è già un modello evangelico che supera gli stretti canoni dell’ufficialità.

Don Pino Puglisi, ha detto il presidente della Cei, «è stato ucciso “in odium fidei”, per questo è martire. Una lettura diversa – la lotta alla mafia e al crimine organizzato – prevalentemente sociologica è gravemente riduttiva». Punto e basta. E tuttavia quell’odium fidei stabilito dalla causa di beatificazione, sta esattamente a significare che i fratelli Graviano, mandanti dell’omicidio, hanno ucciso un sacerdote perché non tolleravano proprio il fatto che il prete combattesse la criminalità organizzata attraverso l’educazione, cioè provando a portare via manovalanza futura a Cosa Nostra restituendo un’altra scala di valori ai giovani dei quartieri estremi di Palermo.

È quindi la mafia che uccide in odio alla fede: per la Chiesa del Mezzogiorno di tratta di una rivoluzione che andrebbe rivendicata con forza e che arriva dopo una lunga storia di convivenza e a volte connivenza delle strutture ecclesiastiche locali con il fenomeno mafioso. Non per caso sull’Osservatore romano che porta la data di oggi, il postulatore della causa di beatificazione, l’arcivescovo di Catanzaro, monsignor Vincenzo Bertolone, ha scritto: «Il suo martirio è stato il segno dell’insanabile e definitiva rottura tra Vangelo, mafia ed altre consimili società delinquenziali. È la profezia per l’oggi: la solitudine nella quale avvenne il suo martirio è diventata la compagnia della nostra azione». Non solo: «In ossequio alla loro religione i mafiosi uccidono Puglisi in odio alla sua, e ciò non può essere assimilato a un semplice problema di legalità o illegalità, giustizia e ingiustizia sociale: la mafia è una religione e non solo un fenomeno criminale, e non ammette altre fedi. È questo, e non altro, che ha provocato l’odio dei mandanti e dell’assassino, che sapeva bene di ammazzare un uomo della Chiesa di Cristo coerente con la sua fede, fino al martirio».

Si tratta, insomma, di uno di quegli eventi destinati a cambiare la storia della presenza della Chiesa nel nostro Paese a partire da quel Meridione crocevia non solo di crisi e problemi, ma spesso anche foriero di quei cambiamenti culturali e sociali in grado di investire l’intera penisola. L’eccesso di prudenza della presidenza della Cei, si spiega forse allora con la scarsa abitudine praticata in questi anni a confrontarsi con un mondo non pacificato, contraddittorio, terribilmente complesso. A celebrare la messa di beatificazione saranno in ogni caso l’arcivescovo di Palermo il cardinale Paolo Romeo e il cardinale Salvatore de Giorgi, in rappresentanza del Papa ex arcivescovo del capoluogo siciliano che diede il via alla causa di beatificazione.

La vicenda di don Gallo ha un profilo diverso, il prete genovese fu spesso in contrasto con i suoi superiori anche se non rinnegò mai la Chiesa e il suo ordine. Pure in questo caso l’arcivescovo di Genova è stato forse troppo avaro di parole di fronte a una personalità certamente non facile e che tuttavia si era conquistato una popolarità straordinaria in ragione della sua presenza fra gli ultimi. «Celebro i funerali di tutti i miei preti che tornano a Dio – ha detto Bagnasco – lo ritengo un mio dovere di padre. Con lui – ha ricordato – c’è stato sempre un dialogo franco e paterno. Don Gallo me lo ha sempre riconosciuto e io pure ne do atto. Veniva quando lo chiamavo, e anch’io sono andato da lui a San Benedetto al Porto dove è stato sempre in una struttura della Chiesa, la stessa dove lo aveva destinato il cardinale Giuseppe Siri. E mai nessuno lo ha messo fuori». Non molto. Forse anche per questo a concelebrare con Bagnasco ci sarà don Luigi Ciotti, un altro di quei preti impegnati che non rinunciano alla dottrina alla Chiesa ma che raccolgono un seguito straordinario in ragione della loro irriducibile testimonianza.
(fonte: Linkiesta, articolo di Francesco Peloso 25/05/2013)

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