Le opere di misericordia
di Enzo Bianchi
Nel vangelo c’è una parola decisiva di Gesù: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12). È la “regola d’oro”, che stabilisce l’amore attivo di ciascuno di noi verso l’altro: una regola presente in tutte le culture della terra, perché elaborata dal “noi insieme” nel cammino di umanizzazione. Purtroppo non è abbastanza conosciuta e ripetuta l’universalità di questo comando, sovente sconfessato anche dalle religioni. Ma se questo imperativo è sentito come tale in ogni tempo e a ogni latitudine, significa che l’essere umano è capax boni, è per natura capace di discernere e operare il bene. È soprattutto in questa capacità che consiste l’immagine di Dio e la somiglianza con lui che ogni umano porta in sé (cf. Gen 1,26-27). Per questo, proprio su tale criterio avverrà il giudizio di ciascuno: quando il Figlio dell’uomo, alla fine della storia, giudicherà l’umanità intera, collocandola nella benedizione o nella maledizione, guarderà a ciò che ogni persona avrà fatto o non fatto verso il fratello o la sorella in umanità, che attendevano un’azione,un comportamento capace di sollevarli dal loro bisogno, dal loro soffrire (cf. Mt 25,31-46).
Questo imperativo dell’amore dell’altro non è privilegio di una religione, ma è umano, umanissimo, ispirato dal cuore presente in ogni persona, che è capace di compierlo o di rifiutarlo. La fede cristiana, dunque, non ha creato questa regola d’oro, ma le ha dato un primato assoluto, chiedendo ai discepoli di Gesù Cristo di contribuire al cammino di umanizzazione e di non smentirlo mai: fare un’azione di misericordia verso gli altri è come farla verso il Signore Gesù Cristo (“Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”: Mt 25,40), perché è fare la sua volontà (“Se mi amate, osserverete i miei comandamenti: Gv 14,15).
Ha detto recentemente papa Francesco: “È amando gli altri che si impara ad amare Dio” (3 ottobre 2015), ed è solo ascoltando gli altri che si impara ad ascoltare Dio. Questa non è un’eresia bonaria, né tanto meno si tratta di parole frutto di una fede senza Dio, ma è il cuore stesso del cristianesimo, che afferma un Dio fattosi uomo. Per chi è cristiano, il primo sacramento di Dio è il sacramento del prossimo e chi vuole andare a Dio non può evitare il sacramento di Dio che è l’umanità tutta raccolta in Gesù Cristo. Il comandamento “Amerai il Signore, tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5) ha sempre significato non tanto un imperativo a nutrire sentimenti di desiderio verso Dio quanto ad amarlo compiendo la sua volontà, ciò che lui desidera: “in questo, consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti” (1Gv 5,3). L’aver aggiunto a tale comandamento l’altro parallelo – “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18; cf. Mc 12,29-31 e par.) – è solo un’esplicitazione del primo comandamento, affinché non lo si pratichi in un modo che, anche se può essere comune a tutte le religioni, resta pur sempre sviante.
L’amore per Dio, infatti, non è uguale all’amore di un idolo che è caro, amato, invocato proprio perché è muto e risponde ai nostri desideri, cioè un manufatto, opera delle nostre proiezioni! Per questo i profeti con coerenza chiedevano ai credenti vivere l’amore di Dio non attraverso il culto, i sacrifici, le preghiere, i digiuni, ma nello “sciogliere le catene inique, togliere i pesi del giogo, dare la libertà agli oppressi, … dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire chi è nudo” (Is 58,6-7). Ovvero, senza vivere una “carità presbite” che vede i bisognosi se sono lontani mentre trascura quelli vicini alla propria casa! I rabbini insegnavano che le azioni di misericordia del credente sono tali solo se conformi al comportamento di Dio, che “ha vestito Adamo ed Eva quando erano nudi, … ha visitato i malati apparendo ad Abramo in convalescenza, … ha consolato gli afflitti quando consolò Giacobbe, … ha nutrito con il pane del cielo i figli di Israele affamati e morenti di sete nel deserto, … ha seppellito Mosè quando egli morì” (Targum a Dt 34,6). Possiamo dire che tutta la Legge e i Profeti indicano dunque l’azione di carità dei credenti verso gli altri: è così che essi adempiono la volontà di Dio, realizzano nella storia il suo amore, permettono all’amore vivo, eterno e fedele di Dio di raggiungere le diverse situazioni in cui le creature soffrono e appaiono bisognose.
