di Giuseppe Savagnone
Perché i genitori picchiano, sempre più spesso, i docenti dei loro figli? La domanda, se posta anche solo pochi anni fa, avrebbe lasciato allibiti. Oggi sorge spontanea, leggendo le cronache dei giornali. Ormai non passa quasi settimana senza che un insegnante venga aggredito, da un padre, da un marito e una moglie insieme, o direttamente dagli alunni, evidentemente sicuri dell’appoggio delle famiglie. Soltanto in questi pochi mesi del 2018 si contano ben ventiquattro episodi di violenza su maestri e professori. Fare il docente è diventato un mestiere pericoloso che presto richiederà, se le cose continuano ad andare così, corsi di addestramento all’autodifesa.
Che cosa è successo? La risposta non può non tener conto del crescente isolamento della figura dell’insegnante, in una società che non gli ha mai riconosciuto dignità sul piano retributivo, ma che ora, a differenza che in passato, non gliene attribuisce più neppure su quello del prestigio sociale e culturale.
Fino a cinquant’anni fa il lavoro di educatore era pagato poco, ma era rispettato. Oggi non è più così. C’è stato il Sessantotto, con la contestazione dei “maestri”, che ha travolto, insieme ad indubbie forme di autoritarismo, anche la loro autorità. Probabilmente ha inciso anche la crisi del concetto di “missione”, percepito a un certo punto come un alibi retorico per giustificare i bassi stipendi dei professori, con la conseguente crisi di motivazione di tanti la cui passione educativa si fondava su una visione idealizzata della scuola.
Soprattutto, è cambiata la percezione comune del rapporto tra denaro e valore sociale: in passato il primo non era la misura del secondo; nell’Italia del nostro tempo lo è diventato. Chi guadagna poco è, in fondo, un fallito. È con questo atteggiamento di sottile disprezzo che molti si rapportano alla classe docente, e non c’è da meravigliarsi se, consciamente o inconsciamente, lo trasmettono ai loro figli.
Ma gli episodi di violenza non ci parlano solo del declino della scuola: essi sono lo specchio allarmante di una famiglia sempre più caratterizzata dall’incapacità, da parte di genitori insicuri e iperprotettivi, di far valere la loro funzione educativa, perché troppo timorosi dei conflitti che un esercizio reale della loro autorità genitoriale potrebbe determinare.
Alla base c’è una grande fragilità degli adulti. Ormai, osserva acutamente Massimo Recalcati, «non sono più i figli che domandano di essere riconosciuti dai loro genitori, ma sono i genitori che domandano di essere riconosciuti dai loro figli». E poiché «per risultare amabili è necessario dire sempre “Sì!”, eliminare il disagio del conflitto, delegare le proprie responsabilità educative, avallare il carattere pseudodemocratico del dialogo», si verifica quell’«occultamento delle differenze generazionali e delle responsabilità che queste differenze implicano», per cui ci si mimetizza, camuffandosi da coetanei dei più giovani. Come quei padri che si vantano di essere “amici” dei propri figli”, senza rendersi conto che in questo modo li rendono orfani, perché di amici ne hanno tanti, ma di padre uno solo.
In realtà, oggi più che mai, sottolinea Recalcati. «i figli hanno bisogno di genitori in grado di sopportare il conflitto e, dunque, in grado di rappresentare ancora la differenza generazionale». Degli adulti degni di questo nome non si ridurrebbero ad essere dei complici dei propri ragazzi discoli e maleducati – , sia perché avrebbero saputo educarli già tra le mura domestiche, sia perché sarebbero alleati degli insegnanti nel proseguire, nell’ambito della scuola, quest’opera educativa, avallando e rafforzando le eventuali sanzioni di fronte a comportamenti incivili.
Siamo dunque davanti non solo al declino della scuola e della famiglia, ma al naufragio del loro antico patto educativo – quello, in termini semplici, per cui un padre, se il figlio portava a casa una pessima pagella o una nota disciplinare, invece di correre a protestare con il preside o l’insegnante, puniva il ragazzo.
