“Far conoscere ai giovani il valore di impegno,
responsabilità e solidarietà”
“La Resistenza fa parte della nostra storia. Nata spontaneamente nelle città, nelle periferie, nelle campagne e sulle montagne, coglieva il bisogno di pace, di giustizia e di libertà. Ha ridato dignità alla Nazione”. Lo ha ricordato questa mattina il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, incontrando al Quirinale gli esponenti delle Associazioni combattentistiche e d’arma alla vigilia del 25 aprile, giorno nel quale si ricorderà il 73° anniversario della Liberazione. Rammentando il contributo di civili e militari nella Resistenza, Mattarella ha sottolineato che “tutti questi eventi, comportamenti, passioni, generose dedizioni vanno ricordati costantemente, con convinzione, anche perché, in tanti Paesi, le società di oggi, pur passate attraverso i drammi umani, le sofferenze e le macerie del ventesimo secolo, sembrano, talvolta, aver attenuato gli anticorpi all’egoismo, all’indifferenza e alla violenza, avvertiti intensamente dalle generazioni che hanno vissuto il secolo delle due guerre mondiali e le crudeltà delle dittature”. “Affiorano ogni tanto segnali che manifestano rigurgiti di autoritarismi, di negazionismi, di indifferenza rispetto ai fondamentali diritti della persona umana, di antisemitismo, di malintesi egoismi nazionali”, ha ammonito il Capo dello Stato, secondo cui “chi ha lottato, chi ha sacrificato la propria vita, per la libertà, per la giustizia e per la democrazia, costituisce un esempio per tutti e ci ha consegnato un patrimonio di valori che va custodito e trasmesso”. Evidenziando l’azione svolta dalle Associazioni combattentistiche e d’arma come “servizio alla democrazia e alla memoria del nostro popolo”, Mattarella ha rilevato come sia “di grande importanza far conoscere ai giovani, con le testimonianze e la coerenza delle vostre scelte passate, il valore dell’impegno, della responsabilità e della solidarietà”. “Sulla base della constatazione dell’abisso di sofferenza e di disumanità che hanno subito nostri concittadini in quei tragici anni – ha concluso Mattarella – possiamo guardare con grande ammirazione e riconoscenza all’eroismo, al coraggio, alla tenacia e all’operosità di quell’Italia che ha saputo ricostruire e offrire alle nuove generazioni una patria libera e pacificata”
(Fonte: Sir - 24.04.2018)Leggi tutto:
Il discorso integrale
25 aprile: riscrivere la storia?
di Giacomo Costa SJ
Non si richiedono doti particolari di chiaroveggenza per prevedere che il prossimo 25 aprile sarà accompagnato da polemiche sul senso della celebrazione e sulla partecipazione a cortei e manifestazioni. È stato così negli ultimi anni e molti segnali lasciano intravedere che la questione si riproporrà ancora, se mai con maggiore evidenza. Non sono stati pochi negli ultimi mesi gli episodi che indicano la persistenza del richiamo al fascismo, anzi il suo crescere, accompagnati da reazioni anche violente e annesse polemiche: dal raid dei naziskin in un centro di accoglienza per migranti a Como (novembre 2017), al blitz di Forza nuova sotto la sede de la Repubblica(dicembre 2017) e negli studi dell’emittente televisiva La7 (febbraio 2018), dalla sparatoria sui migranti a Macerata al pestaggio di un leader di Forza nuova a Palermo, sempre nel mese di febbraio.
Sempre più frequenti sono anche le dichiarazioni di esponenti politici che relativizzano il giudizio negativo sul ventennio fascista, ricordandone alcuni risultati positivi, come la bonifica delle paludi pontine o l’introduzione di un sistema previdenziale. Altri segnalano come il fascismo sia da considerare ormai morto e sepolto e non possa più costituire un pericolo, mentre lo è la retorica violentemente antagonista di alcune componenti sociali e il conseguente ritorno a un uso demonizzante dell’etichetta “fascista” a scopo propagandistico, senza alcun riferimento concreto all’esperienza storica del ventennio.Questi episodi si inseriscono in una deriva che ha reso comune, e per alcuni accettabile, il ricorso all’insulto sistematico dell’avversario all’interno della contesa politica.
