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venerdì 9 settembre 2022

L' Africa è un creditore netto non un debitore di Giulio Albanese

L' Africa è un creditore netto
 non un debitore 
di Giulio Albanese

Il continente ha enormi potenzialità 
ma cresce la sfida contro l’economia sommersa


Il continente africano dispone di enormi potenzialità economiche. 
Basti pensare all’export di commodity o alla green economy, per non parlare della digitalizzazione dei sistemi, elementi chiave per il successo del mercato di libero scambio continentale denominato AfCFTA, entrato in vigore il primo gennaio dello scorso anno. Si tratta di un’iniziativa strategica per sostenere il commercio intra-africano, puntando a togliere i diritti doganali e ad accelerare l’integrazione economica del continente. Inoltre, vengono segnalati, diversamente dal passato, fondi pensione e fondi sovrani che, sebbene ancora con dimensioni limitate rispetto a quanto accade in Europa, negli Stati Uniti e nel vasto areopago asiatico, stanno cercando di farsi strada, in alcuni Paesi come la Nigeria, il Sudafrica e l’Egitto.

Tuttavia, l’economia continentale deve fare i conti con alcune fragilità, da una parte legate al fatto che i vari sistemi economici e finanziari africani sono ancora in fase di sviluppo (soprattutto per quanto riguarda i processi di industrializzazione); dall’altra la limitata disponibilità di infrastrutture e strumenti finanziari. A questo proposito, gli analisti a livello internazionale ritengono che lo sviluppo del continente africano debba passare attraverso l’apporto del credito internazionale, nonché di un’ampia politica di ristrutturazione dei debiti sovrani di interi Paesi. Si tratta certamente di questioni importanti, ma che non possono prescindere dalla cosiddetta “economia sommersa”.

È sufficiente leggere i dati forniti dall’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development) per rendersi conto di quello che è un vero e proprio scandalo. Ogni anno, circa 88,6 miliardi di dollari, equivalenti al 3,7 per cento del Pil africano, viene per così dire trafugato. Si tratta di flussi finanziari illeciti (Iff), vale a dire movimenti illegali di denaro e beni attraverso le frontiere che risultano alla prova dei fatti illegali nella fonte, nel trasferimento o nell’uso. L’agenzia delle Nazioni Unite stima che dal 2000 al 2015, i capitali illeciti abbiano raggiunto la stratosferica cifra di 836 miliardi di dollari. Rispetto allo stock di debito estero totale dell’Africa di 770 miliardi di dollari nel 2018, questa fuga di capitali evidenzia un incredibile paradosso: rende infatti l’Africa un «creditore netto nei confronti del resto del mondo», si legge nel rapporto pubblicato nel 2020 intitolato “Contrastare i flussi finanziari illeciti per lo sviluppo sostenibile in Africa”.

Naturalmente il tracciamento e la misurazione di questi flussi sono molto complessi e non facili da dirimere. La mancanza di dati affidabili limita le capacità degli Stati di frenare l’enorme flusso di denaro spostato illecitamente da un Paese all’altro attraverso attività come pratiche fiscali e commerciali illegali, fatturazione errata e trasferimento di profitti. L’Unctad ha pubblicato nel maggio 2021 nuove linee guida metodologiche per misurare gli Iff fiscali e commerciali che si verificano a causa di errate fatturazioni da parte di entità di vario genere, di elusione fiscale aggressiva, del trasferimento di profitti da parte di imprese multinazionali e del dislocazione di ricchezza effettuata da singoli individui privati per evadere le tasse.

A questo proposito, l’Unctad sta collaborando con la commissione regionale delle Nazioni Unite per l’Africa (Eca) per rendere attuative le linee guida, attraverso studi pilota, in oltre una decina di Paesi africani: Angola, Benin, Burkina Faso, Egitto, Gabon, Ghana, Namibia, Nigeria, Mozambico, Senegal, Sud Africa e Zambia. In questo contesto, desta grande preoccupazione la finanza offshore, un fenomeno noto da tempo, a seguito dello scandalo dei “Panama Papers”, ma soprattutto dei “Pandora Papers”, una delle indagini giornalistiche più impegnative e avvincenti mai compiute per smascherare i meccanismi che si celano dietro i paradisi fiscali. Le dimensioni dell’indagine portata avanti dal Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij) è stata senza precedenti, con 11,9 milioni di file ottenuti da 14 tra le più importanti agenzie di servizi offshore e indagati da oltre 600 giornalisti. Basti pensare che l’indagine ha riguardato migliaia tra i personaggi più prominenti del business e della politica (compresi trentacinque capi di Stato) a livello mondiale.

