“AFFIDIAMOCI A MARIA”
don Mimmo Battaglia,
Arcivescovo metropolita di Napoli
Omelia per la Solennità dell'Immacolata Concezione
08-12-2021
“Sorelle e fratelli carissimi,
ci ritroviamo insieme quest’oggi per celebrare una delle feste più care al popolo napoletano: la festa dell’Immacolata concezione. A volte, in un modo un po’ sbrigativo, la chiamiamo festa dell’Immacolata, tralasciando il sostantivo concezione. E corriamo il rischio di pensare che la festa abbia a che fare più con la verginità di Maria che con il giorno del suo concepimento; un giorno avvolto, non solo per Maria, ma anche per ciascuno di noi, da un mistero. Si, perché anche se già sognato da Dio, il giorno in cui veniamo concepiti è segnato dalla tenera inconsapevolezza dei genitori, ancora ignari del frutto del loro amore, e dalla totale incoscienza di una nuova vita amata, indifesa e sacra che custodisce in sé il progetto di un futuro grande che la condurrà a partecipare al miracolo della vita!
Penso alla madre e al padre di Maria – Anna e Gioachino secondo la tradizione – anche loro in quella notte ignari di un mistero che li avvolgeva nel loro concepire. Concepire quella figlia che avrebbero chiamato Miriam, Maria. Concepita, pensata Maria, come ognuno di noi, da Dio. E concepita, pensata, nella luce.
Come potrebbe Dio non pensarci nella luce? Dal primo istante nella luce. È questa la domanda che attraversa la nostra storia fin dall’inizio: ognuno di noi è chiamato a scegliere in ogni istante della vita se desidera o meno stare nella luminosità cui è destinato. E Maria ha risposto a questa scelta con un si grande, pieno. Per la fedeltà al disegno che l’abita fin dal suo concepimento, è diventata l’alba di un mondo nuovo.
In lei, l’amore di Dio ha trovato terra fertile, spazio libero, vuoto accogliente. In lei la fedeltà all’amore si è realizzata pienamente. Un grido aveva attraversato la storia. Il grido appassionato di Dio dal giardino delle origini: Adamo, dove sei? E ora una creatura, concepita come noi da uomo e da donna, al grido può rispondere: Sono nella grazia, sono nel pensiero che tu, o Dio, hai avuto per me; sono nella tua terra di benedizione.
E noi cosa possiamo rispondere a quel grido che ha attraversato e attraversa la terra: dove sei?
Dove sei uomo, dove sei donna, dove sei Napoli, dove sei umanità, dove sei terra?
Dove sono io oggi? Sono nel pensiero, nell’immagine che Dio ha avuto per me? O sono fuori? O, peggio ancora, lontano anni luce dalla luce a cui sono destinato?
Dove sei? Dove ti sei nascosto? Perché fuggi dalla luce chiara dell’amore?
Ecco il vero problema: il nostro essere in fuga. E questa è la vera macchia, questo è il peccato: essere in fuga o, se volete, essere nella diffidenza. E’ il peccato originale, nel senso che è l’origine, cioè l’essenza vera di ogni peccato. L’origine, l’anima nera del peccato è la fuga, è la diffidenza. O, almeno, così è per la Bibbia. E la reale grandezza di Maria non è stata nel suo essere preservata dal primo attimo di vita da questa propensione alla fuga, ma di essere piuttosto rimasta fedele al restare nell’amore anche quando tutto l’avrebbe invitata alla fuga, alla sfiducia, alla diffidenza verso quel Dio a cui si era affidata ma la cui potenza si era totalmente adombrata nella fragilità di un bambino, nell’esilio in Egitto e nei dolori atroci del Figlio crocifisso. Nonostante i travagli, l’inquietudine e la fatica, Maria non ha mai provato diffidenza verso Dio. Non è mai fuggita lontana da lui. Non si è mai lasciata afferrare dal dubbio che spesso ci abita quando cediamo alla tentazione di credere che Dio in realtà ha un suo interesse, un suo interesse nascosto, che non coincide con la nostra felicità. Ecco, noi spesso cediamo a questo dubbio e viviamo nella diffidenza. Quella suggerita dal “divisore”: Dio non vi vuole come lui, per questo vi ha imposto di non mangiare dell’albero. La diffidenza. E di conseguenza la fuga. E la distanza: Terrestre, dove sei?
E la diffidenza dilaga. E l’uomo diventa diffidente della donna e la donna dell’uomo. E l’uomo e la donna diffidenti della terra. E la terra diffidente di loro. Oggi siamo in grande peccato, siamo nell’indifferenza, ma, ancor più, nella diffidenza. E ciascuno è lì a farsi isola, a farsi la sua terra, lontano dall’altro, nemico dell’altro.