Di fronte a questo scenario, non mancano moniti decisi e anche gesti di grande pregnanza, come la scelta del presidente della Repubblica Sergio Mattarella di nominare senatrice a vita Liliana Segre, reduce dell’Olocausto, o le ferme parole da lui pronunciate in occasione della Giornata della memoria dello scorso gennaio: «Sorprende sentir dire, ancora oggi, da qualche parte, che il fascismo ebbe alcuni meriti ma fece due gravi errori: le leggi razziali e l’entrata in guerra. Si tratta di un’affermazione gravemente sbagliata e inaccettabile, da respingere con fermezza». Resta tuttavia l’impressione che il richiamo ai valori della Resistenza e della Costituzione, alla base dei primi cinquant’anni di storia repubblicana, abbia perso una reale capacità di incidere, per risultare sostanzialmente protocollare, in particolare nei confronti delle generazioni più giovani, che faticano a riconoscersi e a sentirsi coinvolte in una storia che non hanno vissuto e che conoscono poco. Altri temi dell’agenda politica paiono dotati di un potere di mobilitazione ben maggiore.
Non si tratta peraltro di un fenomeno unicamente italiano. Il revisionismo storico e il suo contrasto anche attraverso apposite leggi fa parte dell’agenda politica di numerosi Paesi europei da molti anni. Recentemente, a inizio febbraio, la Polonia ha introdotto una legge sull’Olocausto, poi congelata, che stabiliva pene per chiunque legasse al Paese i campi di sterminio o affermasse un coinvolgimento e una responsabilità della popolazione polacca nei crimini nazisti. Oltre Atlantico è lo stesso presidente Trump ad aver ormai sdoganato con i suoi tweet e i suoi discorsi un linguaggio aggressivo, con un frequente ricorso all’insulto, rilanciando posizioni e personaggi di estrema destra.
In questo contesto appare giustificata la preoccupazione che si finisca per dare una patente di legittimità, soprattutto in ambito politico, a comportamenti di violenza anche fisica, di prevaricazione, di insulto, di intolleranza e discriminazione verso chi è portatore di una diversità di qualsiasi tipo (di religione, lingua, cultura, etnia, genere, ecc.), oltre a una cultura politica che con molte ambiguità lega valori tradizionali come patria e famiglia – e spesso anche Dio e religione – ad atteggiamenti autoritari e a un’attenzione paternalista verso i bisogni non di tutti, ma solo di quelli tra i poveri che possono essere riconosciuti come “nostri”.
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Ripensare la verità storica
Nella tradizione classica, il termine verità (aletheia in greco, da a-lethès, “non nascosto”) rimanda allo svelamento di ciò che è nascosto e alla luce che squarcia l’oscurità, prestandosi a una interpretazione intellettualistica e concettuale del termine. Nella tradizione biblica, come mette in evidenza papa Francesco nel Messaggio per la 52a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (24 gennaio 2018), dedicato non a caso al tema delle fake news, il termine va riferito alla vita nel suo complesso e la radice rimanda al campo semantico della solidità e del sostegno. La verità non è semplicemente ciò che è scoperto, ma ciò su cui ci si può appoggiare per non cadere, è il terreno su cui si può camminare insieme senza sprofondare. In questo senso, essa si sperimenta non come dato di fatto oggettivo, ma come relazione di fiducia, fedeltà e affidabilità. È in questa relazione di fiducia data e ricevuta che la memoria si pone come atto di verità, liberandosi dalle proprie patologie e dal dubbio a cui la sua stessa fragilità la consegna. La verità, anche quella storica, non si impone dall’esterno come qualcosa di estrinseco e di impersonale, ma sgorga dall’ascolto, dall’incontro e dalla relazione libera tra le persone. È continua ricerca, nella consapevolezza che è un cammino sempre da compiere e un impegno a proporre soluzioni perché si possa avanzare nella sua comprensione. Per questo la verità non può che essere inclusiva e partecipativa.
