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mercoledì 10 novembre 2021

LA PLURALITÀ DELLE FEDI RICHIEDE DIALOGO E SCAMBIO DEI DONI


LA PLURALITÀ DELLE FEDI
RICHIEDE DIALOGO E SCAMBIO DEI DONI

Nel sinodo della Chiesa italiana sarà utile non trascurare un mutamento decisivo nel panorama religioso del nostro Paese, ovvero il passaggio – per usare un’efficace espressione di Brunetto Salvarani – «dalla religione degli italiani all’Italia delle religioni». Si tratta di prendere atto non di un cambiamento in divenire, ma in gran parte già avvenuto, che inevitabilmente ridefinisce il campo d’azione della Chiesa cattolica nel nostro Paese, soprattutto in ambito pastorale.

L’Italia delle religioni

In Italia, la presenza di minoranze religiose non è una novità; ciò che negli ultimi anni è sensibilmente cambiato è il peso specifico che tali minoranze hanno assunto nel tessuto sociale. Volenti o nolenti, gli italiani incrociano quotidianamente un mercato religioso sempre più diversificato, in parte perché altre religioni – o altre confessioni cristiane – si sono stabilite sul nostro territorio (con tutta l’intenzione di risiedervi stabilmente), in parte per via del diffondersi di modalità d’appartenenza alla religione cattolica sempre più diversificate.

La crescente frammentazione del panorama religioso è scaturita in primo luogo da processi esogeni, legati alle migrazioni. Lo si percepisce facilmente anche a occhio nudo: macellerie halal, gurudwara, negozi in cui poter trovare articoli rivolti ad acquirenti non cristiani sono sempre più diffusi nelle nostre città, sebbene il più delle volte ancora confinati nelle periferie.

I milioni di immigrati che negli ultimi decenni si sono trasferiti in Italia hanno infatti portato con sé, oltre alla speranza di migliorare le proprie condizioni di vita, anche la cultura, i valori, le tradizioni e le religioni dei loro paesi di origine. Chi, ad esempio, frequenta il mondo della scuola (che inevitabilmente precorre i mutamenti del nostro tessuto sociale, svelandoci come sarà l’Italia di domani) sa bene che una classe con studenti di tre-quattro fedi diverse oggi non è affatto un’eccezione, ma la norma.

Il cattolicesimo “fai da te”

Il pluralismo religioso, tuttavia, scaturisce anche da un processo interno al cattolicesimo, endogeno, da cui si dipanano percorsi di fede sempre più «à la carte» (Bauman). Il Cesnur stima che la religiosità «fai da te», caratterizzata da cammini spirituali personali sempre più sganciati dalle strutture tradizionali, sia un fenomeno che interessa addirittura il 50% della popolazione italiana. Ciò vuol dire che in Italia parlare di pluralismo non significa soltanto parlare della convivenza di differenti religioni, ma anche di diversi modi vivere il cristianesimo.

Nonostante alcune importanti aperture del vescovo di Roma, le forme religiose tradizionali sembrano ormai meno capaci di far presa sulla popolazione e in particolare sulle nuove generazioni che, nel loro continuo interrogarsi sul senso dell’esistenza, trovano risposte sempre meno convincenti all’interno della Chiesa, specie nella sua veste più «istituzionale». Così, cercano altrove.

Oggi, sebbene nell’immaginario collettivo «italiano» coincida ancora con «cattolico», la realtà è ben diversa. Il cattolicesimo continua a rappresentare il riferimento più diffuso nella popolazione, ma in un orizzonte che si sta sensibilmente modificando. Occorre pertanto prendere atto, in primo luogo, che nel panorama religioso italiano sono presenti altre fedi oltre a quella cristiano-cattolica, fedi dalle quali, al pari del cattolicesimo, «gli uomini attendono […] la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo» (Nostra Aetate 1).

Una convivenza inevitabile

Il problema non è se esista o meno l’alterità. Se anche continuassimo ad immaginarci tutti gli italiani come cattolici, le altre fedi non sparirebbero. «La realtà è più importante dell’idea», dice papa Francesco (Evangelii Gaudium 231).

