«L’ultima omelia, don Tonino la dedicò all’ironia di Dio»
di Mimmo Muolo
Ce l’ha ancora davanti agli occhi la scena. E nelle orecchie quelle parole.
Le parole dell’ultima omelia di don Tonino Bello.
Pronunciate una settimana prima di morire, durante una Messa concelebrata con Luigi Bettazzi, allora vescovo di Ivrea.
Carlo Di Cicco, già vicedirettore dell’Osservatore Romano, era lì, tra i pochi amici che parteciparono alla celebrazione eucaristica nella stanza da letto dell’episcopio di Molfetta.
«Ero seduto proprio accanto al letto – racconta –. Don Tonino, già molto stanco, si era sollevato su un gomito e vi appoggiava la testa. E il primo ad essere sorpreso fu proprio lui, quando Bettazzi, dopo aver letto il Vangelo, gli chiese di tenere l’omelia».
Tra i due vescovi che si erano succeduti alla guida di Pax Christi c’era, infatti, una grande familiarità.
«Tra loro scherzavano sempre – ricorda il giornalista che per dieci anni curò il bollettino dell’organismo ecclesiale – e anche quel giorno tutto partì da uno scambio di battute. “La cosa migliore che possiamo fare adesso è ascoltare la parola di don Tonino – disse Bettazzi –, così siamo tutti contenti, anche perché lui non sarà lungo come potrei essere io”.
Don Tonino sorrise e rispose: “Infatti sarò brevissimo, perché non sono così saggio come monsignor Bettazzi. Anzi vorrei dire qualcosa di allegro, anche per non sfigurare davanti a lui che ci racconta le barzellette”».
Viene da pensare a quanto scrive papa Francesco nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate circa l’allegria dei santi.
E Di Cicco conferma. «Anche nella sofferenza don Tonino non perse mai la sua serenità, il suo sorriso. Quell’omelia la dedicò all’ironia di Dio. “Io penso – disse – che Dio si diverta molto a vederci, quando ad esempio prendiamo molto sul serio anche le cose banali della vita. Io invece ho capito che Dio ci vuole sereni e allegri e che non dobbiamo prenderci troppo sul serio. Io sono vescovo, tu puoi essere professore, l’altro un medico ma quando arriveremo dall’altra parte e capiremo che cosa ha significato che Dio ci ha amati, allora capiremo anche la pochezza di ciò che facciamo in questo mondo. E ci meraviglieremo perché Dio ci ha amati in maniera così grande e non potremo non chiederci: ma se non abbiamo fatto niente, come mai ci ha amato così tanto? Sicuramente ci scapperà da ridere e diremo: meno male che Dio è così buono e che nonostante tutte le stupidaggini che abbiamo fatto ci prende con sé in Paradiso. Quale migliore speranza di questa? Allora – concluse – anche nelle difficoltà cerchiamo sempre di tenere presente questo punto di arrivo, questa prospettiva rovesciata. E io sono certo che quando saremo tutti lì, ci faremo una risata generale perché finalmente avremo capito”».
Di Cicco si ferma. La voce si incrina per una frazione di secondo. Chi lo conosce sa che non è tipo dalla lacrima facile. «E invece per don Tonino ho pianto», confida.
«Alla fine della Messa gli feci qualche domanda, ma lui mi rispose solo: “Quello che ho detto mi è venuto dal cuore”.
Si rimise giù e seguì il resto della celebrazione a letto. Si rialzò solo al momento della consacrazione e poi quando fu il momento della comunione. E io ebbi l’impressione che in quel suo comunicarsi egli davvero incontrasse una Persona, la persona vera di Gesù, che stava arrivando».
Nei giorni successivi ci furono altre Messe, ma quella fu l’ultima omelia.
«Bettazzi – ricorda il giornalista – gli fece un’assistenza fraterna. E quando non era fisicamente insieme con lui, non lo trovavi da nessuna parte, perché si ritirava in cappella e pregava. Pregava incessantemente. Era in cappella anche quando don Tonino spirò. Lo chiamarono immediatamente e arrivò qualche secondo dopo. Entrò nella stanza, visibilmente commosso, ma gli venne spontaneo intonare il Magnificat».
Di Cicco precisa: «È stato scritto che don Tonino è morto recitando il Magnificat. In realtà fu Bettazzi a farlo, pochi istanti dopo la sua morte. Quella preghiera rappresentava una sintesi della vita di don Tonino. Non un supereroe, ma un uomo profondamente buono, innamorato di Cristo e della Chiesa e felice di essere figlio di Dio e di abbandonarsi al suo abbraccio paterno».
(fonte testo: “Avvenire” 19 aprile 2018)