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mercoledì 22 dicembre 2021

III meditazione di Avvento 2021 del card. P. Raniero Cantalamessa: “NATO DA DONNA” (testo e video)

III meditazione di Avvento 2021 del card. P. Raniero Cantalamessa:
“NATO DA DONNA”

«Nato da donna». È sul significato e sull’importanza di queste parole di san Paolo (Galati 4, 4) che il cardinale Raniero Cantalamessa ha sviluppato la terza predica di Avvento, tenutasi la mattina del 17 dicembre nell’Aula Paolo VI alla presenza di Papa Francesco. 
È stata anche l’occasione per riflettere sul ruolo di Maria nella Chiesa, alla luce della Parola di Dio e della tradizione patristica.


“Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna”. È sul significato e l’importanza di queste due ultime parole – “nato da donna” – che vogliamo riflettere in questa ultima meditazione, anche per la loro attinenza alla solennità del Natale che ci apprestiamo a celebrare.

Nella Bibbia, l’espressione “nato da donna” indica l’appartenenza alla condizione umana fatta di debolezza e mortalità . Basta provare a togliere queste tre parole dal testo per accorgerci della loro importanza. Cosa sarebbe il Cristo senza di esse? Una apparizione celeste, disincarnata. Anche l’angelo Gabriele “fu mandato” da Dio, ma per tornarsene poi in cielo così come era disceso da esso. La donna, Maria, è colei che ha “ancorato” per sempre il Figlio di Dio all’umanità e alla storia.

Così lessero le parole di Paolo i Padri della Chiesa che dovettero combattere contro l’eresia gnostica e docetista. Giustamente essi mettono in rilievo il parallelismo che c’è tra l’espressione “nato da donna” e quella che lo stesso Paolo usa in Romani 1, 3: “dal seme di David secondo la carne” . Ignazio d’Antiochia ha una espressione da vertigine: dice che Gesú “è [nato] da Maria e da Dio” , quasi come noi diciamo di qualcuno che è figlio del tale e della tale. In realtà, in tutto l’universo, Maria è l’unica che può rivolgersi a Gesù con le stesse parole del Padre celeste: “Tu sei mio figlio, io ti ho generato”.

L’Apostolo –fa notare Tertulliano – non dice “factum per mulierem”, ma “factum ex muliere”, cioè nato da donna, non attraverso la donna. Il motivo è che nel frattempo l’eresia docetista si era evoluta e aveva assunto una veste meno radicale. Sosteneva che Gesú aveva sì una carne, ma di origine celeste, non terrestre, passata attraverso Maria come attraverso un canale, avendo in lei una via, non una madre . San Leone Magno collocherà l’espressione paolina “nato da donna” nel cuore del dogma cristologico, scrivendo nel Tomo a Flaviano che Cristo è “uomo per il fatto che è ‘nato da donna e nato sotto la legge’…La nascita nella carne è chiara prova della sua natura umana”.

Anche a proposito dell’espressione paolina “nato da donna” vediamo realizzarsi il grande principio esegetico formulato da san Gregorio Magno, cioè che “la Scrittura cresce a misura che viene letta” . Già sant’Ireneo legge Galati 4,2, “nato da donna”, alla luce di Genesi 3, 15: “Porrò inimicizia tra te e la donna” . Maria appare come la donna che ricapitola Eva, la madre di tutti i viventi! Non si tratta di una comparsa marginale che entra in scena per poi scomparire nel nulla. È l’approdo di una tradizione biblica che attraversa da un capo all’altro tutta la Bibbia. Comincia con la donna “figlia di Sion” che è la personificazione di tutto il popolo d’Israele e termina con la donna “vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi” dell’Apocalisse (Ap 12, 1) che rappresenta la Chiesa.

“Donna” è il termine con cui Gesú si rivolge a sua madre a Cana e sotto la croce. È difficile, per non dire impossibile, non vedere un legame, nel pensiero di Giovanni, tra le due donne: la donna simbolica che è la Chiesa e la donna reale che è Maria. Tale legame è recepito nella Lumen gentium del Vaticano II che, proprio per questo, tratta di Maria all’interno della costituzione sulla Chiesa.

Cristo deve nascere dalla Chiesa

Da qualche tempo si parla molto della dignità della donna. San Giovanni Paolo II ha scritto una Lettera apostolica su tale tema, la Mulieris dignitatem. Per quanta dignità, però, noi creature umane possiamo attribuire alla donna, resteremo sempre infinitamente al di sotto di quello che ha fatto Dio scegliendo una di esse per essere la madre del suo Figlio fatto uomo, “anche se avessimo tante lingue quante sono le foglie di erba sulla terra”, ha scritto qualcuno.

