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martedì 30 marzo 2021

LITURGIA DOMESTICA - GIOVEDÌ SANTO - I TRE GIORNI PASQUALI Nella Pasqua del Signore rinasciamo come nuova umanità e come Popolo di Dio

LITURGIA DOMESTICA
I TRE GIORNI PASQUALI


Nella Pasqua del Signore
rinasciamo come nuova umanità
e come Popolo di Dio
GIOVEDÌ SANTO

Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto
a cura di fr. Egidio Palumbo




Preparare in casa
l’“angolo della preghiera”
 

Con il Triduo Pasquale entriamo nel vertice della Grande Settimana, dove il Giovedì Santo, il Venerdì Santo e il Sabato Santo con la Veglia della Notte di Pasqua e il Giorno di Pasqua, saremo coinvolti in quel grande “passaggio” o “salto di qualità” esistenziale (“Pasqua” significa sia “passaggio” che “salto-danza”) che ci rinnova interiormente e ci rende tutti Popolo di Dio, poiché a Pasqua nasce la Chiesa Popolo di Dio, a Pasqua rinasciamo come figli e fratelli e sorelle in Cristo Gesù, nostro Fratello e Signore.



     Anche nei giorni del Triduo Pasquale è importante perseverare nella preghiera in famiglia, facendo della preghiera un ascolto dialogico con Dio e con la sua Parola. Lo sappiamo: non esiste solo la chiesa parrocchiale o la chiesa santuario per pregare. Per i cristiani ognuno – a motivo del battesimo e della cresima – è sacerdote in Cristo e quindi chiamato a pregare per sé e per gli altri, e ogni famiglia cristiana è chiamata per vocazione ad essere chiesa domestica.

    Per cui ogni famiglia può approntare in casa l’“angolo della preghiera”, quello che i nostri fratelli cristiani della chiesa orientale chiamano “l’angolo della bellezza”.

  In un luogo della casa, su un tavolo o su un mobile o su una mensola si possono collocare una icona del Cristo, una lampada (da accendere per la preghiera), una Bibbia aperta e un fiore. Ecco l’angolo bello, l’angolo da cui, attraverso l’icona, lo sguardo di Dio veglia sulla famiglia. Non siamo noi a guardare l’icona, ma è l’icona a guardare noi e ad aprirci alla realtà del mondo di Dio.

 

Per il Triduo Pasquale nell’“angolo della preghiera”, alla Bibbia, il libro che contiene la Parola di Dio, e al cero che ci richiama il cero pasquale, simbolo di Cristo Luce del mondo, che illumina il cammino della nostra vita, si può aggiungere il Giovedì Santo un pane spezzato e un calice, il Venerdì Santo sul Crocifisso porre (all’altezza del capo di Gesù) una corona di alloro in segno di vittoria, il Sabato Santo una immagine di Maria, la madre di Gesù, che nel silenzio orante attese la Risurrezione del Figlio.



     In questo angolo la famiglia si riunisce per pregare in un’ora del giorno compatibile con i ritmi di lavoro.

      Si può pregare seguendo varie modalità:

- Prima modalità. Leggere il brano del vangelo della liturgia del giorno, breve pausa di silenzio, poi recitare con calma il salmo responsoriale corrispondente e concludere con la preghiera del Padre Nostro, la preghiera dei figli di Dio e dei fratelli in Cristo Gesù (per le indicazioni del vangelo e del salmo del giorno utilizzare il calendarietto liturgico).

- Seconda modalità. Per chi sa utilizzare il libro della Liturgia delle Ore, alle Lodi e ai Vespri invece della lettura breve, leggere il vangelo del giorno alle Lodi e la prima lettura del giorno ai Vespri.

- Terza modalità. Si può utilizzare un libretto ben fatto, acquistabile nelle librerie che vendono oggetti religiosi. Si intitola “Amen. La Parola che salva” delle edizioni San Paolo, costa € 3,90 ed esce ogni mese.

