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mercoledì 24 marzo 2021

Don Ciotti: «Ho abitato in una baracca, la maestra mi rimproverò e le lanciai contro un calamaio»

Don Ciotti: «Ho abitato in una baracca, la maestra mi rimproverò e le lanciai contro un calamaio»

Il prete antimafia don Luigi Ciotti: «Tifo per la Juventus che mi regalò sette mucche». Poi aggiunge: «A una lotteria mio papà vinse un uovo di Pasqua gigantesco, mi ricordo quando scese dal treno con quel regalo, la felicità la sento addosso ancora oggi»


Don Luigi, ma lei non è mai da solo?
«Ho scelto di condividere tutto con altri. Progetti, visioni, risorse. Non credo che i cambiamenti siano cose per navigatori solitari».

No, don Luigi Ciotti non è mai da solo. Per arrivare da lui si deve raggiungere un caseggiato anonimo in un quartiere popolare di Torino, poi incontrare quattro agenti in borghese che lo scortano giorno e notte. Solo dopo, circondato dai più fedeli collaboratori (come Fabio Cantelli Anibaldi, qui l’intervista), il prete che ha fondato il Gruppo Abele e Libera ti accoglie con una gentilezza modulabile in passione o rabbia o dolore sordo, a seconda degli argomenti. Settantacinque anni e migliaia di battaglie sociali.

Quanta forza fisica ci vuole?
«Tanta e qualche volta viene meno. Ma io mi porto dietro sempre la consapevolezza di essere nessuno. Sono un radiotecnico, uno che a Torino ha cominciato vivendo con la famiglia in una baracca in un cantiere in costruzione, quello del Politecnico. Da immigrato».

Immigrati da Pieve di Cadore. Com’era la sua vita da bambino, lassù?
«Ricordo il mulino di mio nonno. Ha funzionato fino al 1949. Poi la ditta incaricata di costruire la diga del lago di Cadore lo espropriò per poche lire. Venne sommerso dalle acque, ma quei soldi servivano a chi non poteva mangiare. Avevo quattro anni».

Poi Torino. Un padre muratore prima e capomastro dopo, sempre fuori per lavoro; una madre umile ma intelligente, che leggeva libri alla luce di una candela in baracca. Due sorelle. Come si diventa don Ciotti?
«Mi hanno insegnato una fede fatta non di retorica ma di concretezza. Ispirata alla giustizia. Certo, poi c’è l’episodio del calamaio».

Racconti.
«A scuola una maestra mi rimproverò ingiustamente chiamandomi “montanaro”. Cieco di rabbia presi il calamaio e glielo scagliai addosso. Questo per dire che mi portavo dentro il bisogno di arrabbiarmi di fronte alle ingiustizie. E poi, certo, ero segnato dalle difficoltà. Torino è una città che mi ha accolto e, anzi, di recente mi hanno chiesto di diventare ambasciatore della sua cultura. Ma non era facile arrivare qui negli anni Cinquanta. Avevo un occhio allenato agli ultimi, li scovavo».

Così, anni dopo, intuì prima di molti altri che stava arrivando l’eroina? 
«Me lo fece capire Mario nei primi anni Sessanta. Era un medico che era finito sulla strada dopo aver perso tutto. Io ero già nell’Azione Cattolica, mi avvicinai per parlargli ma lui mi indicò un gruppo di giovani davanti a un bar. Bevono, mi disse, e prendono anche delle pasticche. All’epoca le amfetamine te le vendevano in farmacia, per aumentare la concentrazione. Ma Mario aveva visto lo “sballo”».

Nacque così il Gruppo Abele, da una domanda tra le più difficili: «Sono forse io il custode di mio fratello?» E la risposta è «sì».
«Erano gli anni Sessanta, cominciammo con i senza dimora poi presero ad arrivare i tossicodipendenti. Non volevano tornare a casa. Mi dicevano: “Spacciano sotto casa mia, se torno lì ci ricasco”. Il punto è che lo Stato non poteva riconoscere quel disagio senza ammettere anche che la cosiddetta società del benessere era piena di storture e di ingiustizie».

Così fingeva di non vedere, affidandosi a figure carismatiche come la sua.
«Capimmo che l’assistenza non bastava. Bisognava prendere posizione, l’impegno sociale doveva avere una coscienza politica. Qualche giorno fa mi ha scritto un poliziotto in pensione, confessandomi che nel 1974 era stato sul punto di arrestarmi. Il fatto era che anche chi aiutava i tossicodipendenti, prima della legge 685, era a sua volta colpevole. Noi ci autodenunciammo. Ma, come dico anche nel libro (Giunti, ndr) L’amore non basta, io ho due guide: il Vangelo e la Costituzione».

Don Luigi, i suoi ragazzi ad un certo punto presero a morire. Quanti ne ha seppelliti?
«Anche due o tre alla settimana, per overdose o per Aids. Faticavo pure a trovare una lettura del Vangelo che non fosse uguale a quella proclamata pochi giorni prima».

Una volta in cui le è mancato il coraggio?
«Un ragazzo mi chiese i soldi per una dose. Decisi di essere rigoroso e glieli negai. Lui si tolse la vita. Lasciò un biglietto nel quale diceva che aveva capito il mio no, ma non cambiò nulla in me. Mentre lo accompagnavo al cimitero continuavo a chiedermi se quella ostinazione alla rettitudine non fosse stata dannosa, se mi era mancato il coraggio di guardare oltre e di immaginare che cosa sarebbe potuto succedere. A volte la giustizia è questo: visione».

