Giuseppe Savagnone*
Per amore di Indi
Foto di Aditya Romansa su Unsplash
Voci di protesta
Ora che si è attenuato l’impatto emotivo della vicenda di Indi Gregory, la bambina inglese a cui, per ordine dei giudici, sono state sospese le terapie che ne consentivano la sopravvivenza, è forse il caso di fare alcune riflessioni su ciò che è accaduto e sulle reazioni che ha suscitato.
Senza, peraltro, alcuna pretesa di dire una parola definitiva su una storia dolorosa, che va accostata “in punta di piedi” e il cui solo commento adeguato, alla fine, potrà essere un rispettoso silenzio.
Le proteste sono venute in primo luogo dal mondo cattolico. Alcuni giornali hanno definito Indi una bambina «condannata a morte» («La Nuova Bussola Quotidiana», 11 novembre). «Famiglia cristiana» (11 novembre) ha parlato di «sentenza iniqua» e un opinionista equilibrato come Giuseppe Anzani, su «Avvenire» (7 novembre), si è chiesto: «Ma che giustizia è una giustizia che fa morire una bambina malata in ospedale dove i medici intendono cessare le terapie salvavita, togliendola letteralmente dalle mani dei genitori che chiedono di portarla altrove a cercare altre cure, con in cuore una speranza più grande del dolore?» .
Da un punto di vista molto diverso – politico piuttosto che etico-religioso –, gli organi di stampa di destra hanno dato grande risalto alla decisione del consiglio dei ministri di dare la cittadinanza a Indi per consentirne il ricovero presso il «Bambin Gesù». Così Antonio Socci, su «Libero» (12 novembre), ha scritto che «quell’atto del governo ha un significato culturale e politico: in un mondo che svalorizza sempre più la vita umana, afferma che l’essere umano ha un valore assoluto, anche se malato e disabile».
L’ideologia dell’infanticidio esiste davvero!
La denunzia, da parte del mondo cattolico, di una “cultura della morte” che giustifica l’infanticidio, è, in linea di principio, tutt’altro che infondata. In tutti i principali autori anglosassoni che trattano di questo problema la chiave per risolverlo correttamente è la distinzione tra “essere umano” e “persona”.
La prima espressione indica una costituzione biologica per la quale un individuo appartiene a una specie animale, senza che questo gli dia alcun privilegio rispetto agli esseri delle altre specie; la seconda invece si riferisce a un soggetto dotato di un unico e irripetibile valore e il cui diritto alla vita deve essere riconosciuto dalla società e alle sue leggi.
In questa logica, un noto bioeticista, Michael Tooley, in un articolo intitolato appunto “Aborto e infanticidio”, si chiede: «Quando un membro della specie homo sapiens è una persona?»; ovvero, «quali proprietà si devono avere per essere una persona, cioè per avere un serio diritto alla vita?».
La risposta è che, perché ci sia persona, si richiede quello che l’autore chiama «requisito di autocoscienza». Per lui, «un’entità che manchi della coscienza di sé come soggetto continuo nel tempo di stati mentali non ha diritto alla vita».
Dove per «coscienza di sé» si intende non solo una potenzialità – presente in ogni essere umano fin dalla formazione delle sue cellule cerebrali – , ma l’esercizio effettivo di questa consapevolezza, che si realizza solo quando il soggetto è presente a se stesso e pienamente vigile.
Ora, osserva Tooley, «l’osservazione quotidiana chiarisce in modo, credo, inoppugnabile, che un neonato non possiede un concetto di sé continuo nel tempo, non più di quanto lo possieda un gatto appena nato. Se è così, l’infanticidio per un breve intervallo di tempo dopo la nascita deve essere moralmente accettabile»
Su questa linea è un altro notissimo autore, Tristram Engelhardt, secondo cui «le persone in senso stretto vengono in essere solo qualche tempo – probabilmente qualche anno – dopo la nascita e probabilmente cessano di esistere qualche tempo prima della morte». E del resto, egli nota, anche nella civilissima Grecia si uccidevano i bambini malformati.