Il punto, allora, non è quello di decidere se relazionarci col pluralismo, ma piuttosto come. Possiamo farlo in modo positivo, accogliendo la molteplicità di esperienze religiose come una ricchezza, come un confronto costruttivo fra uomini e donne accumunati dalla ricerca della verità e della salvezza ultima; oppure considerare l’alterità di fede con paura, come una minaccia per la nostra identità religiosa. È questa la scelta che ci è data, non altre.

Al momento, la diversità religiosa nel nostro Paese mi pare nel complesso ignorata, specie dalle istituzioni ecclesiali, nonostante le immagini di dialogo con le altre fedi che in questi giorni scorrono nei telegiornali. Mi ha molto colpito, ad esempio, come in un momento drammatico della pandemia, la CEI abbia espresso al Governo il proprio disappunto sulla chiusura delle Chiese, che a suo dire ledeva la «libertà di culto» dei fedeli (nota del 26/04/2020, «DPCM, la posizione della CEI»).

Solo pochi giorni prima i cittadini musulmani avevano cominciato il mese di Ramadan, eppure nemmeno una parola per difendere la loro libertà di culto, altrettanto «minacciata» dalla chiusura delle Moschee. Nessun incontro con i rappresentanti di altre fedi per arrivare a un comunicato congiunto, o a una proposta condivisa da indicare al Governo. Come mai? Il fatto è che, nel suo esporsi pubblicamente, la Chiesa è quasi sempre convinta di parlare ancora a nome di tutta la popolazione dei credenti.

Il Sinodo può essere allora l’occasione, per la Chiesa italiana, di dirsi serenamente che non è più la portavoce degli italiani, ma di una parte soltanto, perché sono ormai presenti nel nostro Paese anche altre «parti», con le quali – volenti o nolenti – siamo costretti a convivere. Da qui, la necessità di ripensare molte delle modalità con cui relazionarsi con la gente e le istituzioni, perché appartengono a un tempo che non esiste più.

Ma le altre fedi, che «non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (Nostra Aetate 2), offrono alla Chiesa anche un’occasione importante per ri-pensarsi e ri-collocarsi in questo tempo. Esse costituiscono, pertanto, non certo una minaccia, ma una possibilità di vivere il Vangelo ancor più da vicino.

Lo scambio dei doni

Il primo passo, inevitabilmente, è quello di riconoscersi, il secondo quello di cominciare a parlarsi.

Avviare un dialogo all’interno di una polis che è sempre più delle religioni, e non più di una soltanto, non significa relativizzare le proprie convinzioni, ma riconoscere che vi sono altre vie che cercano di svelare l’inesauribile mistero di Dio.

Dialogare con un’altra comunità, con l’esterno, significa inoltre avviare un dialogo anche al proprio interno, perché l’incontro con l’altro implica fatalmente nuove comprensioni di sé. La nascita di una Chiesa pentecostale nel nostro quartiere, ad esempio, può essere percepita come la presenza di un «concorrente», oppure come un’interpellanza per la nostra stessa comunità: che cosa stanno cercando quei «convertiti» che non trovano nella nostra Chiesa?

La presenza di giovani che vivono la loro spiritualità lontani dalle forme tradizionali del cattolicesimo può essere vista come una forma di indifferenza, ma anche come la richiesta di ripensare il nostro modo di stare con loro: quali risposte quei giovani non trovano nel nostro gruppo di credenti? Ciò non significa, naturalmente, che ogni domanda debba essere accolta. Ma senza dubbio che debba essere ascoltata e considerata come un’occasione per avviare una riflessione comune.

Una comunità credente autoreferenziale, che guarda solo al suo interno, ai propri membri, non provocata da ciò che sta fuori, rischia di trasformarsi in un circolo chiuso, sempre più estraneo alla realtà e dunque sempre meno capace di interagire con essa.

In un tempo di forte crisi per le forme tradizionali della religione, in cui sembra approssimarsi la «fine della civiltà parrocchiale» (Christoph Theobald), il dialogo si presenta allora come una via da percorrere per immaginare nuove forme di annuncio e di testimonianza cristiana, nella consapevolezza che «attraverso uno scambio di doni, lo Spirito può condurci sempre di più alla verità e al bene» (Evangelii Gaudium 246).

[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: “casertaweb.com”]