Molto si è fatto negli ultimi tempi per aumentare la presenza delle donne nelle sfere decisionali della Chiesa e altro, forse, resta da fare. Ma non è di questo che è il caso di occuparci qui. Dobbiamo occuparci invece di un altro ambito, nel quale non ha alcuna importanza la distinzione uomo-donna, perché la donna di cui stiamo parlando rappresenta tutta la Chiesa, cioè uomini e donne allo stesso modo.

In breve si tratta di questo: Gesú che è nato una volta fisicamente e corporalmente da Maria, deve nascere ora spiritualmente dalla Chiesa e da ogni credente. Una tradizione esegetica che, nel suo nucleo iniziale, risale ad Origene si è cristallizzata nella formula: “Maria, vel Ecclesia, vel anima”: Maria, cioè la Chiesa, cioè l’anima. Sentiamo come un autore medievale, Isacco della Stella, formula questa dottrina:

Nelle Scritture divinamente ispirate, ciò che si dice in modo universale della Vergine Madre Chiesa, lo si intende in modo singolare della Vergine Madre Maria; e ciò che si dice in modo speciale di Maria lo si intende in senso generale della Vergine Madre Chiesa… Infine, ogni anima fedele, sposa del Verbo di Dio, madre figlia e sorella di Cristo, viene ritenuta anch’essa a suo modo vergine e feconda. La stessa Sapienza di Dio che è il Verbo del Padre applica dunque universalmente alla Chiesa ciò che si dice specialmente di Maria e singolarmente anche di ogni anima credente .

Iniziamo dall’applicazione ecclesiale. Se nel “senso più pieno” (il cosidetto sensus plenior), la donna nella Scrittura indica la Chiesa, allora l’affermazione che Gesú è nato da donna implica che egli deve nascere oggi dalla Chiesa!

C’è una icona diffusissima tra i cristiani ortodossi che è detta la Panhagia, cioè la Tutta Santa. In essa si vede Maria in piedi, a statura piena. Sul suo petto, come prorompendo da dentro, si staglia il bambino Gesú che ha la maestà di un adulto. Lo sguardo del devoto è attirato dal bambino, prima ancora che dalla madre. Ella anzi è a braccia alzate, quasi invitando a guardare lui e fare spazio a lui. Così dovrebbe essere la Chiesa. Chi la guarda non dovrebbe fermarsi ad essa, ma vedere Gesú. È la lotta all’auto-referenzialità della Chiesa, su cui hanno insistito spesso i due ultimi Sommi Pontefici, Benedetto XVI e papa Francesco.

C’è un racconto dello scrittore Franz Kafka che è un potente simbolo religioso a questo proposito. E’ intitolato “Un messaggio imperiale”. Parla di un re che, sul letto di morte, chiama accanto a sé un suddito e gli sussurra all’orecchio un messaggio. È tanto importante quel messaggio che se lo fa ripetere, a sua volta, all’orecchio. Quindi congeda con un cenno il messaggero che si mette in cammino. Ma ascoltiamo direttamente dall’autore il seguito del racconto, contraddistinto dal tono onirico e quasi da incubo, tipico di questo scrittore:

Avanzando ora un braccio, ora l’altro, il messaggero si apre la strada attraverso la folla e avanza leggero come nessuno. Ma la folla è immensa, le sue dimore sterminate. Come volerebbe se avesse via libera! Invece, si affatica invano; ancora continua ad affannarsi attraverso le stanze del palazzo interno, dalle quali non uscirà mai. E se anche questo gli riuscisse, non significherebbe nulla: dovrebbe lottare per scendere le scale. E se anche questo gli riuscisse, non avrebbe fatto ancora nulla: dovrebbe traversare i cortili; e dopo i cortili, la seconda cerchia dei palazzi. Gli riuscisse di precipitarsi, finalmente, fuori dall’ultima porta – ma questo non potrà mai, mai accadere – ecco dinanzi a lui la città imperiale, il centro del mondo, ove sono ammucchiate montagne dei suoi detriti. Lì in mezzo, nessuno riesce ad avanzare, neppure con il messaggio di un morto. Tu, intanto, siedi alla tua finestra e sogni di quel messaggio, quando viene la sera.