Misericordia, cuore per i miseri, indica bene la fonte dell’azione del credente verso il suo prossimo. Il Nome di Dio, infatti, è “il Signore misericordioso e compassionevole” (Es 34,6; Sal 86,15; 103,8; 111,1; 145,8), e Gesù, Figlio di Dio e di Maria, è stato il volto umano di questa misericordia di Dio, è stato la narrazione (exeghésato: Gv 1,18) di questa “sostanza” del nostro “Dio” che “è carità” (1Gv 4,8.16). E quando questa carità si mette in movimento verso le sue creature, è sempre misericordia, amore che viene dalle viscere di una madre, tenerezza del cuore di un padre. La misericordia – si badi bene – non può restare un sentimento, ma proprio perché nasce dalle viscere profonde, quasi un istinto, una pulsione incontenibile, diviene un fare. Secondo le espressioni bibliche, la misericordia si fa (si veda, in particolare, Lc 10,37: “qui fecit misericordiam”), come si fanno i sacrifici, ma nella consapevolezza che Dio ha detto: “Voglio la misericordia e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6; cf. Mt 9,13; 12,7).
E proprio perché i cristiani non leggevano più le Scritture e non potevano avere assiduità con il vangelo scritto, nei secoli si è cercato di sintetizzare la volontà del Signore, e quindi la risposta del cristiano, in precetti e consigli. Così si sono compilate liste da ricordare a memoria nella vita quotidiana. Proprio a partire dalla pagina del giudizio universale ricordata sopra (a cui va aggiunto, per la sepoltura dei morti, un passo del libro di Tobia, Tb 12,12-13), si sono progressivamente individuate sette azioni di misericordia da compiere, dette anche azioni corporali, perché contrassegnate da un fare con il corpo intero verso il corpo di chi è nel bisogno. Più tardi si sono raccolte, sempre con il numero della totalità indicante la pienezza, sette azioni di misericordia spirituali, che cioè riguardano la vita interiore, spirituale degli altri, bisognosi di aiuto anche a questo livello. Tali distinzioni, nate con l’intenzione di essere delle semplificazioni, di servire quale aiuto e memoria per i credenti, rischiano però di frammentare in una casistica la realizzazione della misericordia, che deve sempre essere creativa.
Occorre dunque la consapevolezza che, per fare azioni di misericordia, sono assolutamente necessari alcuni passi. Innanzitutto il vedere: non basta guardare, occorre vedere, essere svegli e vigilanti, restare consapevoli che nel quotidiano dobbiamo non solo incrociare l’altro, guardarlo e passare oltre, ma vederlo, con uno sguardo che sappia leggerlo nella sua identità altra da noi, di fratello o sorella in umanità. Conosciuto o sconosciuto, l’altro va visto come uno uguale a noi in dignità e umanità. Solo dal vedere scaturisce il secondo passo: avvicinarsi, farsi prossimo all’altro e così renderlo nostro prossimo. Nell’incontro, nella prossimità, nel volto contro volto, occhio contro occhio, si decide la relazione. L’altro non è più lontano, non è più uno tra tanti altri, ma ha un volto di fronte al mio e con il suo volto mi pone una domanda, accende la mia responsabilità. L’ultimo passo è il sentire, provare compassione non solo con il cuore, ma con viscere che fremono, si commuovono. Qui si vede se uno ha il cuore di carne o di pietra (cf. Ez 11,19; 36,26), se è egoista e narcisista oppure se sa riconoscere il bisogno dell’altro fino a provare empatia, fino a soffrire con l’altro. Se si compiono questi tre passi, allora è quasi naturale agire, “fare misericordia”, sempre in modo diverso e creativo, sempre guardando al destinatario del nostro aver cura e non a noi stessi. Così accade che la misericordia di Dio, attraverso noi umani, può diventare misericordia concreta verso i bisognosi e gli infelici.
Cari lettori, care lettrici, in quest’anno della misericordia voluto da papa Francesco il primo nostro compito è quello di recuperare l’elementare grammatica dell’amore misericordioso di Dio: misericordia da parte di Dio conosciuta su di noi – anche questa è “conoscenza di Dio” (Os 6,6)! – e misericordia attiva da parte nostra verso i fratelli e le sorelle in umanità. In un epoca in cui si sono fatti progressi, anche se ancora deficitari, nel cammino di umanizzazione, sui temi della libertà e dell’uguaglianza, la fraternità rischia di essere dimenticata. Ma senza la fraternità anche la ricerca della libertà e dell’uguaglianza diventa debole e rischia di non essere sufficientemente fondata. Occorre un’“insurrezione delle coscienze” che affermi e ricerchi la fraternità a livello universale. Le sette opere di misericordia sono indicative di un cammino da compiersi a tutti livelli: personale, comunitario e politico. Comunque, ci vuole poco a capirlo: se io voglio bene a qualcuno, cioè voglio il suo bene,
gli do da mangiare bene, o meglio, gli faccio bene da mangiare;
gli procuro da bere e brindo insieme a lui con un po’ di vino;
lo aiuto a vestirsi degnamente;
gli do ospitalità a casa mia;
lo curo se è malato;
lo vado a trovare se lui non può venire a trovarmi;
gli do sepoltura quando morirà.
È semplice e quotidiano!
(fonte: Vita Pastorale)