Credo che questa sia anche la radice dei mali che oggi attraversano la nostra città. La diffidenza che si trasforma nel lavarsi le mani nei confronti dell’altro, nel disinteressarsi di lui, nell’indietreggiare rispetto alla responsabilità della comune vocazione, nel rifiutare un destino condiviso di luce per pensare unicamente al proprio percorso ombroso. Il non fidarsi dell’Altro e degli altri ci fa cadere nel vuoto e nell’isolamento, perché tutti diventano nemici, persone da cui stare lontano, a cui non credere, con cui non camminare. In fondo la diffidenza è alla base della frammentazione sociale e dell’indifferenza di cui anche la nostra Napoli soffre.
Ma se il Vangelo è buona notizia, dovrà pur dirci come si combatte la diffidenza, come si evita la fuga, come si resta fedeli all’amore! L’angelo Gabriele entrò da lei. È bello pensare che Dio ti sfiora, ti tocca nella tua vita quotidiana, nella tua casa. Lo fa in un giorno di festa, nel tempo delle lacrime oppure quando dici a chi ami le parole più belle che sai.
Così il brano dell’annunciazione ci mostra un Dio che nonostante la diffidenza dell’umanità, nonostante gli smarrimenti, entra nella storia, attraverso una porta che ha il volto, il nome, la storia di una ragazza semplice e pulita: Maria! Entrando da lei, è scritto. Entra in una casa da niente. Entra da lei, entra nella storia di una giovane donna chiamata Miriam, una sconosciuta agli occhi dei grandi. È il miracolo di Dio, un miracolo che precede ogni merito. Ti raggiunge che ancora stai per essere tessuta nel grembo. E, in un certo senso, è bello che il Vangelo dell’Immacolata concezione si fermi qui, a dirci che Maria e ciascuno di noi, come ci ha ricordato Paolo nella lettera, è amato. Non per i suoi meriti. Ma per pura grazia. Amato gratuitamente.
Ma il Vangelo continua. Continua per dirci che cos’è la grazia da parte di Dio e che cos’è la grazia da parte nostra. È il contrario della radice del peccato che è la diffidenza, il contrario della fuga, il rovescio della fuga. Dio non è in fuga – dice l’angelo – è con te: Il Signore è con te. Comunque. Per grazia. Non è un Dio diffidente. È un Dio che si consegna.
E da parte degli umani? Che cosa è grazia, che cosa è vivere nella grazia?
È dire come Maria: eccomi, il contrario della diffidenza, il contrario della fuga. Ci sono per te, per voi, con quello che sono, con la mia anima e con il mio corpo, con i miei pensieri e con i miei sentimenti, con la mia passione. Che grazia trovare qualcuno che ti dice: eccomi, ci sono, ci sono per te. È la grazia e la bellezza della terra, finalmente libera dalla diffidenza, dalla fuga, dalla paura. È una benedizione:
Ci ha benedetti Dio!
L’eccomi spazza via l’ombra dell’indifferenza che nasce dall’essere diffidenti restituendo l’uomo alla responsabilità dell’esserci, di un essere con l’altro, per l’altro, nell’altro, prendendosi cura di lui.
Il contrario dell’indifferenza è la cura! E Dio sa quanto la nostra città ha bisogno di ripartire dall’etica della cura. Una cura circolare, che a cerchi concentrici rinnova le relazioni più intime per poi allargarsi al tessuto sociale più ampio, quello in cui le famiglie, le istituzioni, le realtà umane vivono le une accanto alle altre in un quotidiano scambio di pensieri, parole, atteggiamenti. Quante volte questa comunicazione è pregiudicata dalla paura dell’altro e improntata alla diffidenza! Siamo chiamati oggi più che mai a rovesciare questa situazione ricordandoci che l’altro ha bisogno del nostro eccomi, della nostra presenza, del nostro apporto alla sua vita e che noi, a nostra volta, abbiamo bisogno di riceverlo come dono prezioso che arricchisce la nostra, come confronto necessario alla nostra crescita!
Napoli, tu hai bisogno dell’eccomi di tutti i tuoi figli! Hai bisogno che tutti, a partire dalla loro condizione e responsabilità, facciano un passo avanti nel sentiero della cura! Sei tu, terra nostra, a chiederci con insistenza e urgenza quest’impegno del cuore e della mente! E per chi crede, è attraverso il tuo grido di città ferita che Dio parla, interpella, chiama la Chiesa!
Napoli, tu ci indichi i tuoi figli più giovani, e ci chiedi di prenderci cura di loro: del loro bisogno di relazioni autentiche, della loro necessità di luoghi di aggregazione sani, del loro appello ad un mondo adulto che troppe volte non riesce a vederli o peggio, inquinato dalle logiche del mercato e del consumo, li usa come passivi destinatari di messaggi occulti. A volte corriamo il rischio di credere che l’emergenza educativa riguardi solo alcune zone della città, solo alcuni strati della popolazione giovanile ma non è così: i nostri ragazzi hanno bisogno di cura, di attenzione, di un solido mondo adulto capace di indicare con materna disponibilità e con cura paterna direzioni di senso, orientamenti di vita, strade di significato!