Non si può fare a meno, leggendo questo racconto, di pensare a Cristo che prima di lasciare questo mondo ha confidato alla Chiesa il messaggio: “Andate per tutto il mondo, predicate la buona novella a ogni creatura” (Mc 16, 15). E non si può fare a meno di pensare ai tanti uomini che stanno alla finestra e sognano, senza saperlo, di un messaggio come il suo.

Dobbiamo fare il possibile perché la Chiesa non divenga mai quel castello complicato e ingombro descritto da Kafka, e il messaggio possa uscire da essa libero e gioioso come quando iniziò la sua corsa. Sappiamo quali sono “i muri divisori” che possono trattenere il messaggero. Sono anzitutto i muri che separano le varie chiese cristiane tra di loro, poi l’eccesso di burocrazia, i residui di cerimoniali ormai senza senso: paludamenti, leggi e controversie passate, divenuti ormai solo dei detriti.

Succede come con certi edifici antichi. Nel corso dei secoli, per adattarsi alle esigenze del momento, si sono riempiti di tramezzi, di scalinate, di stanze, stanzette e sottoscala. Arriva il momento quando ci si accorge che tutti questi adattamenti non rispondono più alle esigenze attuali, anzi sono di ostacolo; e allora bisogna avere il coraggio di abbatterli e riportare l’edificio alla semplicità e linearità delle sue origini, in vista di un loro rinnovato impiego.

Citai il racconto di Kafka e la sua applicazione alla Chiesa nell’omelia che tenni in San Pietro nel Venerdì Santo del 2013, nel primo anno di Pontificato dell’attuale Sommo Pontefice. Se mi sono permesso di ripeterli qui è per ringraziare Dio dei passi avanti che la Chiesa ha compiuto nel frattempo per uscire da se stessa e andare verso “le periferie esistenziali del mondo”, recando ad esse il messaggio di Cristo.