Libera, la rete contro le mafie, nacque negli anni Novanta, negli anni del dolore per le stragi in Sicilia. Ciotti, Gian Carlo Caselli e poi Luciano Violante. Immaginava che sarebbe arrivato a girare sotto scorta pure lei?
«C’è un legame tra la lotta alla droga e quella contro le mafie. Sin dagli anni Settanta la droga è la fonte di maggiore introito delle mafie. Non puoi combatterla senza combatterla anche come mercato criminale. Non amo l’assistenza fine a se stessa, la cosiddetta paccaterapia, le pacche sulle spalle. Mi sono preso i miei rischi, ma le dico una cosa: gli unici mazzi di fiori che arrivarono al cimitero quando mio padre morì, a 99 anni, furono quelli degli uomini della scorta. Una famiglia, per me».

Totò Riina, parlando di lei, disse: «Ciotti, Ciotti, putissimo pure ammazzarlo».
«Parlo malvolentieri di questo».

Ma deve aver avuto paura.
«No. Non in quel senso. Ero più preoccupato per la salute di mamma e papà, che venivano a sapere di queste minacce e ne soffrivano. Quando morì la mamma scoprii che aveva conservato decine e decine di ritagli di giornale che parlavano di me. Non mi aveva mai detto nulla. Vede quel macinacaffè? Apparteneva a lei. Lo tengo qui, con me. Quando ho incontrato per la prima volta papa Francesco ho pensato a mamma Olga e a quanto sarebbe stata felice di sapermi lì, a Roma, quel giorno».

Un ricordo di suo padre?
«Una volta con la mamma andammo a prenderlo alla stazione, di ritorno da uno dei suoi viaggi di lavoro. Ad una lotteria aveva vinto un gigantesco uovo di Pasqua. Quando scese dal treno vedemmo solo quel grande uovo. La felicità di quel regalo la sento addosso ancora adesso. Papà è vissuto a lungo assieme a me, ha visto quello che ho fatto, che abbiamo fatto. Eppure fino alla fine dei suoi giorni cercava di rendersi utile: una riparazione qui, una commissione là. Una colonna di Abele».

Almeno con i suoi ricordi riesce ad essere da solo?
«No perché tutto quello che ho fatto è stato assieme agli altri. E anche i ricordi sono condivisi. Ho avuto tanta gente che mi ha appoggiato. Le racconto uno dei regali più bizzarri: delle mucche. Mucche gravide, dono della Juventus. Ed erano pure bianche e nere!».

Ma perché le mucche?
«Sapevo che Boniperti aveva chiesto in premio alla sua società, per ogni goal segnato, una mucca gravida. Da uomo lungimirante e intelligente non voleva investire in attività finanziarie, ma nell’agricoltura. Allora contattai la squadra tramite Gian Paolo Ormezzano e proposi un patto: ci avrebbero donato una mucca per ogni scudetto vinto. Bene, la Juve vinse sette dei dieci campionati successivi. Ero felice anche perché io sono tifoso juventino».

Inoltre, negli anni vi eravate ingranditi, era arrivata anche Cascina Abele.
«Una follia. La visitammo e la prendemmo. Ci diedero ventiquattro ore per trovare venti milioni di lire per l’acconto. Cominciammo a vendere di tutto, dai mobili alle biciclette. Ma poi si scatenò la solidarietà. E lo sa chi ci aiutò, tra gli altri? I detenuti de Le Nuove, carcere di Torino. Avevano saputo della cosa e misero a disposizione anche le loro magre risorse».

Mi racconta un suo sogno ricorrente?
«Non sogno, anche perché dormo poco, qualche ora per notte, se va bene. Posso dirle che cosa mi angustia».

Prego.
«Che ancora troppe persone siano costrette a genuflettersi per far rispettare i propri diritti. All’istruzione, alla sanità, al lavoro. La pandemia non c’entra: anche prima eravamo messi così. Ho fatto scioperi della fame, ho fatto obiezioni di coscienza: perché sono convinto che la legalità non sia un fine ma un mezzo per ottenere giustizia. In nome della legalità possono nascere mostri giuridici, come le norme sui migranti. Oppure certe leggi come la Fini-Giovanardi, che criminalizzano il consumo di stupefacenti. Con il risultato che oggi un terzo di quelli che stanno in carcere sono condannati per violazione di queste norme».

Che cosa la rende felice oggi?
«Quando per strada mi capita di incontrare uomini e donne ormai in là con gli anni, dei nonni che portano a spasso i nipotini, i quali mi fermano e mi dicono: “Ti ricordi? Io ero uno dei tuoi ragazzi, ce l’ho fatta, sono uscito dalle dipendenze e ho trovato l’amore”».

Don Luigi, me lo dice finalmente com’è lei quando sta da solo?
«Non lo faccio mai con nessuno, ma venga con me. Le mostro dove dormo».

Entriamo nella stanza-santuario. Semplice, ma con tante foto alle pareti. Su uno scaffale pochi libri, tra i quali spicca una raccolta di scritti del cardinal Martini. E poi c’è una foto di Sandro Pertini, regalo di Carla Voltolina, la moglie del presidente. Ma soprattutto ci sono mamma Olga e papà Angelo. Giovani e in bianco e nero, anziani che sorridono incerti nelle foto a colori. Ci sono tante montagne, le Dolomiti, che se ci nasci poi ti restano dentro. Eccolo com’è don Luigi quando è da solo: è dentro un paesaggio sfocato e forse soltanto immaginato. Ma è l’unico dove ci si senta in pace.