Napoli, tu ci parli delle tante famiglie assediate dalla povertà e dalla mancanza di lavoro: e chiedi alle istituzioni locali, al mondo dell’impresa e del commercio una rinnovata creatività e lungimiranza, capace di farsi carico delle preoccupazioni e delle ansie di tanti padri e madri che temono di non riuscire più a nutrire i propri figli e ad allevarli con il pane della sicurezza e della serenità. Progettare oltre il guadagno immediato, fare sinergia per generare nuovo lavoro, preoccuparsi delle ricadute sociali di ogni nuovo impiego: anche questo significa prendersi cura della città!
Napoli, tu invochi cura per le tue ferite: quelle inferte dalla criminalità e dalla corruzione, quelle che affliggono la carne dei poveri e degli ultimi, quelle che si annidano nello scarto di cui gli anziani, i disabili e i malati spesso sono vittime. Napoli chiede alla sua gente di adoperarsi più che mai nel dar vita ad una nuova etica capace di curare le ferite dei più marginali ma anche le tante lacerazioni inferte alla terra, all’ambiente, alla casa paradisiaca che è la nostra città!
Napoli tu ci racconti del senso di comunità e di solidarietà, pilastri di un’accoglienza e di un’ospitalità che ti hanno resa un patrimonio dell’umanità intera ma nello stesso tempo ci inviti a non considerare questi valori come un’eredità immutabile e insicura. La forza della comunità, la bellezza della solidarietà sono valori da custodire, incrementare, nutrire perché facilmente possono essere messi a dura prova dall’egoismo e dall’individualismo imperante. Per questo tutti insieme siamo chiamati a dire il nostro eccomi alla comunità, incentivando sempre più quel passaggio interiore e sociale che fa di tanti io frammentati e dispersi un noi saldo e pieno, capace di generare vita e speranza per tutti.
Adamo, dove sei? Mi sono nascosto perché ho avuto paura. Entra nel mondo la paura, la grande nemica. Adamo ha paura di Dio: è la madre di tutte le paure. Poi verrà un angelo, un angelo migratore, che vola via dal cuore del tempio e si posa nel cuore di una casa, a Nazareth, a portare la fine della paura di Dio: non temere Maria. Dio viene come gioia, un seme di vita nella voce di un angelo. Verrà come un bambino fra le tue braccia: non puoi avere paura di un bambino.
Ciò che vince la paura non è il coraggio, è la fame, fame di vita. Dire eccomi alla comunità significa scegliere di amare. E questa festa infatti ci dice che, come Maria, anche ciascuno di noi, fin dal grembo, è concepito, è pensato per uno scopo grande e nobile, quello di amare! È l’amore che ci fa vivere. Facendoci uscire da noi stessi per incontrare l’altro.
Nella liturgia oggi tutto parla di maternità: Eva, madre di tutti i viventi; Maria, concepirai e darai alla luce un figlio e lo chiamerai Gesù; e poi c’è Elisabetta, anche lei al sesto mese di gravidanza.
La Madonna è la vergine gestante che porta nel suo grembo un bambino, Gesù Cristo, ed è il simbolo di tutta la Chiesa, chiamata ad essere anch’essa una comunità gestante, che porta nel suo grembo un bambino, Gesù. Per questo sogno la Chiesa di Napoli come un grembo gestante, capace di generare il Cristo e in lui un’umanità nuova, una comunità nuova, una città nuova! Napoli ha bisogno di questa maternità sana, liberante, autentica, lontana dall’attaccamento al potere e proiettata al bene dell’altro!
Ogni maternità, tuttavia, necessita di camminare insieme alla paternità e per questo dobbiamo essere grati a Papa Francesco per averci aiutato, in quest’anno che oggi termina, a puntare lo sguardo del cuore su Giuseppe di Nazareth, uomo giusto in cui la paternità di Dio si mostra in tutta la sua tenerezza, discrezione, forza. Giuseppe con i suoi silenzi, con la sua vita, con la sua capacità di accogliere, custodire, difendere, guidare, ci insegna che è possibile un’altra esperienza di cura, complementare a quella materna, la cura della paternità! Una paternità accogliente e forte, una paternità che indica direzioni, una paternità capace di coraggio creativo! Il compito della testimonianza paterna è quello di rendere possibile un senso del mondo. Ma è anche quello di trasmettere il desiderio da una generazione all’altra, di trasmettere il senso dell’avvenire.
Sorelle e fratelli, che il frutto di questo giorno di festa sia per tutti noi una rinnovata consapevolezza dell’importanza della cura, della necessità di una maternità accogliente e premurosa, capace di chinarsi sulle ferite della città; di una paternità che testimoni il senso del vivere e del camminare insieme, il significato di un futuro diverso possibile. Che Maria, donna bellissima e luminosa nel suo candore, e Giuseppe, padre accogliente e uomo giusto, ci guidino in questo cammino. Amen”