  Di ogni mese contiene: la preghiera delle Lodi del mattino, le letture bibliche della celebrazione eucaristica dei giorni feriali e della domenica con una breve riflessione, la preghiera dei Vespri della sera, la preghiera di Compieta prima del riposo notturno e altre preghiere.

Scrive papa Francesco in Amoris Laetitia al n. 318, dando altri suggerimenti per la preghiera:

«Si possono trovare alcuni minuti al giorno per stare uniti davanti al Signore vivo, dirgli le cose che preoccupano, pregare per i bisogni famigliari, pregare per qualcuno che sta passando un momento difficile, chiedergli aiuto per amare, rendergli grazie per la vita e le cose buone, chiedere alla Vergine di proteggerci con il suo manto di madre. Con parole semplici questo momento di preghiera può fare tantissimo bene alla famiglia».

Sì, la preghiera in famiglia rafforza la nostra fede in Cristo Gesù e rende saldo il vincolo d’amore tra marito e moglie, tra i genitori e i figli, tra la famiglia e il territorio in cui abita e il mondo intero.

In questa proposta di Liturgia Domestica seguiamo la prima modalità.


GIOVEDI' SANTO

Attorno alla mensa del Signore
rinasciamo come fratelli e sorelle


I. Apertura della Liturgia domestica
Solista: Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Tutti: Amen.

(Accensione del cero)


Solista: Sii benedetto, o Padre, per il tuo Figlio pane spezzato e condiviso.
Tutti: ETERNO E' IL TUO AMORE PER NOI!
Solista: Sii benedetto, o Gesù Figlio di Dio, calice versato.
Tutti: ETERNO E' IL TUO AMORE PER NOI!
Solista: Sii benedetto, o Spirito Santo, che ci rinnovi come Chiesa, Corpo del Signore.
Tutti: ETERNO E' IL TUO AMORE PER NOI!


Solista: Pietoso e giusto è il Signore,
   il nostro Dio è misericordioso. […]
   Che cosa renderò al Signore ,
   per tutti i benefici che mi ha fatto?.
  Alzerò il calice della salvezza
  e invocherò il nome del Signore. […]

Tutti: A te offrirò un sacrifici di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore.
                       (dal Salmo 116)


II. Ascolto orante del vangelo di Giovanni 13,1-15.
Facciamo una breve pausa di silenzio, e poi chiediamo allo Spirito Santo che ci apra alla comprensione di questi scritti che contengono la Parola di Dio per noi oggi.

Tutti: Vieni, Santo Spirito,
manda a noi dal cielo
un raggio della tua luce.
Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.
Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
drizza ciò che è sviato.

Leggiamo attentamente e con calma GIOVANNI 13,1-15.

 

1Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.

2Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, 3Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 5Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.

6Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». 7Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». 8Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!».

Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». 10Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». 11Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».

12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.


   C’è, nel vangelo di Giovanni, una triade di verbi scarni, essenziali, pregnantissimi, che basterebbero da soli a sostenere il peso di tutta la teologia del servizio, e che illustrano la complementarietà della stola e del grembiule. I tre verbi sono: “si alzò da tavola”, “depose le vesti”, “si cinse un asciugatoio”.

