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martedì 7 dicembre 2021

Intervista con Paolo Vanni, psicologo italiano a Lesbo: “Ho curato bambini che non parlavano più, la violenza sulle menti è ancora peggiore”

“Ho curato bambini che non parlavano più,
la violenza sulle menti è ancora peggiore”

Intervista con Paolo Vanni, psicologo italiano a Lesbo: «A pesare molto è la mancanza di prospettiva. Oltre a tutto quello che hanno passato l’impatto di vivere in un campo chiuso e sorvegliato è pesante»

Paolo Vanni, psicologo Medical Volunteers International 

«La prima volta che sono stato a Lesbo mi sono chiesto: ma questa è Europa?». Paolo Vanni è uno psicologo 40enne di Bra (Cuneo), dove ha frequentato il Liceo Giolitti-Gandino e poi ha lavorato per l'Università di Scienze Gastronomiche fondata da Slow Food. Nel 2018 nel campo profughi di Mytilene ha provato «un senso di vergogna, e questo mi ha spinto nel tempo a lasciare tutto e a trasferirmi su quest’isola, per mettermi a servizio di richiedenti asilo e rifugiati». Ora si occupa di bambini e ragazzi che manifestano problematiche «post traumatiche da stress, in seguito a disgrazie che hanno vissuto nel paese d’origine, o nel disperato tragitto. O qui nel Centro di Ricezione e Identificazione».

Dunque questa per lei è una seconda vita?

«Contribuendo con Dario Leone ai “Migranti Film Festival” dell’Università, ho conosciuto una persona proveniente dell’Afghanistan transitata da Lesbo: questo incontro mi ha portato a prendere l’aereo e dedicare tre settimane di ferie del 2018 al volontariato per i profughi di Lesbo. E da lì non ho più smesso. Fino alla decisione di quest’anno, presa a marzo, di trasferirmi sull’isola greca».

Con quale compito?

«Lavoro per Medical Volunteers International per cui coordino un progetto di salute mentale e supporto psicosociale per bambini e adolescenti».

Ci parla dei bambini e ragazzini che segue?

«Offriamo aiuto psicologico ai bimbi e ai genitori tramite sessioni di gruppo, per mitigare i sintomi che presentano, spesso collegati a disturbi post traumatici da stress in seguito a drammi che hanno dovuto affrontare nella loro terra, nel viaggio della speranza che è diventata orrore, o anche alle dinamiche frustranti nel centro rifugiati».

Ci fa degli esempi?

«Ci sono bambini che hanno smesso di parlare dopo l’incendio del campo di Moria, e che stanno recuperando solo ora la facoltà di comunicare. Bimbi aggressivi nei confronti di se stessi fino all’autolesionismo, o con altri bambini o i genitori. Bambini che soffrono di sonnambulismo. Diuresi in età avanzata. E tutto è aggravato dalla cappa di detenzione in cui vivono».

Ci spiega?

«Siamo in un campo chiuso e ultra-controllato dalla polizia: gli ospiti possono oltrepassare i cancelli solo poche ore a settimana. L’impatto sulla salute mentale è pesante. E poi, i giovanissimi hanno subìto un’altra gravissima privazione».

Quale?

«Per 18 mesi non hanno avuto alcun accesso ad attività scolastiche - complici anche le restrizioni anti-covid - o educative, tranne rare eccezioni informali».

I vostri risultati sono incoraggianti?

«Sì, abbiamo osservato miglioramenti importanti, ma che non sono mai stabili, perché tutto dipende dalla quotidianità incerta e rassegnata di questi bambini, e dalla gravità dei turbamenti e degli choc che hanno interiorizzato. E poi, conta molto la prospettiva: se la famiglia riceve un diniego alla richiesta del diritto d’asilo, si allontana una maggiore dignità di vita, e crescono depressione e rabbia. Nei grandi e nei piccoli».
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