Cristo deve nascere dall’anima

Ci resta da riflettere ora su quello che ci riguarda tutti indistintamente e più da vicino: la nascita di Cristo dall’anima credente. “Il Cristo – scrive san Massimo Confessore – nasce sempre misticamente nell’anima, prendendo carne da coloro che sono salvati e facendo dell’anima che lo genera una madre vergine” .
Come si diventa madre di Cristo, ce lo spiega Gesú nel Vangelo: ascoltando, dice, la Parola e mettendola in pratica (cf. Lc 8, 21). È importante notare che ci sono due operazioni da compiere. Anche Maria divenne madre di Cristo attraverso due momenti: prima concependolo, poi partorendolo.
Vi sono due maternità incomplete o due tipi di interruzione di maternità. Una è quella, antica e nota, dell’aborto. Essa avviene quando si concepisce una vita ma non si partorisce, perché, nel frattempo, o per cause naturali o per il peccato degli uomini, il feto è morto. Fino a poco fa, questo era l’unico caso che si conosceva di maternità incompleta. Oggi se ne conosce un altro che consiste, all’opposto, nel partorire un figlio senza averlo concepito. Così avviene nel caso di figli concepiti in provetta e immessi nel seno di una donna, oppure nel caso dell’utero dato in prestito per ospitare, magari a pagamento, vite umane concepite altrove. In questo caso, quello che la donna partorisce, non viene da lei, non è concepito “prima nel cuore e poi nel corpo” , come dice Agostino di Maria.
Purtroppo anche sul piano spirituale ci sono queste due tristi possibilità. Concepisce Gesù senza partorirlo chi accoglie la Parola, senza metterla in pratica; chi continua a fare un aborto spirituale dietro l’altro, formulando propositi di conversione che vengono poi sistematicamente dimenticati e abbandonati a metà strada. Sono, dice san Giacomo, coloro che si guardano in fretta nello specchio e poi se ne vanno dimenticando come erano (cf Gc 1, 23-24).
Partorisce, al contrario, Cristo senza averlo concepito chi fa tante opere, anche buone, ma che non vengono dal cuore, da amore per Dio e da retta intenzione, ma piuttosto dall’abitudine, dall’ipocrisia, dalla ricerca della propria gloria e del proprio interesse, o semplicemente dalla soddisfazione che dà il fare. Le nostre opere sono «buone » solo se provengono dal cuore, se sono concepite per amore di Dio e nella fede. In altre parole, se l’intenzione che ci guida è retta, o almeno ci si sforza di rettificarla.
San Francesco d’Assisi ha una parola che riassume bene ciò che mi preme mettere in luce:
Siamo madri di Cristo – dice – quando lo portiamo nel cuore e nel corpo nostro per mezzo del divino amore e della pura e sincera coscienza; lo generiamo attraverso le opere sante, che devono risplendere agli altri in esempio .
Noi, vuole dire, concepiamo Cristo quando lo amiamo in sincerità di cuore e con rettitudine di coscienza, e lo diamo alla luce quando compiamo opere sante che lo manifestano al mondo e danno gloria al Padre che è nei cieli (cf Mt 5, 16). San Bonaventura ha sviluppato questo pensiero del suo Serafico Padre in un opuscolo intitolato “Le cinque feste di Gesù Bambino“ . Tali feste sono per lui: il concepimento, la nascita, la circoncisione, l’Epifania e la Presentazione al tempio. Il santo spiega come fare per celebrare spiritualmente ognuna di tali feste nella propria vita. Mi limito a quello che dice circa le prime due feste: il concepimento e la nascita.
Per san Bonaventura, l’anima concepisce Gesù quando, scontenta della vita che conduce, stimolata da sante ispirazioni e accendendosi di santo ardore, infine staccandosi risolutamente dalle sue vecchie abitudini e difetti, è come fecondata spiritualmente dalla grazia dello Spirito Santo e concepisce il proposito di una vita nuova. Ecco, è avvenuta la concezione di Cristo!
Una volta concepito, il benedetto Figlio di Dio nasce nel cuore, allorché, dopo aver fatto un sano discernimento, chiesto opportuno consiglio, invocato l’aiuto di Dio, l’anima mette immediatamente in opera il suo santo proposito, cominciando a realizzare quello che da tempo andava maturando, ma che aveva sempre rimandato per paura di non esserne capace.
Ma è necessario insistere su una cosa: questo proposito di vita nuova deve tradursi, senza indugio, in qualcosa di concreto, in un cambiamento, possibilmente anche esterno e visibile, nella nostra vita e nelle nostre abitudini. Se il proposito non è messo in atto, Gesù è concepito, ma non è partorito. E’ uno dei tanti aborti spirituali. Non si celebrerà mai « la seconda festa » di Gesù Bambino che è il Natale! È uno dei tanti rinvii, di cui è forse stata punteggiata la nostra vita.
Un piccolo cambiamento con cui cominciare potrebbe essere fare un po’ di silenzio intorno a noi e dentro di noi. “Come sarebbe bello – diceva il Santo Padre nella scorsa udienza generale – se ognuno di noi, sull’esempio di San Giuseppe, riuscisse a recuperare questa dimensione contemplativa della vita spalancata proprio dal silenzio”. Un’antica antifona del tempo natalizio diceva che il Verbo di Dio discese dal cielo dum medium silentium tenerent omnia: “mentre tutto intorno era silenzio” .
Proviamo anzitutto a far tacere il chiasso che c’è dentro di noi, i processi sempre in corso nella nostra mente, su persone e fatti, dai quali usciamo immancabilmente vincitori. Trasformiamoci qualche volta da accusatori in difensori dei fratelli, pensando a quante cose gli altri potrebbero rimproverare a noi. Nei processi canonici –almeno in passato – dopo l’accusa, il giudice pronunciava la formula: “Audiatur et altera pars”: Si ascolti ora la parte contraria. Quando ci sorprendiamo a giudicare qualcuno, impariamo a ripetere perentoriamente quella formula a noi stessi: Audiatur et altera pars! Prova a metterti nei panni del fratello!
Torniamo con il pensiero a Maria. Tolstoj fa una osservazione sulla donna incinta che ci può aiutare a capire e a imitare la Vergine in questo finale di Avvento. Lo sguardo della donna in attesa, dice, ha una strana dolcezza ed è rivolto più dentro di sé che fuori di sé, perché dentro di sé è la realtà, per lei, più bella del mondo. Così era lo sguardo di Maria che portava in grembo il creatore dell’universo. Imitiamola ritagliandoci qualche momento di vero raccoglimento per far nascere Gesù nel nostro cuore. La migliore risposta al tentativo della cultura secolarizzata di cancellare il Natale dalla società è quello di interiorizzarlo e riportarlo alla sua essenza.
Tra pochi giorni si conclude l’anno in cui abbiamo celebrato il settimo centenario della morte di Dante Alighieri. Terminiamo facendo nostra la stupenda preghiera alla Vergine dell’ultimo canto del suo Paradiso. Anche Dante, come Paolo e come Giovanni, chiama Maria semplicemente “la Donna”:

Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’eterno consiglio

tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’eterna pace
così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ali.

La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.

Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, Buon Natale!

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