Un’osservazione condivisa da un altro “padre” della bioetica anglosassone, Peter Singer, il quale saluta come un grande progresso la prassi – secondo ormai lui oramai diffusa negli ospedali al tempo in cui scrive (il 1994) e avallata dai tribunali anglosassoni – di lasciar morire senza sofferenza gli infanti gravemente handicappati, per esempio i down, ritenuti «sostituibili» da bambini sani.
Il caso di Indi
Paradossalmente, però, proprio nel caso di Indi Gregory questo spaventoso scenario ideologico non sembra avere avuto un ruolo decisivo. La bambina era affetta da una rara patologia genetica inguaribile, che già da ora le rendeva impossibile sopravvivere senza supporti tecnici e condannava il suo organismo a un progressivo deterioramento, destinato a concludersi in tempi brevi, naturalmente, con la morte.
In questa situazione, c’era davvero il rischio dell’ “accanimento terapeutico”. Un comportamento medico che già Giovanni Paolo II, nell’enciclica Evangelium vitae, ha voluto chiaramente distinguere dall’eutanasia: «Quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile» – scrive il pontefice, citando la “Dichiarazione sull’eutanasia” della Congregazione per la Dottrina della Fede – «si può in coscienza “rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi” (…).
La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte» (n.65).
L’accanimento terapeutico, definito più propriamente “accanimento clinico”, è stato recentemente stigmatizzato dal Comitato nazionale per la bioetica» in una mozione approvata il 30 gennaio 2020 e particolarmente pertinente per il nostro problema, intitolato: «Accanimento clinico o ostinazione irragionevole dei trattamenti sui bambini piccoli con limitate aspettative di vita».
Nel documento si ricorda che è «dovere prioritario del medico l’astenersi dall’iniziare o dal prolungare trattamenti inutili e sproporzionati, soprattutto nei confronti di pazienti con prognosi infausta a breve termine e/o di imminenza di morte».
Fermo restando che non è di per sé inutile e sproporzionato un intervento che comunque consente al paziente di sopravvivere, bisogna chiedersi se questo non dia luogo – come sembra accadesse nel caso di Indi – a una situazione in cui le sofferenze superano di gran lunga i vantaggi della mera sopravvivenza.
Sulla stampa si è dato, comprensibilmente, molto risalto alla strenua opposizione dei genitori. Il loro desiderio di salvare in qualche modo la vita alla loro piccola è umanissimo e va rispettato. Ma non può essere il criterio ultimo.
A questo proposito ancora il documento del Comitato Nazionale di Bioetica fa presente che «per quanto riguarda i bambini piccoli va riconosciuto che nella prassi l’accanimento clinico è spesso praticato perché quasi istintivamente, anche su richiesta dei genitori, si è portati a fare tutto il possibile, senza lasciare nulla di intentato, per preservare la loro vita, senza considerare gli effetti negativi che ciò può avere sull’esistenza del bambino in termini di risultati e di ulteriori sofferenze» .
E queste sofferenze, nel caso di Indi, c’erano, ed erano terribili. Lo dicono le testimonianze e lo sottolineava il direttore dell‘Istituto «Mario Negri» di Milano, il professor Giuseppe Remuzzi, intervistato sulla vicenda, il quale, dopo aver spiegato che «la piccola stava molto male e niente avrebbe potuto aiutarla. In queste condizioni, tenere quel povero corpicino attaccato ad una macchina che respira vuol dire solo prolungare l’agonia», ha aggiunto: «Vi assicuro che stare in rianimazione espone a sofferenze devastanti».
Certo, che una malattia sia inguaribile non vuol dire che sia incurabile, che non ci siano cioè trattamenti in grado di rendere sopportatile la vita del paziente.
