Napoli, l’arcivescovo Battaglia e la lotta ai criminali:
“La camorra è un’ombra sulla città,
la sfida è aiutare i giovani per battere la malavita”
Intervista con «don Mimmo», prete di strada pastore partenopeo: «Il ruolo della Chiesa: restare fedele al Vangelo della giustizia e della pace. La ricchezza dei napoletani è fatta di generosità, creatività e accoglienza, anche nelle difficoltà»
«La camorra è un’ombra che oscura Napoli. Dobbiamo dircelo senza ipocrisie. E affrontare i nostri problemi subito, insieme, con senso di responsabilità, Chiesa compresa, chiamata a uscire dai sacri recinti. Così arriverà presto una nuova alba». Parla monsignor Domenico Battaglia, per tutti sempre don Mimmo, prete di strada che papa Francesco ha scelto come pastore dell’arcidiocesi partenopea. Il presule ha da poco pubblicato il libro «Un filo d’erba tra i sassi» (Rubbettino).
Eccellenza, che cosa ha provato dopo avere saputo di essere stato scelto dal Pontefice come pastore di una diocesi prestigiosa ma anche complessa come Napoli?
«Un profondo senso di gratitudine, verso il Signore e verso papa Francesco che mi ha chiamato a servire una comunità cristiana con una storia antica e un presente ricco e complesso. Ovviamente non è mancato il dispiacere di dover lasciare la Chiesa di Cerreto: i volti e le storie che vi ho incontrato restano nel mio cuore, che ora apro con gioia anche ai volti e alle storie di questa Chiesa, di questa bellissima città. Inoltre se non mi sostenesse la certezza che chi mi chiama a tanta responsabilità, è Colui in cui ripongo tutta la mia speranza, mi sentirei come schiacciato da un’incombenza nettamente superiore alle mie forze».
Dalle periferie degli «ultimi» a una delle diocesi più importanti del mondo, dalle piazze dello spaccio a san Gennaro: quale senso e significato dà a questo percorso di vita e di fede?
«Il mio percorso di prete e di vescovo è legato al volto di tanti ragazzi, poveri, emarginati, sofferenti: sono loro che mi hanno convertito alla logica del Vangelo, così diversa da quella del mondo. Per questo sento profondamente mie le parole di papa Francesco: “Desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi (...) conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro” (EG 198). Nel giorno del mio ingresso ho raccontato di Stefano, un ragazzo con problemi di dipendenza, morto di Aids. L’incontro con lui, l’abbraccio con lui cambiò la mia vita e la sua, insegnandomi il coraggio di vivere fino in fondo, guardando in faccia la morte per abbracciare la vita. Avendo fiducia nella potenza dell’amore. In fondo è anche quello che fa un martire, anche quello che ha fatto San Gennaro: non temere la morte per abbracciare la vita. Il significato sta tutto qui: nell’amore. Che sconfigge ogni morte. Che ridesta la vita».
Quali sono compiti e missione dell'arcivescovo di una diocesi come quella partenopea?
«Il mio compito è servire il Vangelo, camminando accanto al popolo di Dio, nella città, come un viandante, convinto che solo insieme possiamo seguire l’unico Maestro e Pastore, Gesù. Non ho progetti preconfezionati o ricette pronte ma ho ben chiaro che ogni piano pastorale, ogni scelta concreta dovrà ispirarsi al Signore Gesù. La mia missione, la missione di ogni vescovo è essere fedele alla Parola, che in questo tempo più che mai invita la Chiesa ad uscire dai sacri recinti, senza temere le strade tortuose e difficili, mettendosi al servizio del territorio, partendo dagli ultimi per arrivare a tutti. Una Chiesa in uscita, povera, sinodale, discepola della fragilità, che sa far sue “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono” (GS, 1)».
In che senso la sua nuova diocesi è «tesoro del sud», come l’ha definita? Quali valori in particolare sottolinea?
«Al di là di slogan e luoghi comuni, Napoli è una città bellissima, prima ancora che per la bellezza della sua storia e della natura per il patrimonio di umanità che custodisce. La ricchezza dei napoletani è complessa ed è fatta di generosità, di creatività, accoglienza. Certamente non mancano le ombre ma i napoletani le fronteggiano senza arrendersi. Come tutta la gente del sud, non solo d’Italia ma anche del mondo. La cosiddetta “arte di arrangiarsi” dei napoletani non è altro che capacità di resilienza, arte di abitare la notte della croce senza dimenticare l’alba della resurrezione, pregando e lottando affinché arrivi presto. Ed è di risurrezione che ha bisogno il nostro sud. Per questo Napoli, con la sua capacità di resistere e la sua voglia di risorgere, può essere un tesoro di riscatto per tutto il meridione».
Nel primo messaggio rivolto ai fedeli partenopei ha parlato di «evidenti problemi, alcuni antichi ed altri nuovi»: quali la preoccupano di più?
«Come dicevo Napoli ha delle ombre, dei problemi. Dobbiamo dircelo senza ipocrite retoriche. La disoccupazione, la camorra, l’emergenza educativa, la marginalità di fasce intere della popolazione non possono essere ignorate. La crisi pandemica ha fatto emergere con evidenza queste difficoltà. Questa è l’ora della responsabilità. Lo dobbiamo a noi stessi ma soprattutto dobbiamo essere responsabili per le nuove generazioni. Partire da loro e con loro è fondamentale: per questo occorre rimettere al centro la sfida educativa, creando rete, dando vita ad una comunità educante in cui famiglie e scuola, comunità cristiane, istituzioni, terzo settore, associazioni e volontariato, possano dar vita ad una sorta di villaggio educativo globale. In questo modo non si lavora solo al futuro dei bambini e dei giovani ma al presente della città, alla sua sicurezza che può essere garantita solo da una cultura di vita, fatta di lavoro, impregnata da un’etica della cura, capace di sottrarre al fascino della criminalità e del guadagno facile».