Purtroppo anche il continente africano è fortemente condizionato da questo fenomeno come ha dimostrato il lavoro d’indagine portato avanti da 53 giornalisti africani i quali hanno raccolto numerosi documenti che riguardano decine e decine di politici, imprenditori e personalità di spicco africani.

Le storie raccolte hanno suscitato indagini da parte dei governi sulle cifre riportate nei “Pandora Papers”. In Nigeria, ad esempio, il governo di Abuja ha ritenuto opportuno aprire un’indagine sulla base delle segnalazioni fatte dal partner mediatico dell’Icij «Premium Times» su figure come Peter Obi, un ex governatore che ha ammesso di non aver dichiarato il suo patrimonio personale depositato offshore mentre era in carica.

Rimane il fatto che, nell’era della globalizzazione, i Paesi africani, in particolare quelli della macroregione subsahariana, sono stati incoraggiati a deregolamentare e privatizzare le loro economie per attrarre investimenti esteri. L’intento, almeno sulla carta, è quello di contrastare decisamente la povertà e dunque l’esclusione sociale. In linea di principio il ragionamento ha una sua logica, considerando che proprio l’Africa subsahariana ha una prevalenza di malnutrizione del 24,1 per cento, 413 milioni di persone sopravvivono con meno di 1,90 dollari al giorno, mentre 319 milioni non hanno accesso a fonti di acqua potabile.

In un interessante studio dal titolo “Influenza dell’evasione fiscale sulla giustizia fiscale nei Paesi in via di sviluppo: alcune teorie e prove dall’Africa subsahariana”, Jia Liu e Olatunde Julius Otusanya, rispettivamente professor in accounting and finance della University of Portsmouth e professor of taxation alla University of Lagos, hanno messo in luce come sia nei Paesi avanzati che in quelli in via di sviluppo, le entrate fiscali siano spesso minate dalla capacità di alcuni dei contribuenti più ricchi. Tra questi soggetti, per così dire danarosi, figurano molte società multinazionali, che riescono in modo efficace ad evitare di sottostare al sistema d’imposta sulle società.

Gli esempi, inutile nasconderselo, sono sotto gli occhi di tutti, sia tra giganti dell’hi-tech, come anche tra le multinazionali di vario rango che legalmente hanno sedi in Paesi in cui la tassazione è minore. Emblematico è il caso dello Zambia, riportato dagli autori, dove il sistema-Paese perderebbe per le suddette ragioni circa 3 miliardi di dollari all’anno di entrate fiscali. Questa cifra rappresenta circa il 12,5 per cento del totale del prodotto interno lordo annuale dello Zambia.

È palese che questo scenario, nel suo complesso, mette in evidenza la debolezza delle istituzioni politiche, giuridiche e finanziarie di non pochi Paesi africani che hanno decisamente bisogno d’essere sostenuti nel contrastare la fuga dei capitali. Si tratta di un tema scottante che solitamente non viene affrontato È davvero inammissibile e moralmente inaccettabile che le ricchezze di un continente come l’Africa, con una popolazione di oltre un miliardo e trecento milioni di persone, non riescano ancora oggi a soddisfare i bisogni della collettività, particolarmente dei ceti meno abbienti che in molti casi rappresentano la maggioranza dal punto di vista demografico. Non basta dunque che gli operatori finanziari stranieri rivolgano il loro sguardo alle opportunità presenti in Africa mettendo a disposizione investimenti che, alla prova dei fatti, non contribuiscono adeguatamente allo sviluppo del continente.

(Fonte: L'Osservatore Romano - 19 agosto 2022)