«ACCOGLIERE I PROFUGHI
NON È SOLO BUON CUORE, È UN DOVERE»
«Si tratta di persone che hanno dei percorsi di vita molto precisi, che beneficiano anche di determinati diritti e nei confronti dei quali gli Stati hanno determinati doveri». La denuncia di Carlotta Sami, portavoce dell’Alto Commissariato per i diritti dei rifugiati delle Nazioni Unite
Le immagini che arrivano dal confine fra Polonia e Bielorussia scuotono la coscienza dell’Europa. Il dramma di migliaia di persone, migranti e richiedenti asilo, fatte ammassare alla frontiera dal regime di Lukashenko indigna Carlotta Sami, portavoce per l’Italia dell’Unhcr, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati. «Le persone», dice, «non devono essere mai utilizzate come pedine di giochi geopolitici, questo provoca traumi e sofferenze enormi in esseri umani già in evidente stato di bisogno, è come lanciare queste persone nel vuoto».
Carlotta Sami. |
Prima con Save the Children e Amnesty International, poi con l’Unhcr, Carlotta Sami lavora da molto tempo nell’ambito delle relazioni internazionali, dei diritti umani e degli interventi umanitari. Forte di questa vasta esperienza, Sami ha scritto Rifugiati. Verità e falsi miti (editore HarperCollins), un libro per demolire, con la forza dei dati e dei fatti, pregiudizi e luoghi comuni contro i migranti. «La strumentalizzazione del tema dei rifugiati è una pratica che ritorna periodicamente», spiega, «di solito nel momento in cui si devono rafforzare determinate posizioni politiche che possono anche non aver nulla a che vedere con i rifugiati stessi».
Quali sono le conseguenze di questa strumentalizzazione?
«Gli effetti più nefasti ricadono in primo luogo sui rifugiati richiedenti asilo, perché li priva dell’accesso alla protezione di cui hanno bisogno o quanto meno rende il loro percorso molto difficile. L’uso strumentale del tema dei rifugiati, poi, allontana la ricerca di soluzioni pragmatiche e crea divisioni nell’opinione pubblica quando in realtà le contrapposizioni non servono, anzi, bisognerebbe trovare un punto di incontro perché quello dei rifugiati è un problema che ci riguarda tutti».
Chi sono quelli che lei chiama i professionisti del marketing della paura?
«Fra il 2014 e il 2017, durante la crisi europea dei rifugiati, si è creata ad arte questa montante paura dell’invasione. Ancora oggi 9 rifugiati su 10 vivono in Paesi poveri o in via di sviluppo, quindi non c’è stata nessuna invasione».
L’opinione pubblica se ne sta rendendo conto?
«Negli ultimi due anni le nostre analisi fatte con Ipsos e quelle di altri istituti di ricerca dimostrano che il timore nei confronti dei rifugiati e dei migranti è crollato. Questo è avvenuto perché si è presentata una minaccia reale, la pandemia, che ha scalzato una minaccia virtuale creata per fini politici. La pandemia esiste, l’invasione no».
Il marketing della paura si combatte anche con un uso corretto delle parole.
«Sì, perché accogliere i rifugiati non è solo un obbligo morale e un generico, per quanto meritevole, appello al buon cuore. Si tratta di persone che hanno dei percorsi di vita molto precisi, che beneficiano anche di determinati diritti e nei confronti dei quali gli Stati hanno determinati doveri. Su questo dobbiamo essere chiari perché in questa fase storica un diritto umano fondamentale come quello di asilo è tra i più minacciati in assoluto, in Europa ma anche altrove».
Lei scrive: «Attraversare le frontiere per chiedere asilo non è reato».
«Non lo dico io, ma la Convenzione del 1951 sui rifugiati di cui proprio quest’anno ricorre il 70° anniversario. Ripeterlo fa bene nel momento in cui, con la pandemia, sono state chiuse molte frontiere. Ma abbiamo visto che si può conciliare l’accoglienza delle persone con la tutela della salute pubblica. Ripeterlo serve nel momento in cui si cerca di allontanare sempre di più la possibilità di chiedere asilo. Se una persona varca una frontiera e chiede asilo, lo Stato è obbligato a dargli questa possibilità. Poi si deciderà se questo diritto sussiste o meno, ma la domanda va accolta e quella persona ha diritto di restare finché non sarà presa una decisione».
Perché le vie legali per non finire nelle grinfie dei trafficanti di esseri umani sono ancora poche?
«Purtroppo la pandemia ha ristretto ancora queste vie, ma l’Unhcr è impegnata per tenerle aperte. Le vie sicure e legali possono essere tante: le riunificazioni familiari, i corridoi umanitari, i corridoi universitari per gli studenti. Abbiamo visto tanti Paesi trovare soluzioni creative. Ci sono milioni di rifugiati che si sono stabiliti in Paesi spesso vicini a quelli da cui sono fuggiti, ma alcuni di loro sono così vulnerabili che non possono vivere in questi Stati. Per queste persone, ogni anno fra il milione e mezzo e i due milioni, serve un’altra soluzione, un trasferimento in Paesi che li possano accogliere secondo queste loro particolari esigenze. Nel 2020 c’erano solo 34 mila posti per queste persone in tutto il mondo. Ora gli Stati Uniti vogliono riaprire questo tipo di accesso, anche il Canada è sempre molto presente, ci auguriamo che anche l’Europa faccia la sua parte».
I rifugiati, una volta integrati, possono essere una risorsa per l’economia e la società dei Paesi che li accolgono. Si fa abbastanza?
«Si deve fare di più. Investire nell’istruzione e nell’integrazione dei rifugiati ha dei benefici evidenti, porta addirittura a una crescita del Pil. Le esperienze, anche italiane, di inserimento dei rifugiati nelle aziende sono positive perché queste persone, dovendo ricostruire la propria vita, portano un carico di energia molto forte. L’integrazione è l’unica via percorribile, la sola che fa fiorire la società. Nessun rifugiato cerca protezione perché vuole assistenza, ma perché vuole ricostruire la sua vita».
Nel libro lei confida un aspetto privato, anche lei viene da una famiglia “sradicata”.
«Sì, anche la mia famiglia da generazioni è stata vittima di conflitti, scontri etnici e linguistici che hanno portato a muoversi, a essere sfollati e anche rifugiati. Poi la vita mi ha portato a occuparmi di questi temi».
(l'intervista è stata pubblicata sul numero 47 di Famiglia Cristiana del 21 novembre 2021)
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Roberto Zichittella 29/11/2021)