Ha qualche timore per la sua persona da arcivescovo di una diocesi segnata dai problemi di criminalità?
«Non ho paura. So in chi ho posto la mia speranza. E so che la bellezza del Vangelo è capace di convertire i cuori più induriti ed è a servizio di questa conversione che voglio porre il mio ministero. Senza eroismi individuali ma generando un cammino ecclesiale, di comunità. Il giudice Falcone diceva che “la mafia - e questo vale anche per la camorra - non è invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine”. La Chiesa, nella fragilità degli uomini e delle donne che la compongono, può affrettare questa fine nella misura in cui resta fedele al Vangelo della giustizia e della pace».
Don Luigi Ciotti ha scritto che don Mimmo Battaglia è «una guida spirituale capace di immergersi nella storia delle persone, a cominciare dalle più fragili, povere, dimenticate. Un pastore anche per molti giovani, di cui sa intercettare bisogni, aspirazioni, inquietudini. Un punto di riferimento»: com’è e come sarà la Chiesa napoletana di monsignor Mimmo Battaglia?
«Non esiste la chiesa napoletana di don Mimmo. Esiste la Chiesa di Cristo, è lui il centro di tutto. E Cristo sogna una Chiesa fedele al suo Vangelo, capace di insaporire con il sale della condivisione ogni progetto pastorale, confidando non nelle strutture e nei programmi ma nella misericordia e nella tenerezza del Padre. Gesù ci invita ad essere una Chiesa missionaria, dove non si celebrano solo dei riti ma si dona attenzione sacra alla vita e alle speranze delle donne e degli uomini del nostro tempo. Partendo dai giovani, così desiderosi di chi sappia dare risposte autentiche e affidabili alla loro sete di felicità. La Chiesa napoletana è chiamata a generare artigiani di pace, credenti che ricercano l’infinito nel loro impegno per la terra, discepoli entusiasti capaci di accogliere i limiti per farne possibilità̀, donando a tutti il seme della speranza».
Lei ha affermato: «La nostra credibilità di cristiani non ce la giochiamo in base alle genuflessioni davanti all'ostensorio, ma in base all'attenzione che sapremo dare al "corpo e al sangue" dei giovani disoccupati»: sarà la principale sfida sociale che vorrà affrontare e sostenere?
«La disoccupazione è una piaga sociale terribile su cui noi, come samaritani, siamo chiamati a chinarci, versando l’olio della vicinanza e il balsamo di una solidarietà operativa, concreta, tangibile. Non possiamo girarci dall’altra parte: significherebbe tradire il Vangelo. Le istituzioni e i cittadini oggi più che mai non possono stare alla finestra in attesa che questa piaga guarisca da sola. Dobbiamo essere tutti insieme operosi. E anche noi come Chiesa faremo la nostra parte, senza far mai mancare la nostra voce, le nostre mani, il nostro cuore per mostrare a tutti che insieme si può rendere possibile ciò che da soli è impossibile».
Prima dell'ingresso nella cattedrale di Cerreto Sannita, la visita all'Istituto Penale per i minori di Airola. Prima della cattedrale di Napoli il raccoglimento in preghiera con le monache di clausura della chiesa di San Giuseppe dei Ruffi, poi l'incontro con la famiglia di Francesco Della Corte, il vigilante ucciso da tre minorenni, e la visita a un operaio Whirlpool: quali messaggi ha voluto lanciare?
«Ho voluto compiere un pellegrinaggio simbolico di giustizia e di pace iniziando proprio dalla preghiera con le Claustrali perché è dall’incontro con l’amore sorgivo di Dio, che la missione della Chiesa nasce ed è sempre ad esso che il suo impegno per l’uomo sofferente conduce. Ho desiderato incontrare delle persone e delle storie rappresentative delle fragilità e delle sofferenze della città. In essi, in ogni persona fragile e povera, è presente Cristo stesso, la sua carne ferita. Troppe volte releghiamo con la nostra indifferenza i poveri e i sofferenti all’anonimato ma la povertà non è una categoria: è fatta di nomi da pronunciare, di volti da accarezzare, di storie sacre da accogliere e incontrare. Ho voluto vivere questo pellegrinaggio nell’intimità, accompagnato solo da due presbiteri e due giovani affinché rappresentasse non solo il desiderio del Vescovo ma l’esigenza di tutta la Chiesa napoletana di percorrere insieme un nuovo tratto di esodo, un percorso comune che ci impegna a camminare, insieme, tra le strade strette delle periferie, tra i vicoli bui delle fatiche della città, per seminare con audacia la speranza del Regno».
Nel recinto cattolico ci sono no vax: che cosa ne pensa?
«Nella mia diocesi invito preti, diaconi e operatori pastorali a vaccinarsi. Alcuni mi hanno manifestato la loro impossibilità fisica o morale a sottoporsi alla vaccinazione: tenuto conto di ciò, chiedo a tutti coloro che intendono svolgere il loro servizio a favore del Popolo di Dio di sottoporsi al tampone».
Una versione sintetizzata di questa intervista è stata pubblicata nell’edizione odierna del quotidiano La Stampa