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sabato 7 aprile 2018

Consolare - L'arte del cuore di José Tolentino Mendonça

Consolare 
L'arte del cuore 

di José Tolentino Mendonça

È il modo di vivere l' altrui solitudine capace di rompere con la narcisistica cultura dell' indifferenza, divenuta paradigma delle relazioni umane, che conosce solo due logiche: utilità e distrazione



Il regime tecnologico oggi in vigore ci confonde ancora di più, nel trasmetterci l' illusione che niente può fallire. La memoria di un qualsiasi computer ci mette in imbarazzo, a confronto con la sequenza delle nostre dimenticanze, lacune, inesattezze. Là dove riconosciamo in noi vuoti e perdite di efficacia, constatiamo nella tecnica attuale esattamente il contrario: una capacità inumana di accumulo di dati, di registri e di tracce che, parecchi anni dopo, persistono intatti su una spiaggia che l' oceano non cancella.
Ma i computer non hanno bisogno di essere consolati, noi sì: e in questo vinciamo noi. Quel che è tipico della consolazione è farci prossimi degli altri - e di noi stessi -, niente di più, senza pretese, offrendo semplicemente, con la nostra sola presenza, un riparo alla traversata di ore abissali, aiutando a sopportare il peso che ciclicamente fa franare la vita. Accompagnare la solitudine altrui e nostra: cum-solatio significa anche questo, per quanto il consolatore come il consolato sappiano che nessuna consolazione restaura la perdita e il lutto di certi passaggi o risolve la lacerazione delle ferite che maggiormente ci squarciano. Ci rendiamo così conto, cammin facendo, che ciò di cui siamo capaci, e che dobbiamo mantenere come programma esistenziale, non è tanto di andar contro le contingenze che inevitabilmente ci assediano, quanto di convivere con esse, accettando il compito di costruire un' umile sapienza compositrice dei contrasti. Questa cosa che noi chiamiamo vita richiede a noi la forza di non cedere al crepuscolo solo perché non vediamo subito, o non vediamo in che modo, da tanta oscurità possano irrompere gli improbabili indizi dell' aurora. Dovremo reimparare l' arte di consolare, rompendo con questa narcisistica cultura dell' indifferenza che tende a universalizzarsi come paradigma delle relazioni umane, e che conosce unicamente due logiche cieche: la distrazione, e il compenso, quest' ultimo immancabilmente tariffato in un modo o nell' altro. Dovremo forse stabilire un nuovo rapporto con la parola e il silenzio, con ciò che ci è familiare e sconosciuto, con l' esteriorità e con il nostro mondo interno, credendo di più nella forza riparatrice delle cose semplici, dei gesti quotidiani, dei minuscoli traffici che meglio rispecchiano la nostra umanità e che probabilmente non siamo ancora arrivati a considerare come una riserva di senso. È un errore pensare che, sprofondati in una prova, noi cessiamo di contare per gli altri e che c' è una disarticolazione ontologica che ci isola da loro, un' implosione dei legami. Non ci accorgiamo che la medesima sofferenza che ci ferisce ci rende anche maestri in rapporto alla vita, e che ci permette di dire con ben altra appropriatezza cos' è che ci dà e che ci sottrae vita, che cosa la nutre, che cosa la spegne. 
La condivisione della prova può essere incredibilmente feconda. Un esercizio che dobbiamo ripetere spesso è ricordare (di nuovo condurre al cuore, letteralmente) i luoghi in cui abbiamo sperimentato consolazione.
Luoghi che, non di rado in maniera inattesa, custodiscono un insegnamento prezioso. Se dovessi personalmente parlare di un luogo di consolazione della mia vita recente, dovrei nominare il campo di concentramento di Westerbork, in Olanda, dove mi sono recato in pellegrinaggio l' estate scorsa. È in quell' epicentro del dolore che, accanto a migliaia di altri martiri del XX secolo, fu prigioniera Etty Hillesum.
Ricordo di aver passato un paio d' ore, disteso sull' erba, ad ascoltare il vento. Soltanto questo. Ma ho avvertito una comunione profonda col grido e il perdono che si possono leggere sia negli scritti di Etty sia nel destino silenzioso di tante vite. E, senza riuscire a trattenerle, le lacrime mi hanno lavato il viso più volte. Le volte necessarie a lasciarlo infine ripulito.

(Pubblicato su "Avvenire" il 5 aprile 2018 - Traduzione di Pier Maria Mazzola)