“Si alzò da tavola”
  Significa due cose. Prima di tutto che l’eucarestia non sopporta la sedentarietà. Non tollera la siesta. Non permette l’assopimento della digestione. Ci obbliga a un certo punto ad abbandonare la mensa. Ci sollecita all’azione. Ci spinge a lasciare le nostre cadenze troppo residenziali per farci investire in gestualità dinamiche e missionarie il fuoco che abbiamo ricevuto.
  Questo è il guaio: le nostre eucaristie si snervano spesso in dilettazioni morose, languiscono nei tepori del cenacolo, si sciupano nel narcisismo contemplativo e si concludono con tanta sonnolenza lusingatrice, che le membra si intorpidiscono, gli occhi tendono a chiudersi, e l’impegno si isterilisce.
   Se non ci si alza da tavola, l’eucarestia rimane un sacramento incompiuto.
  La spinta all’azione è così radicata nella sua natura, che obbliga a lasciare la mensa anche quando viene accolta con l’anima sacrilega, come quella di Giuda: «Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte».
  Ma “si alzò da tavola” significa un’altra cosa molto importante. Significa che gli altri due verbi “depose le vesti” e “si cinse i fianchi con l’asciugatoio” hanno valenza di salvezza soltanto se partono dall’eucarestia.
  Se prima non si è stati “a tavola”, anche il servizio più generoso reso ai fratelli rischia l’ambiguità, nasce all’insegna del sospetto, degenera nella facile demagogia, e si sfilaccia nel filantropismo faccendiero, che ha poco o nulla da spartire con la carità di Gesù Cristo.
    […] Ogni impegno vitale, ogni battaglia per la giustizia, ogni lotta a favore dei poveri, ogni sforzo di liberazione, ogni sollecitudine per il trionfo della verità devono partire dalla “tavola”, dalla consuetudine con Cristo, dalla familiarità con lui, dall’aver bevuto al calice suo con tutte le valenze del suo martirio. Da una intensa vita di preghiera, insomma.
    Solo così il nostro svuotamento si riempirà di frutti, le nostre spoliazioni si rivestiranno di vittorie, e l’acqua tiepida che verseremo sui piedi dei nostri fratelli li abiliterà a percorrere fino in fondo le strade della libertà.

Depose le vesti”
    Non so se sto forzando il testo. Ma a me pare che con questa espressione del vangelo venga offerto il paradigma dei nostri comportamenti sacerdotali, se vogliono collocarsi sul filo della logica eucaristica.
    Chi sta alla tavola dell’eucarestia deve “deporre le vesti”.
    Le vesti del tornaconto, del calcolo, dell’interesse personale, per assumere la nudità della comunione.
    Le vesti della ricchezza, del lusso, dello spreco, della mentalità borghese, per indossare le trasparenze della modestia, della semplicità, della leggerezza.
  Le vesti del dominio, dell’arroganza, dell’egemonia, della prevaricazione, dell’accaparramento, per ricoprirsi dei veli della debolezza e della povertà, ben sapendo che “pauper” non si oppone tanto a “dives” quanto a “potens”.
    Dobbiamo abbandonare i segni del potere, per conservare il potere dei segni.
    Non possiamo amoreggiare col potere.
   Non possiamo coltivare intese sottobanco, offendendo la giustizia, anche se col pretesto di aiutare la gente.
  Gli allacciamenti adulterini con chi manipola il danaro pubblico ci devono terrorizzare. Dovremmo rimanere amareggiati ogni qualvolta ci sentiamo dire che le nostre raccomandazioni contano. Che la nostra parola fa vincere un concorso. Che le nostre spinte sono privilegiate.

“Si cinse un asciugatoio”
   Ed eccoci all’immagine che mi piace intitolare “la Chiesa del grembiule”. Sembra un’immagine un tantino audace, discinta, provocante. Una fotografia leggermente scollacciata di Chiesa. Di quelle che non si espongono nelle vetrine per non far mormorare la gente e per evitare commenti pettegoli, ma che tutt’al più si confinano in un album di famiglia, a disposizione di pochi intimi, magari delle signore che prendono il tè, con le quali soltanto è permesso sorridere su certe leggerezze di abbigliamento o su certe poso scattate in momenti di abbandono.

    La Chiesa del grembiule non totalizza indici altissimi di consenso.
  Nell’“hit parade” delle preferenze, il ritratto meglio riuscito di Chiesa sembra essere quello che la rappresenta con il legionario tra le mani, o con la casula addosso. Ma con quel cencio ai fianchi, con quel catino nella destra e con quella brocca nella sinistra, con quel piglio vagamente ancillare, viene fuori proprio un’immagine che declassa la Chiesa al rango di fantesca.
                                                                                 (Don Tonino Bello)

Breve pausa di silenzio

Padre, giunta l’ora di morire,
il tuo Figlio ci ha lasciato
un segno di eterna memoria:
il pane spezzato
e il vino della nuova alleanza;
fa’ che quanti si cibano del suo corpo
e del suo sangue
diventino essi stessi per i fratelli
un pane che dà vita
e un calice di vino
che effonde la gioia. Amen.
                          (Davide Turoldo)





