di Enzo Bianchi
In alcuni momenti della storia della chiesa emerge il bisogno di riforma: “ecclesia semper reformanda” è un adagio ripreso tantissime volte nel secondo millennio e nella chiesa latina, fino a dare origine a chiese “riformate” o “della Riforma”, a suscitare una “controriforma” e a provocare divisioni e separazioni di cristiani all’interno della stessa chiesa. Riforma della chiesa tutta e di ogni cristiano che nel proprio cammino spirituale deve assolutamente “deformata reformare”, cioè dare nuova forma a ciò che risulta essere diventato “deforme” rispetto al vangelo. Ma questa esigenza universale di riforma è primaria per quanti nella chiesa hanno responsabilità di governo o sono figure esemplari per tutti i cristiani: papa, vescovi, presbiteri, monaci...
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Rimanendo alle riforme tentate dal “vertice”, troviamo papa Marcello II: da vescovo e cardinale partecipò al concilio di Trento, contestando a questa assise la qualifica di “rappresentante la chiesa universale” in quanto erano assenti sia l’oriente cristiano che i riformati protestanti. Nel 1555 fu eletto papa, mantenne il proprio nome battesimale e rifiutò ogni sfarzo e fasto trionfali per la propria incoronazione a papa. Si mostrò subito convinto dell’urgenza della riforma della chiesa – a cominciare dalla curia – e della vita di preti e monaci, ormai avvezzi ad abusi e comportamenti scandalosi, non concesse favori ai parenti e assunse lui stesso con rigore uno stile di vita evangelico, povero e umile. Ma il suo pontificato durò meno di un mese… Altri tentativi li fece il concilio di Trento, in particolare attraverso l’opera di alcuni vescovi e santi fondatori o riformatori di ordini: significativamente ormai gli storici non parlano più di “controriforma” ma piuttosto di “riforma cattolica”.
Ma il bisogno di riforma emerse ancora con forza nel secolo scorso, come testimonia il titolo stesso di un’opera fondamentale di uno dei grandi teologi del Vaticano II, p. Yves Congar: “Vera o falsa riforma nella chiesa”. Così papa Giovanni XXIII e il concilio da lui voluto – proseguito e portato a compimento da Paolo VI – hanno operato una riforma sia dello stile del papato, sia di tutta la vita liturgica e spirituale della chiesa, sia del modo di porsi dei cristiani nella compagnia degli uomini. Quell’avvio di riforma, ricominciato con Benedetto XVI, oggi è stato ripreso con forza da papa Francesco che in proposito è stato esplicito fin dall’inizio del suo pontificato, manifestando il desiderio risoluto di una chiesa povera e misericordiosa. Questo suo programma essenziale richiede riforme a diversi livelli: dalla forma dell’esercizio del papato fino all’unità visibile delle chiese cristiane, dalle strutture della curia – che deve essere al servizio del papa e ancor più al servizio delle chiese locali di tutto il mondo – fino allo stile di vita degli ecclesiastici tutti. E questo, semplicemente, in nome del vangelo, di cui papa Francesco vuole essere servo e ministro.
Da due anni e mezzo questo successore di Pietro che ama definirsi “vescovo di Roma, la chiesa che presiede nella carità”, ha mostrato di voler essere in prima persona un realizzatore di ciò che predica. Non è un rigorista né propone un’interpretazione letteralista del vangelo, non vuole esercitare un ministero di condanna, ma chiede ai cristiani di riconoscersi peccatori, perché questa è la loro realtà, e di non essere corrotti, cinici, duri di cuore, insensibili alle esigenze del vangelo e alla continua conversione che questo richiede.
Le resistenze che incontra fanno parte di una “necessitas” predetta da Gesù per i suoi discepoli e da lui sofferta: quando appare il giusto, allora l’iniquo si scatena; quando qualche vita cristiana riesce a far brillare il vangelo, allora irrompono le tenebre; quando qualcuno annuncia il vangelo e lo vive, allora gli tirano le pietre. Più papa Francesco realizzerà la riforma della chiesa, e più pesante sarà la croce sulle sue spalle: accanto al riconoscimento e alla gratitudine dei cristiani che tentano di vivere il vangelo e dei “giusti” anche non cristiani, accanto alla riconoscenza dei poveri, apparirà il disprezzo, la delegittimazione, l’offesa dei poteri mondani, interni ed esterni al mondo ecclesiale. Il cardinale Coccopalmerio ha dichiarato: “Questo papa comincia a fare paura!”. Paura a chi? A quelli che sono sordi alle esigenze della giustizia, a quelli che non vogliono ascoltare i poveri, a quelli che amano servirsi degli altri per il loro potere, la loro affermazione, le loro ricchezze…
Le presunte rivelazioni di questi giorni, che non costituiscono grandi novità, certamente addolorano quanti credono alla giustizia e amano la chiesa: sono indicatrici del “mistero di iniquità” in atto, come già denunciava Benedetto XVI, anche nello spazio preposto proprio alla giustizia e al servizio dei fratelli e delle sorelle. Non spendiamo nessuna parola per commentarle: significherebbe alimentare ulteriormente chiacchiere e mormorazioni che papa Francesco denuncia costantemente come attentato alla verità e alla carità.
Non si ceda alla calunnia troppo facile, non si condanni nessuno senza averlo ascoltato e si abbia una visione realistica anche della curia, dove lavorano con dedizione, competenza, trasparenza e onestà uomini che cercano anche nell’esercizio del governo di vivere il vangelo e il leale servizio al papa e a tutte le chiese. E se è vero che un “cristiano non può parlare di povertà e vivere come un faraone”, come ha detto papa Francesco, resta vero che il parlare di povertà ci fa arrossire tutti e che la parola povertà brucia le labbra di chi la pronuncia. Se Ignazio Silone ha scritto di papa Celestino V “L’avventura di un povero cristiano”, noi potremmo dire di papa Francesco: “L’avventura di un cristiano povero”.
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