Quei volti interrogano tutti noi
di Enzo Bianchi
Abbiamo bisogno di vederli transitare a centinaia dalle nostre stazioni ferroviarie per interrogarci su cosa significhi la parola profugo.
Ormai ci siamo tragicamente assuefatti alle immagini degli sbarchi a Lampedusa, ci nascondiamo dietro il termine disumano di «clandestino», ci sentiamo più infastiditi che angosciati dalle immagini che rimbalzano dall’Iraq o dalla Siria.
Immagini lontane che, se si fanno troppo vicine, possiamo sempre oscurare, cancellare passando a qualche video più rilassante, magari a una partita del mondiale di calcio. Poi, all’improvviso, in una stazione qualunque, su un vagone come tanti, in mezzo a pendolari e vacanzieri ecco apparire dei volti, ecco uomini, donne e bambini in carne ed ossa, persone disperate abitate da un’ultima speranza. Sono lì, in mezzo a noi, non ne capiamo la lingua, non sappiamo se sono musulmani o cristiani, non capiamo come abbiano fatto ad arrivare, da dove vengano, dove vogliano andare.
Sono lì loro e siamo lì noi: il fastidio che avvertivamo vedendoli come massa in lontananza, come fiumana in televisione, diventa sgomento, indignazione, senso di impotenza, compassione.
Quegli occhi in cui è racchiuso l’ultimo lembo del loro mondo ormai crollato, quei volti su cui si intrecciano la paura e la dignità ferita, quei bambini che hanno smarrito l’infanzia prima ancora di averla assaporata, quelle donne che sopravvivono aggrappate al loro essere madri, pronte a tutto per salvare i loro figli... Ecco, questo sono i profughi: non un’emergenza sociale, non un problema politico, non uno strumento di propaganda, non un’eccedenza di mercato, non un effetto collaterale di una strategia sbagliata. Ma un grido, un appello, un richiamo a tornare alla dignità del comune appartenere all’umanità. Certo, possiamo e dobbiamo interrogarci su cosa li spinge a fuggire dalla loro terra (anche se alcuni di loro non hanno mai conosciuto una terra di cui poter dire «mia»), sulle responsabilità dirette e indirette di tale scempio; possiamo e dobbiamo chiederci come agire a monte, per impedire la tragedia prima che si consumi, possiamo autoassolverci e accusare gli altri, tutti gli altri... Ma intanto quei volti sono lì e ci interrogano. Che ne è della tua qualità umana? Che ne è della tua fede cristiana, della tua etica laica, della tua filosofia di vita? Cosa ne abbiamo fatto di parole come umanità, solidarietà, fratellanza, compassione? In una parola: «Uomo, dove sei?».
Davanti non alla categoria astratta del «profugo», non all’idea generica del «clandestino» bensì davanti a un bambino, a una donna, a un uomo affranto perché non riesce a proteggere quelle due creature più deboli siamo capaci di ripetere il gesto di fastidio con cui tante volte abbiamo scacciato come mosche quelle immagini lontane che arrivavano a disturbare la nostra tranquillità? Allora, dietro ai volti dei profughi siriani, in mezzo ai binari di una stazione, ci appaiono anche i cristiani dell’Iraq in cammino verso un luogo di riparo che non esiste, le vittime di guerre cui non sanno e non sappiamo nemmeno dare un nome, i rifugiati che cercano scampo dall’avidità e dalla violenza di chi ha per unico Dio il proprio potere e la propria ricchezza. Quei volti ci obbligano a ricordare eventi frettolosamente rimossi dalla nostra memoria: le nostre «guerre umanitarie», la nostra democrazia da esportazione, il primato da noi accordato all’approvvigionamento energetico hanno causato solo negli ultimi giorni mezzo milione di profughi dall’Iraq, la fuga di intere comunità cristiane presenti in quei luoghi da quindici secoli, lo sgretolamento di una testimonianza di convivenza possibile.
Ancora ieri papa Francesco si è scagliato contro «una cultura dello scarto», contro «un sistema economico che non regge più e che per sopravvivere deve fare la guerra, come sempre hanno fatto i grandi imperi. Visto che non si può fare la terza guerra mondiale, si fanno guerre regionali. Cosa significa questo? Significa che si fabbricano e si vendono armi, e così i bilanci delle economie idolatre, le grandi economie mondiali che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro, ovviamente si risanano». Sì, in nome di una via di uscita dalla crisi economica, di un nostro stare meglio, giustifichiamo l’espansione dell’industria degli armamenti, togliamo vincoli all’esportazione delle armi, non ci chiediamo troppo a chi le vendiamo, fingiamo di non sapere in che mani finiscono dopo qualche triangolazione commerciale più o meno lecita, ci illudiamo di non essere responsabili dell’uso che viene fatto di strumenti di morte fabbricati e messi in circolazione da noi. Il prezzo di un fallace risanamento delle nostre economie sono quegli esseri umani smarriti nelle nostre stazioni, accalcati in barconi che non riescono nemmeno a galleggiare, convogliati in campi profughi in cui manca tutto tranne la disperazione e la morte.
Fino a quando ciò che resta della nostra umanità è ancora disposto a pagare un prezzo umano così alto? Fino a quando continueremo a guardare quelle persone come fossero estranei? Fino a quando non li riconosceremo come nostri familiari, parenti disperati che invocano il nostro aiuto? Fino a quando non vedremo noi stessi riflessi nei loro occhi di dolore e di speranza?
Fino a quando ciò che resta della nostra umanità è ancora disposto a pagare un prezzo umano così alto? Fino a quando continueremo a guardare quelle persone come fossero estranei? Fino a quando non li riconosceremo come nostri familiari, parenti disperati che invocano il nostro aiuto? Fino a quando non vedremo noi stessi riflessi nei loro occhi di dolore e di speranza?
(fonte: “La Stampa” del 14 giugno 2014)