III. Contempliamo l’icona della Cena del Signore

[Per la contemplazione dell’icona della “Cena del Signore”, proponiamo la meditazione della nostra amica e iconografa Pia Giannetto, che ha “scritto” (si dice così, e non dipingere, perché l’icona è trascrizione di una o più pagine bibliche attraverso immagini, colori e figure geometriche) questa icona, che è collocata nella cappella del SS. Sacramento del nostro Santuario della Madonna del Carmine di Barcellona P.G. (ME)]

 

     Siamo posti dinnanzi al mistero della Cena Domini, della Cena del Signore: banchetto mistico – spirituale e sacramentale al tempo stesso – in cui Gesù Cristo, nel quale «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Colossesi 2,9), diventa, come dice Gregorio Palamas, «con-corporeo a noi», per essere trasformati in Lui.


1. La struttura portante dell’icona
    Essa è cruciforme, cioè a forma di croce.
    La linea verticale, partendo dall’alto e percorrendo l’icona centralmente, unisce il volto “Acheropita” (che significa “non fatto da mani d’uomo”), collocato sul bordo in alto dell’icona, con il fuoco, posto sull’architettura che fa da sfondo “alla scena”, e con la coppa che contiene “il pesce”, simbolo del Cristo.

   La linea orizzontale, invece, sostiene le due architetture delle due case, che sono unite da un drappo rosso. Esso intende avvertire che l’evento della Cena del Signore si svolge all’interno della “camera alta” del Cenacolo e, nello stesso tempo, tale evento vuole trasmette un senso di calore, di intimità e di pace a colui/colei che contempla l’icona.

   I personaggi della Cena appaiono in primo piano, attorno ad una tavola ovale che, a motivo della “prospettiva inversa” (elemento tipico delle icone), si raddrizza, affinché chi contempla la possa vedere nella sua intera estensione. La tavola ovale, infatti, è il centro focale di tutta l’icona, il cui fulcro coincide con il Calice offerto alla vista di tutti.

   Attorno alla tavola siedono i commensali, ovvero i discepoli; mentre Gesù, l’unico ad avere il capo con il nimbo, è seduto a lato, quasi ad evocare quanto è scritto in Apocalisse 3,20: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me».


2. Il dono accolto e il dono rifiutato: Giovanni, il discepolo amato, e Giuda, il traditore
    Accanto a Gesù, riverso sul suo petto, sta il discepolo amato che, col suo movimento di consegna (leggibile dal movimento delle mani, poste in forma concava in segno di ricezione), è visibilmente in contrasto con il movimento (apparentemente simile) di Giuda, che sta sulla stessa traiettoria, riverso anch’esso, ma su se stesso; movimento, quello di Giuda, reso leggibile dalle mani: una impegnata a carpire, a possedere il contenuto del Calice, l’altra chiusa, segno di una vita trattenuta, concentrata solo sul proprio ego.




  Quindi, diversità e contrapposizione tra le figure del Discepolo amato e Giuda, ovvero tra l’accoglienza del Dono e la cieca supponenza di appropriazione di esso (non riconoscendo il Dono è offerto da sempre e per sempre). Tale diversità è messa in evidenza anche dal colore della veste: il mantello del Discepolo che si lascia amare, è reso con riflessi simili a quelli della veste di Gesù. Il suo gesto ricettivo indica, attraverso l’accettazione del Dono d’amore, l’essere unito al Signore Gesù, e così poter ricevere dal suo petto l’Amore.

   Questo gesto recettivo rende il Discepolo amato somigliante a Colui che si dona. Infatti il suo mantello, dal colore rossiccio con riflessi blu-lapis, assomiglia alla tunica di Gesù, il quale è Dio (il rosso porpora indica regalità divina nel servizio) che si è rivestito della carne umana (il colore blu-lapis del suo mantello indica l’incarnazione, ovvero il cielo ripiegato sulla terra), al fine di donare la sua regalità all’essere umano, come da sempre – affermano i padri della Chiesa – aveva decretato il “Divino Consiglio” della Trinità: «…in Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Efesini 1,3-14); «[Dio] li ha anche predestinati ad essere con-formi all’immagine del Figlio suo» (Romani 8,28-30).

