I tormenti di un Papa provato
È un Papa provato, non malato, almeno non oltre i limiti conosciuti. A un bambino degli oltre ottomila incontrati ieri nell’Aula Nervi, che gli chiedeva come si può evitare la guerra, Francesco ha risposto che la guerra è già scoppiata, e non solo in Ucraina e nel Medio Oriente, ma dappertutto nel mondo.
Il conflitto mondiale “a pezzi” del quale ha parlato più volte, ha esteso il campo e, con quel che accade nella Terra Santa, rischia ora di dilagare e di espandersi senza controllo. I segni della sofferenza per “mancanza di pace” il Papa, ormai non riesce più a nasconderli. E, come s’e’ visto ieri, neppure davanti ai bambini, il volto tirato, la voce affaticata e quella regia da tenero “catechista” che tra gesti – lo scambio di pace, il saluto a mani levate, il “la” ai cori da ripetere – replicava nell’Aula vestita a festa, gli appelli mai interrotti di quasi due anni di Angelus dedicati prima alla martoriata Ucraina e ora al micidiale conflitto israelo-palestinese. E di fronte al chiasso che rendeva indistinguibili le tante lingue rappresentate, Francesco ha avuto certo buon gioco a replicare che “Sono questi i boati con cui vogliamo riempire il mondo: non quelli delle bombe”.
I bambini sono stati molto più che il sorriso di un momento. Ma certo il clima di festa, i canti, le bandiere dell’Aula non hanno fatto dimenticare la realtà di quell’altra infanzia uccisa e vessata proprio nei luoghi della nascita e della predicazione di Gesù. Sono stati sempre essi al centro di tutti gli appelli di pace del papa. “Vi prego di fermarvi in nome di Dio: cessate il fuoco. Si percorrano tutte le vie perché si eviti assolutamente un allargamento del conflitto. Si liberino subito gli ostaggi. Tra di loro ci sono anche tanti bambini, che tornino alle loro famiglie. Si, aggiunse il papa all’Angelus, pensiamo ai bambini, a tutti i bambini coinvolti in questa guerra come anche in Ucraina e in altri conflitti: così si sta uccidendo il loro futuro.”
Il tono fermo e accorato del Papa, ha ricevuto una risposta forse inattesa ma proprio per questo più significativa. In Vaticano ha chiamato il presidente iraniano Ebrahim Raisi. Già la scorsa settimana un altro esponente del governo iraniano, il ministro degli Esteri Hossein Hamid-Abdollahian, aveva cercato il suo omologo della Santa Sede, l’arcivescovo Gallagher. Nel colloquio con il Papa, il presidente iraniano ha chiarito il motivo di entrambe le telefonate: in sostanza la ricerca di contatti più diretti e assidui con la Santa Sede. Raisi ha detto di aver “apprezzato gli appelli di Papa Francesco per un ‘cessate il fuoco’ a Gaza. Rivolgendosi direttamente al Papa, l’Iran riconosce di fatto che l’unico possibile interlocutore del mondo occidentale non può che essere il Vaticano, con il quale esistono rapporti diplomatici da oltre settant’anni. È una strategia ormai chiara, e che spiega appieno l’iniziativa dei vertici iraniani. Sul contenuto del colloquio non esistono molte informazioni, salvo, per parte iraniana, la durissima, scontata condanna per i “crimini orribili” di Israele. Come leader dei cattolici nel mondo, il Papa ha naturalmente assicurato che farà tutto ciò che è in suo potere per impedire che più donne e bambini diventino vittime a Gaza. Ma entrambi i colloqui vanno visti in una prospettiva più ampia. Il ritorno in Medio Oriente del segretario di Stato americano Blinken ha rilanciato fortemente il ruolo decisamente appannato di Abu Mazen, il presidente dell’Autorità palestinese. Abu Mazen è stato al centro, di quello che si può definire il vasto giro di telefonate del Papa per la crisi in Medio Oriente, con il presidente americano Biden e quello turco Erdogan, oltre naturalmente a Ebrahim Raisi.
Un nuovo ruolo di Abu Mazen può cambiare anche lo scenario diplomatico, tenendo conto dei rapporti più che cordiali del presidente dell’Autorità palestinese con il Papa. Otto anni fa, nel maggio 2015, Abu Mazen venne in Vaticano a celebrare l’accordo raggiunto ta Santa Sede e Palestina su un protocollo di attività della chiesa locale. Si parlò naturalmente degli sviluppi sui negoziati allora in corso con Israele. Ma nessuno ha dimenticato il calorosissimo scambio di battute che portò Francesco a definire, con l’enfasi di un incontro chi si concludeva con la partecipazione del presidente alla beatificazione di due suore palestinesi, un “angelo della pace”.
È del tutto naturale che al Vaticano venga assegnato un ruolo di mediazione in ogni conflitto. È tuttora in corso, seppure offuscato dalla crisi in Medio Oriente, l’intenso lavoro diplomatico che, attraverso l’inviato del Papa, il cardinale Zuppi, la Santa Sede ha svolto dopo l’invasione dell’Ucraina. Lo scenario stavolta è completamente diverso, e, si può dire, vede proprio il papa come protagonista più diretto. Si può capire anche da questo perché avverta visibilmente di più il peso di una crisi esplosa non solo all’improvviso ma con una crudezza e una violenza assolutamente inimmaginabili.
La prospettiva che ora si apre con il recupero della centralità dell’Autorità palestinese, non può indurre automaticamente all’ottimismo, ma proprio tenendo conto di un possibile ruolo del Vaticano, si può forse parlare di uno spiraglio in più. Il terribile ‘gioco’ dei veti e degli ostracismi, così radicali in quell’area, mentre stronca i dialoghi diretti, apre necessariamente la via a interlocuzioni più estese e spesso impreviste. Dietro l’angolo può esserci anche la pace di Francesco.
(fonte: Il Mattino, articolo di Angelo Scelzo 7 novembre 2023)
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