È su questo che si appuntano le critiche più pertinenti alla decisione dei giudici di non accogliere la richiesta del «Bambin Gesù». Come quella di Assunta Morresi, su «Avvenire» (13 novembre), la quale precisa: «Non è stata messa in dubbio la diagnosi dei medici inglesi e nessuno ha parlato di terapie salvavita: era stato prospettato un modo diverso di assistere la bambina in quel che restava della sua breve vita».
In linea, peraltro, con una delle raccomandazioni contenute nel documento del Comitato Nazionale di Bioetica, quella di «consentire una eventuale seconda opinione, rispetto a quella dell’equipe che per prima ha preso in carico il bambino, se richiesta dai genitori o dall’equipe curante».
Disponeva l’ospedale italiano di protocolli di cure – pur sempre palliative – non praticate dai medici inglesi e in grado di rendere meno penoso il rimanente periodo dell’esistenza di Indi? Per quanto mi sia sforzato di trovare dei dati certi su questo, non ci sono riuscito.
Dalla risposta a questa domanda dipende la valutazione della correttezza o meno della decisione dei giudici che hanno respinto l’ipotesi del trasferimento all’ospedale italiano. Ma sempre all’interno di un contesto molto problematico che in ogni caso, francamente, rende del tutto sproporzionato parlare, come è stato fatto, di «condanna a morte» della bambina.
Mentre questo giudizio sarebbe ben appropriato – ma stranamente di questo l’opinione pubblica non sembra si sia mai molto interessata – nel caso dei bambini down o malformati, perfettamente in grado di vivere, senza bisogno di apparecchiature artificiali, e che invece, stando a Singer, vengono fatti morire negli ospedali anglosassoni perché «sostituibili» da soggetti sani, la cui vita è più degna di essere vissuta.
Troppe Indi
Quanto alla tesi che l’impegno del nostro governo per il ricovero in Italia della bambina, «in un mondo che svalorizza sempre più la vita umana, afferma che l’essere umano ha un valore assoluto», sembra necessario distinguere.
Da un lato va apprezzato il comportamento del nostro esecutivo in questa singola circostanza. Ma va anche detto con chiarezza che esso non corrisponde alla linea che esso ha avuto e ha in generale nei confronti della vita dei minori.
Indi erano anche i bambini e le bambine annegati a Cutro per la mancanza di soccorso della nostra Guardia costiera, sostanzialmente giustificata dal ministro Piantedosi. Indi erano quelli morti nel Mediterraneo per le restrizioni paralizzanti poste dal nostro governo all’attività di soccorso delle navi delle Ong. Indi sono quelli chiusi nei campi di concentramento libici per gli accordi firmati da Meloni con il governo locale.
Indi sono i più di tremila bambini e bambine palestinesi uccisi dai bombardamenti israeliani col tacito consenso del nostro governo, che non ha ritenuto di chiedere ufficialmente a Netaniahu di cessare il fuoco sui civili, né nella votazione all’ONU né in altra sede.
In questa logica più ampia papa Francesco ha fatto sapere che «si stringe alla famiglia della piccola Indi Gregory, al papà e alla mamma, prega per loro e per lei», ma anche che «rivolge il suo pensiero a tutti i bambini che in queste stesse ore in tutto il mondo vivono nel dolore o rischiano la vita a causa della malattia e della guerra».
Per amore di Indi – delle troppe e dei troppi Indi che ogni giorno muoiono non per malattie inguaribili, ma per le nostre ideologie (nei civilissimi ospedali anglosassoni), o per la nostra indifferenza e i nostri calcoli (in mare e negli scenari di guerra) – siamo chiamati, come cristiani e come persone che hanno a cuore il confine tra l’umano e il disumano, a non limitarci a commuoverci e a protestare occasionalmente, davanti a un singolo episodio enfatizzato dal circo mediatico, ma a denunziare e a contestare con tutte le nostre forze, ogni giorno, una cultura e una politica che giustificano sistematicamente l’uccisione dei bambini.
*Giuseppe Savagnone Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu.
Scrittore ed Editorialista.
(fonte: Tuttavia 17/11/2023)