     Diversa è la figura di Giuda. Pur avendo apparentemente gli stessi colori, la sua veste essa è divisa, contrapposta a se stessa: indica un’esistenza lacerata e ambigua. La sua ambiguità è indicata anche dal suo volto reso di profilo: il volto reso frontale o a 3/4 rende visibile l’identità della persona nella sua interezza e trasparenza, di profilo invece della sua identità se ne vede soltanto una parte, l’altra rimane nascosta, rimane nell’ombra della sua ambiguità e contraddizione…).

     Inoltre, il rifiuto di Giuda, nell’esercitare il dono della sua libera scelta, è reso evidente dalle orecchie nascoste dalle ciocche dei capelli: egli è l’uomo chiuso all’ascolto, i suoi occhi sono chiusi, cioè “ciechi”, poiché guardano solo a se stesso. Qui si sente l’eco di quanto narra Giovanni 12,37-40: «Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui, perché si adempisse la parola detta dal profeta Isaia: “Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E la forza del Signore, a chi è stata rivelata?”. Per questo non potevano credere, poiché ancora Isaia disse: “Ha reso ciechi i loro occhi e duro il loro cuore, perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore e non si convertano, e io li guarisca!”».

     E così Il tradimento di Giuda, che sembra il fallimento dell’opera di Gesù, rappresenta invece il compimento delle S. Scritture.

      Rileggendo il Salmo 41 alla luce del Volto di Gesù, esso rivela che Egli è turbato profondamente, e il traditore (in questo caso Giuda) è chiamato “l’amico in cui confidavo”, cioè amico nel quale si pone piena fiducia. In Giuda Iscariota, che rappresenta ogni persona umana, inclusi i Giudei e i discepoli: non a caso il suo nome richiama i Giudei, e il nome di suo padre Simone, richiama quello di Pietro...

      E allora, veramente ognuno può dire “sono forse io?” (cf. Giovanni 13,21-22; Marco 14,18-19).

     La figura di Giuda ci impressiona, perché rappresenta quell’ombra profonda presente in noi e che non vogliamo ammettere, ma, in realtà, è la nostra condizione umana, da Adamo in poi: «Poiché tutti siamo peccatori, privi della gloria di Dio, giustificati gratuitamente per grazia» (Romani 3,23).

    L’amore di Dio, rivelatosi nel Volto del Figlio, come debolezza di Dio (cf. 1Coronzi 1,18-25), è l’unica forza capace di liberare la libertà dell’uomo e riscattarlo dalla morte.

     Giuda è collocato nell’icona nella stessa linea del discepolo amato, rimanendo così sotto lo sguardo di Gesù, che desidera ardentemente farlo riposare sul suo petto. Gesù stesso gli dà il pane: gli dona se stesso.

   Ma è notte (cf. Giovanni 13,30): è la notte in cui è entrata la luce del mondo, è l’ora della glorificazione del Figlio. L’ora in cui si squarcia il cielo, in cui all’’uomo, liberato dalle tenebre del peccato, è reso possibile il cammino di uscita da se stesso verso il petto squarciato: “cielo” di ogni uomo, in cui poter finalmente riposare nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo.

   Ma in quella notte anche Gesù esce (cf. Giovanni 13,31), per farsi avvolgere dalla notte, per consegnarsi, perché il Regno di Dio, segretamente manifestato durante l’ultima cena, entri in questo mondo: perché è così che Gesù distrugge il potere del peccato e della morte per riportare la sua creatura amata a sé. In Giuda è rappresentato l’apice del mistero del male, tragedia dell’uomo e di Dio che lo ama. Rifiutare l’amore del Figlio e del Padre significa perdere la propria essenza di figli e di fratelli.

   Il tradimento di Giuda fa pensare all’impotenza di Dio per amore, dinnanzi alla libertà donata all’uomo. Ma la luce vince le tenebre e da esse non si lascia oscurare (cf. Giovanni 1,5).