Diventa possibile allora valutare la verità di un atto di memoria anche sulla base dei suoi frutti. Vero è ciò che, pur fragile, unisce, sostiene, collega, coinvolge, promuove la solidarietà e il bene comune; non lo è ciò che divide, isola, frantuma, crea divisione, opposizione e conflitti non costruttivi. Un’argomentazione può essere incontrovertibile, ma se il suo scopo è screditare, se non ferire o distruggere l’altro, non è animata da un reale intento di verità.
Ci sembra un criterio interessante a cui fare riferimento anche per affrontare le dispute sul revisionismo e sul negazionismo, senza rimanere bloccati in un confronto fra interpretazioni che, come abbiamo visto, è potenzialmente senza fine. La valutazione delle fonti su cui si basa un’affermazione va integrata con quella dell’intenzione di chi la propone. In questa accezione, risulterà “vero” ciò che permette il riconoscimento di tutti i soggetti coinvolti in una vicenda, aprendo una possibilità di futuro e di evoluzione a partire dalla ricostituzione di un legame; al contrario, dovrà essere rigettato ciò che ostacola la fiducia e il riconoscimento, spingendo la memoria verso le sue patologie e la società verso la paralisi. Come altre ricorrenze, il prossimo 25 aprile potrà rappresentare una occasione per mettere alla prova questo criterio di verità, all’interno del particolare momento politico che stiamo vivendo, in cui è effettivamente in gioco il fondamento dell’identità del Paese e la direzione verso cui indirizzarne lo sviluppo.
Sulla base di una verità che non si impone, ma si propone come spazio di vita, abitato e abitabile, dalle molte facce ma mai ridotto in frantumi o a brandelli, diventa possibile ricorrere al passato per fondare una identità collettiva, senza che sia divisivo o escludente. Questa verità permette infatti di assumere la complessità e la contraddizione senza rimanerne schiacciati, di accettare il conflitto tra polarità e punti di vista senza rendere totalizzante una prospettiva e senza continuare a mancare di rispetto alle vittime. Sarà interessante anche provare a ingaggiare i negazionisti e i revisionisti su questo piano, smascherando le loro intenzioni: le loro argomentazioni non reggeranno se sono animate non da una intenzione di verità in senso relazionale, ma dal desiderio di dividere, distruggere e negare lo spazio alla possibilità del diverso.
Inserite in questa prospettiva, le diatribe che accompagneranno il prossimo 25 aprile potrebbero rivelarsi anche una preziosa opportunità. Per dischiudere a quel passato la sua capacità di generare futuro – ci sembra legittimo tradurre così il termine “liberazione” –, l’evento che fonda una identità collettiva non può essere oggetto di una rievocazione protocollare, ma deve aprirsi in modo che la sua verità possa rappresentare la base di nuove relazioni. Il suo valore dovrà essere reso riconoscibile anche a chi non l’ha vissuto in prima persona – ormai la grande maggioranza della popolazione –, in modo da risultare accogliente e inclusivo per tutti, anche per chi è arrivato da poco nel nostro Paese, portandosi dietro un passato diverso, ma che può risuonare con il nostro. Scoprire ciò che lega oggi le nostre memorie, articolandone le differenze, è la sfida che le ricorrenze storiche ci ripropongono ogni anno. L’alternativa è utilizzare il passato per assolutizzare i conflitti del presente, rendendo impossibile il loro superamento e chiudendo la porta al futuro.
(Fonte: "Aggiornamenti sociali" - Aprile 2018)
L'intervista: "Io, giovane staffetta partigiana nei giorni della liberazione"
Tina Costa, oggi 92enne, partecipò alla Resistenza giovanissima
nelle colline dell’entroterra riminese,
dove attraversava la linea Gotica per portare borse ai partigiani.
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