Eppure, proprio gli attuali scenari culturali, suggeriscono che solo una loro alleanza può salvare dalla crescente irrilevanza sia la famiglia che la scuola. Viviamo in un contesto in cui ormai, col diffondersi delle nuove tecnologie, le comunità educanti rischiano di essere sovrastate e relativizzate da un sistema di comunicazione totale e pervasivo, di fronte a cui scuola e famiglia – anche a prescindere dalle fragilità sopra rilevate – sono sempre più impotenti.
I veri educatori dei nostri giovani, più che i genitori e gli insegnanti, oggi sono il web, i social, la platea anonima e senza volto di coloro che quotidianamente, con il loro incessante scambio di messaggi e di foto, plasmano la loro mentalità e i loro stili di vita. Gli adulti non sono più contestati, perché ormai appartengono a un altro mondo. Gli sforzi dei genitori di essere vicini ai propri figli, schierandosi dalla loro parte incondizionatamente, sono in realtà patetici, perché non possono sovvertire questa situazione.
Però famiglia e scuola sono comunità, e questa è la loro forza. Perché la rete può simulare la dimensione comunitaria – su Facebook ci si definisce “amici” – , ma il suo successo è dovuto proprio al fatto di averne annullato i vincoli, coniugando un estremo individualismo (ognuno fa conoscere di sé quello che vuole e può “uscire” quando vuole, senza renderne ragione a nessuno) con la consolante percezione di essere “visti”. «Esse est percipi», sosteneva Berkeley, un filosofo del Settecento: «Esistere significa essere percepiti», visti da qualcuno. Berkeley, veramente, pensava a Dio; oggi ci si accontenta del pubblico della rete. Ma la differenza è che, in questo secondo caso, si resta profondamente estranei e sconosciuti. Il prezzo della libertà, vissuta come assenza di legami, è la solitudine. La rete ne è la perfetta consacrazione.
Così, rispetto ad essa, la famiglia e la scuola sono rimaste le uniche vere comunità (forse insieme alla Chiesa: ma il discorso qui sarebbe più complesso) in grado di insegnare ad essere liberi, non malgrado i vincoli personali e le regole in essi impliciti, ma proprio grazie ad essi. Per farlo, però, devono riscoprire questa loro dignità, aiutandosi a vicenda a farlo. Forse i pugni e gli schiaffi ai professori dovrebbero dar luogo a qualcosa di più che a una pur giusta protesta da parte dei sindacati degli insegnanti. Forse è il momento di fare una seria riflessione su ciò di cui queste violenze inaccettabili sono indizio e di cerare nuove forme in cui il patto tra scuola e famiglia possa rivivere nella società attuale. Non tanto per salvare i docenti dalle aggressioni, ma i ragazzi dalla solitudine in cui noi adulti li abbiamo lasciati
(Fonte: Rubrica "Chiaroscuri")
Bullismo, Galimberti:
“Bulli non vanno cacciati dalle aule. Problema educativo”
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La riflessione del sociologo, psicanalista e scrittore Umberto Galimberti.
Il bullismo rileva un fallimento
educativo, culturale e politico
di Giancarlo Visitilli,
Presidente e fondatore
coop. soc. «i bambini di Truffaut»
È in atto una crisi culturale, un problema non solo italiano ma che riguarda la specie. È in corso, da decenni, una crisi pedagogica, di grande consistenza, che genera, ormai quotidianamente, atti di bullismo, da Lucca, Milano a Bari, passando per Velletri. Si tratta di una toponomastica che rileva un fallimento educativo, culturale, politico. Abbiamo fallito tutti, perché ognuno, in qualche misura è educatore. E se fallisce la famiglia, avviene quel processo, quasi naturale, dello scarica barile, che si ripercuote sulla scuola. Questa, che dovrebbe essere l’agenzia principe in cui imparare, piuttosto che «cose» (competenze) comportamenti, sapere e processi che derivano dalla poesia, dalla letteratura, dalla storia, dalle leggi fisiche e matematiche, quelle che ancora reggono in un loro sistema, invece, è stata depauperata e resa sterile.