3. Unico evento: lavanda dei piedi e Ultima Cena

     Spesso le due scene sono rappresentate in modo consequenziale, così come nella tradizione liturgica si intrecciano i momenti in cui si contempla e si celebra la misericordia del Signore verso le sue creature (il santo lavacro, la mistica cena, la preghiera di Gesù, il tradimento…).

    Il gesto profetico della lavanda dei piedi ha un valore sacramentale eucaristico; gesto profetico che annuncia la vita donata, l’amore.

    Nelle famiglie ebree, il servizio della lavanda ai piedi, era prestato non soltanto dagli schiavi non israeliti, ma anche dalle mogli, dalle figlie e dai discepoli, come segno di amore profondo.

   Gesù in quel gesto, oltre a essere un rituale per gli ospiti, indica la purificazione del cuore dall’incredulità e dal peccato: infatti, il verbo “lavare” e il sostantivo “lavacro” sono riferiti alla purificazione del battesimo (cf. Efesini 5,26; Tito 3,5; Ebrei 10,22).

    Gesù, il Servo sofferente (cf. Isaia 52,13-53,12), nella lavanda dei piedi ci offre un’icona visibile della sua identità divina. Il suo servizio non è solo una funzione umile per lui e utile per noi, ma rivela la sua natura di Figlio di Dio, il suo gesto rivela l’essenza di Dio.

    Nell’icona la tavola, resa dal colore giallo oro, che richiama la luce – in contrapposizione alla luce vesperale, suggerita dalle tonalità dei palazzi –, è bordata dal drappo bianco, che rievoca la lavanda dei piedi. Tale drappo coinvolge tutti gli apostoli e, scorrendo verso il fondo dell’icona, lascia uno spazio nella tavola: uno squarcio che si apre a colui/colei che contempla l’icona e lo invita lasciarsi coinvolgere.


    Nei testi liturgici bizantini è scritto: «la santa lavanda non è intesa a lavare le macchie del corpo, ma a santificare misticamente l’anima» (Ufficio del Mattino).

   Inoltre, sia nella liturgia, sia nei Padri, si pone in parallelo la lavanda con il battesimo, considerandola come “illuminazione degli apostoli, prima della Cena”, poiché illumina gli apostoli con luce e gloria battesimale. Anticamente, infatti, i battezzati venivano chiamati gli “illuminati” e la veste bianca che indossavano veniva chiamata “veste di luce”, perché riflesso della luce del Cristo Risorto. Nel battesimo muore l’“uomo vecchio” e risorge l’“uomo nuovo”: questa è condizione essenziale per partecipare all’eucaristia.

  Pertanto Gesù lava i piedi ai discepoli “per aver parte con lui” (di fronte al rifiuto di Pietro, Gesù risponde: «Se non ti laverò, non avrai parte con me»: Giovanni 13,8).

   Scrive Romano il Melode: «Pietro trattenne l’Unigenito, quando questi si presentava per la lavanda dei piedi e disse: “Signore, Signore, non mi laverai i piedi!”. Il catino era a terra già riempito, il Salvatore stava in piedi, portava attorno ai reni un telo, come uno schiavo. Le schiere degli angeli guardavano dall’alto del cielo e gettavano grida di stupore, invece Giuda non fu commosso, si rivoltò contro di lui […]. Gabriele diceva: “Guardate la grande benevolenza del creatore e il contegno del plasmatore nei confronti delle proprie creature: essi siedono a tavola ed Egli sta in piedi, essi si lasciano nutrire ed Egli li serve, si lasciano asciugare, e i piedi fatti di polvere non restano dissolti tra le mani di fuoco!”»

   Tutto questo avviene nei discepoli. Invece Giuda non ascolta, non vede, non accoglie, non è aperto ai misteri che si realizzano sotto i suoi occhi, egli è entrato nell’abisso senza luce. Il suo gesto è di monito per ognuno perché si vegli e ci si lasciarsi guidare dalla Luce. Così canta la Liturgia orientale in un inno prima della comunione: «Del tuo mistico convito, o Figlio di Dio, rendimi oggi partecipe, giacché […] non ti darò lo stesso bacio di Giuda, ma, come il ladrone, io ti invoco: ricordati di me nel tuo Regno!».

