A 50 anni dal Concilio. Attualità del Vaticano II (quello vero)
L’8 dicembre prossimo cadrà il 50° anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II. Ed è fin troppo facile prevedere la mole di articoli e commenti per rintuzzare una polemica mai sopita – e che ha investito in pieno anche il recente Sinodo sulla famiglia dove, caso mai non fosse chiaro, si sono scontrate prima ancora che due opposte visioni sulla famiglia, due opposte visioni sulla chiesa e il suo rapporto con il mondo – su un evento che, comunque lo si guardi, ha cambiato il volto della Chiesa. Il che, di per sé, non è necessariamente un male, anzi.
Per chi abbia cura di non applicare alle vicende della fede categorie che poco o nulla hanno a che fare con essa, più il Vaticano II emerge come “segno di contraddizione”, più si conferma la sua impronta divina. Resta il fatto che entrambe le letture prevalenti, quella tradizionalista che lo vede come un evento di rottura rispetto alla “vera” Chiesa – con ciò intendendo quella tridentina – e quella progressista che, all’opposto, lo interpreta anch’essa come discontinuità ma in questo caso positivamente intesa come apertura alla modernità, peccano di miopia. Da parte tradizionalista, l’occasione per rinfocolare la polemica è stata l’elezione di Papa Francesco. Il cui pontificato è stato, ed è tuttora, solo in apparenza il bersaglio degli strali tradizionalisti, quando è di tutta evidenza come il bersaglio grosso sia proprio, e primariamente il Concilio. Secondo la critica tradizionalista le perplessità e i mal di pancia di più d’un fedele sono riconducibili alla scelta di fondo di Papa Bergoglio, quella cioè di privilegiare, soprattutto nel rapporto con il mondo, un approccio pastorale anziché dottrinale.
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Ciò di cui la chiesa ha bisogno è di tornare al Vaticano II, quello vero. Che resta un evento straordinario dove lo Spirito realmente ha parlato alla Chiesa suscitando – nonostante i limiti e le debolezze dei sui membri – un’azione di rinnovamento nella, non contro né oltre la tradizione – come ha sottolineato Benedetto XVI nel celebre discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, rileggendo il Concilio alla luce dell’ermeneutica della riforma – che in parte ha recepito le istanze del rinnovamento biblico, liturgico e teologico degli anni precedenti, in parte ne ha suscitate di nuove, il tutto cristallizzandosi nei documenti finali dell’assise conciliare, vere perle di sapienza, ai quali bisogna tornare, con umiltà e discernimento. E senza dimenticare che proprio in quegli anni lo stesso Spirito che soffiava nella basilica di S. Pietro era all’opera per suscitare nuove comunità e movimenti ecclesiali (penso a CL, i Focolarini, il Cammino Neocatecumenale, il Rinnovamento nello Spirito, ecc.), dove molte delle istanze del Concilio hanno trovato attuazione sotto la vigile guida dei pontefici e dei pastori. Grazie al Vaticano II è stata rimessa al centro della vita dei fedeli la Parola di Dio (Dei Verbum); è stata varata una riforma liturgica (Sacrosanctum concilium) dove la Messa è non è più un assistere passivamente ad un rito, ma partecipazione attiva, personale e allo steso tempo comunitaria al Mistero pasquale di Cristo, ovvero sacrificio, cioè morte, e Resurrezione, cioè vita (resurrezione senza la quale, vale la pena ricordarlo, l’intera impalcatura della fede cattolica crolla come un castello di carte; è stata riproposta, tornando alle fonti, un’ecclesiologia (Lumen Gentium) dove la chiesa è Corpo di Cristo e popolo di Dio, all’interno della quale ciascun fedele, in virtù del battesimo, partecipa all’unico sacerdozio di Cristo, senza nulla togliere al sacerdozio ministeriale riservato esclusivamente ai presbiteri. Col risultato di mandare in pensione la vecchia concezione verticistica e piramidale, che vedeva il clero alla sommità, e di desacralizzare – ciò che per molti, allora come oggi, è il vero problema – la figura del prete, e di affermare al contempo il ruolo del laicato, non più mero ricettore o utente passivo, ma protagonista attivo nella vita della chiesa; una riforma che sicuramente non è stata gradita dai tanti nostalgici dell’era pre-conciliare dove il clero era investito di un’aura sacrale, e negli stessi seminari i futuri sacerdoti venivano formati avendo ben chiaro che diventare prete significava entrare a far parte di un’elite, di una casta ristretta con i laici nel ruolo tutt’al più di braccio secolare e comunque in nessun caso attori ma semplici comparse.
Un cambio di prospettiva, quello conciliare, che dopo mezzo secolo una buona fetta del clero (e non solo) fa ancora fatica ad accettare, fermi come sono ad una visione del sacerdozio come potere e non come servizio. Tanto che il refrain che spesso si sente – a proposito, ad esempio, delle realtà ecclesiali sorte negli anni del Concilio – è il seguente: sì, d’accordo, i laici hanno puntellato e sostenuto la chiesa nel post-concilio, quando c’è stato lo sbandamento, ma ora il loro compito si è esaurito, ed è tempo che i preti si riapproprino del loro ruolo riprendendo in mano il timone della barca e rimettendo i laici al loro posto. Come se fosse tutta e soltanto, appunto, una questione di potere. Tre riforme – biblica, liturgica, ecclesiologica – che non hanno scalfito di una virgola la Tradizione (altro sono “le” tradizioni, quelle sì suscettibili di cambiamenti), e che allo stesso tempo hanno posto le premesse perché il cristianesimo entrasse nella vita concreta, umana ed esistenziale, degli uomini e delle donne del suo e nostro tempo.
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Se è vero, come è stato da più parti evidenziato, che la crisi attuale – in primis quella che ha investito la famiglia – è primariamente crisi di fede, la cura non è né fare marcia indietro né vagheggiare balzi in avanti, ma riprendere le fila del Vaticano II, quello vero.
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