TUTTO SEMBRA essere regolato dalle stesse leggi che Marchionne insegue per incrementare i suoi profitti. Siamo in un sistema scolastico funzionale, in cui anche io, docente, non sono altro che un perno che regge un sistema rotatorio con una sua funzione, utile a riprodurre un tot numero di diplomati, prodotti in serie. La scuola ha una sua funzione e di essa ci si serve sempre più per far funzionare il sistema, specie quando l’immissione in ruolo di migliaia di insegnanti ci si illude che possa servire ad oliare la macchina. Come fosse la mancanza di insegnanti il vero problema della scuola italiana.
NELLA SCUOLA pubblica non crede più nessuno, tantomeno chi sale sullo scranno e, a seconda del titolo di studio, posseduto o meno, si inventa delle (non) riforme, utili a rendere la scuola industria con padroni, controllori e controllati, numeri, che a loro volta devono rispondere a test cifrati. E se prima, almeno, la scuola era il luogo della conoscenza (gli ultimi dati rilevano una consistente ignoranza degli studenti italiani in diverse discipline, dal Nord al Sud), figurarsi se si può parlare ancora della scuola come il luogo dell’educazione alla sapienza, quella per cui avvertire quel senso di stupore e di meraviglia, che solo a scuola si può insegnare. E i bambini non spalancano più le loro bocche, perché non gli si insegna più storie utili a provocargli quel senso di bellezza e meraviglia. Gli adolescenti si annoiano e gli universitari abbandonano. La vera riforma dovrebbe attuarsi cambiando i programmi, i contenuti, ponendo al centro dell’interesse più che come insegno, cosa offro. E non sono le Lim, le tante innovazioni tecnologiche, che hanno generato solo la «scuola dei senza…», a garantire il buon rendimento della scuola, altrimenti non avremmo un atto di bullismo ogni quattro giorni. Se tornassimo ad insegnare ai nostri figli, sin dall’età più piccola, lo stupore, eviteremmo di insegnare anche a loro, dalla scuola elementare, a rispondere a dei test con le crocette, deprivati di colore, privi di qualsiasi forma e di immaginazione. Numeri. E così fino all’Università, dove si devono superare test, piuttosto che esami in cui confrontarsi con altre teste. Tutto questo genera un clima di ostilità, di diffidenza e di sfiducia, sia in chi avrebbe la pretesa di educare, ma soprattutto nei bambini, nelle bambine e negli adolescenti.
I BULLI SONO lo specchio di un’educazione che evidentemente genera solo frustrazioni e disistima, che hanno sfogo nella violenza. Se si lascia erodere la scuola, discreditandola, sia quando i nostri figli sono a casa ma soprattutto dando il cattivo esempio che proviene da qualsiasi politica in atto nel nostro paese, perché meravigliarsi del bullo di Lucca che minaccia il suo professore, intimandogli di mettere un sei sul registro? Dove sta l’arcano se un padre, in una scuola di Bari, prende a pugni l’insegnante di sua figlia per averle detto di rimanere al suo posto? Tutto ciò è normalità. fa parte dei comportamenti che i nostri figli guardano in tv, e non solo quando si tratta di uomini e donne fatti accomodare su troni per gente adirata, «per amore».
SI LITIGA A CASA, si fa a botte in strada e ci si ammazza per niente. La somma di questi comportamenti avviene con consuetudine anche nel nostro parlamento. Il nostro paese è diventato bullo. E se mancano le regole a casa, se si è impossibilitati ad insegnarle a scuola, non si usano più nella prassi politica di un Paese, dove andare a recuperare il senso di un vivere civile e democratico se non a scuola (starei per coniare un hashtag, #senonascuoladove)?
Affrontare in tal modo la questione è come «quando cerchiamo di arrivare a discutere delle questioni fondamentali, prima o poi ci ritroviamo seduti intorno al letticciuolo di Socrate, nella prigione di Atene», come sosteneva un uomo, maestro, che nella scuola pubblica italiana ci credeva, Tullio De Mauro.
(Fonte: "Il manifesto" - 26 aprile 2018)
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