   La Santa Cena Eucaristica è per l’uomo il culmine della partecipazione alla vita di Gesù e di unione con Dio: «per mezzo di essa l’uomo è iniziato al mistero della vita divina» (Cosma il monaco).

    Il banchetto eucaristico rappresenta la suprema energia vivificante sia della comunità apostolica della Chiesa, Corpo di Cristo, sia del creato di cui l’uomo è capo e sacerdote, sia di tutti gli elementi cosmici. Esso è un banchetto nuziale, al quale il credente è invitato, a condizione che si presenti in veste adeguata (la veste battesimale e nuziale): «Vedo il tuo talamo già adorno, o mio Salvatore, e non ho la veste per presentarmi: fai splendere Tu la veste dell’anima mia, a cui tu doni la luce, e salvami!» (Liturgia orientale).

    Giuda, invitato al banchetto, non ha veste per presentarsi, e rifiuta di indossarla. Nella parabola del banchetto nuziale di Matteo (22,1-14), colui che non ha l’abito nuziale viene legato e gettato fuori nelle tenebre. Qui, invece, terminata la Cena, è Gesù che si lascia incatenare, che si lascia crocifiggere, perché la veste del cuore di ciascuno sia resa luminosa. Egli si immerge nelle tenebre, per tirarci fuori alla sua Luce.

      L’eucarestia, dunque, è primizia della nostra risurrezione e pegno della nostra gloria futura.

4. Il fuoco e l’amore 
     Le fiamme di fuoco dentro un braciere, presenti sulle mura, al centro della scena dell’icona, indicano sia il fuoco divino dell’amore («sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!»: Luca 12,49), sia la condizione notturna: «era notte» (Giovanni 13,30)



   Dalle prime parole di Gesù all’inizio della Cena («ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi»: Luca 22,14), fino all’uscita nell’orto dei Getsemani, tutto ciò che è accaduto durante la Cena Pasquale: la lavanda dei piedi, la distribuzione del pane e del vino ai discepoli – simbolo della sua vita spezzata e consegnata –, non è semplicemente frutto dell’amore, ma l’Amore stesso.

     La mistica Cena Pasquale è il telòs, il fine, il compimento dell’Amore, è l’attuazione e lo svelamento dell’amore di Dio, nel Figlio: «li amò fino alla fine» (Giovanni 13,1). È la manifestazione della volontà di amore, scaturita dal “Divino Consiglio” della Trinità, per il quale il mondo è stato creato, e per amore non è stato abbandonato alla sua caduta mortale. Per amore il Figlio si è incarnato, e in quel momento, a quella tavola, Egli ha manifestato e accordato questo amore come suo Regno, e il suo Regno come un “dimorare nell’amore”: «Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Giovanni 15,9).

    Durante l’Ultima Cena Gesù ha istituito la Chiesa, lasciando ai suoi discepoli e a tutti coloro che credono alla loro parola questo comandamento: «che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Giovanni 15,12). Nel comandamento quello che ci viene consegnato è Cristo stesso, l’amore stesso di Dio, affinché per suo tramite noi ci amiamo gli uni gli altri: «Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri» (Giovanni 15,17).


5. La notte luminosa
    Nella liturgia della Settimana Santa, la Mistica Cena viene costantemente ricollegata con la notte, che la circonda da ogni parte e nella quale la luce (il fuoco) della festa dell’amore s’irradia quando, nella camera alta (cf. Luca 22,12), Cristo celebra con i discepoli.

   È la notte del peccato, l’essenza di questo mondo: «Si sollevarono i re della terra e i principi si allearono insieme contro il Signore e contro il suo Cristo» (Atti degli Apostoli 4,26; cf. Salmo 2,1-2). Gesù sa, che la mano di chi lo consegna è con lui sulla tavola: Giuda preso il boccone, esce in quella notte terribile, seguito subito da Cristo.

    Nella liturgia orientale del Giovedì Santo si intrecciano gioia e afflizione, si fa memoria della luce e delle tenebre che l’hanno oscurata, ma non soffocata. L’uscita di Giuda, ovvero il suo rifiuto all’Amore, alla Veste nuziale, al ri-vestirsi di Cristo (cf. Galati 3,27), il suo rifiuto di lasciarsi spogliare dell’uomo vecchio, per rivestirsi di sentimenti di bontà (cf. Efesini 4,20-24; Colossesi 3,9-12), è sovrapponibile al rifiuto di Adamo nell’Eden. Come Adamo, così Giuda abbandona Dio e sceglie se stesso, il proprio ego.

  In quel momento, con l’uscita di Giuda nella notte, la storia del peccato, dell’amore accecato, pervertito, caduto e divenuto rapina – poiché accaparra per sé la vita che è stata donata per essere in comunione con Dio –, quella storia giunge al termine.

    In Giuda è rappresentato l’apice del mistero del male, tragedia dell’uomo e di Dio che lo ama, fattosi impotente per amore. Rifiutare l’amore del Figlio e del Padre significa perdere la propria essenza di figli e di fratelli.

  Come Adamo, Giuda stende la mano per rapire ciò che era stato donato. Il senso profondo dell’inquietante uscita, consiste precisamente nel fatto che Giuda esce in realtà dal paradiso. I suoi piedi erano stati lavati da Cristo, nelle sue mani aveva ricevuto il pane dell’amore di Cristo, cioè Cristo stesso! Il Signore si era donato a lui in quel pane (nell’icona questo è evidenziato dalla mano di Gesù col pane). Giuda aveva visto, sentito, toccato con le sue mani il Regno di Dio, ma, come Adamo, non volle saperne di quel Regno. Dopo l’Ultima Cena, Giuda non ha più dove andare se non incontro alle tenebre del Nulla. Ma la luce vince le tenebre lasciandosi prendere da essa. Giuda e Gesù vanno incontro alla stessa notte.

    E infatti, in quella notte anche Gesù esce, per farsi avvolgere dalla notte, per consegnarsi, perché il Regno di Dio, manifestato durante l’Ultima Cena, entri in questo mondo: perché è così che Gesù distrugge il potere del peccato e la morte, al fine di riportare a sè la sua creatura amata.

   Egli è il Buon Pastore che depone la vita (cf. Giovanni 10,11.15), è lo Sposo che lava con il suo sangue, purificando dal peccato (cf. Efesini 5,25-27; Apocalisse 19,7-8), sangue e acqua che sgorgano dal suo fianco squarciato sulla Croce.

    Egli è il Servo sofferente che ci guarisce con le sue piaghe (cf. 1Pietro 2,24; Is 53,5-6)).

   È il Fratello che non si vergogna di chiamarci fratelli (cf. Ebrei 2,12-13), dove ritroviamo la nostra vocazione di figli e fratelli.


Silenzio di adorazione per alcuni minuti

Solista: Come popolo di Dio, chiamato a crescere nella comunione con Dio e nella fraternità con tutti gli uomini, diciamo insieme:

Tutti: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome.
venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà
come in cielo, così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
e rimetti a noi i nostri debiti,
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male. Amen.

- Concludere con la Preghiera:
Tutti: Dio nostro Padre, la Cena Pasquale del tuo Figlio Gesù ci trasformi nel suo Corpo vivente, affinché impariamo a fare della nostra vita un dono per gli altri. Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore. AMEN.

Solista: Benediciamo il Signore.

Tutti: Rendiamo grazie a Dio.



IV. Proposta di preghiera per il pranzo

Tutti: Dio Padre nostro,
Gesù tuo Figlio è vissuto tra noi,
come colui che serve,
lui, Signore e Maestro.
Rendici attivi nel servizio del fratelli,
per camminare con lui verso la risurrezione,
in Cristo Gesù nostro Signore. Amen.
  (da Preghiere per una tavola fraterna)