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sabato 31 maggio 2025

UN CORPO ASSENTE L'ultima imma­gine di Gesù sono le sue ma­ni alzate a benedire... Il mondo lo ha rifiutato e ucciso, e lui lo benedice. - ASCENSIONE DEL SIGNORE ANNO C - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

UN CORPO ASSENTE
 

L'ultima imma­gine di Gesù sono le sue ma­ni alzate a benedire...
Il mondo lo ha rifiutato e ucciso, e lui lo benedice.


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio. Lc 24,46-53

 
UN CORPO ASSENTE
 
L'ultima imma­gine di Gesù sono le sue ma­ni alzate a benedire...
Il mondo lo ha rifiutato e ucciso, e lui lo benedice.


Ascensione: con Cristo anche noi a cercare un crocevia tra terra e cielo, una fessura aperta sull'oltre, su ciò che dura al di là del tramonto: sapere che il nostro amare non è inutile ma sarà raccolto goccia a goccia, come olio sacro e prezioso.

“E alzate le mani li benediceva, e veni­va portato su, in cielo”. L'ultima imma­gine di Gesù sono le sue ma­ni alzate a benedire. Sua parola definitiva che ci raggiunge tutti, una in-finita, mai finita benedizione che si stende sulla storia, sul pane e sulle pietre, sull'uomo che cade e su chi è ferito, ad assicurare che la vita è più forte delle sue ferite. Il mondo lo ha rifiutato e ucciso, e lui lo benedice.

L’ascensione non è una vittoria sulla forza di gravità, Gesù non è salito verso l'alto, è ‘asceso’ nel profondo degli esseri, è ‘disceso’ nell’intimo del creato e delle creature. Lui ha preso dimora nel profondo del creato, nel rigore della pietra come nella musica delle costellazioni: spostamento del cuore, non del corpo.

Con il suo corpo assente sottratto agli sguardi e al nostro avido toccare, inizia la nostalgia del cielo; non lo possiamo toccare, non lo possiamo trattenere come Maria quel giorno al sepolcro, perché lui deve andare all’essenziale.

Il Maestro lascia la terra con un fallimento, se giudicato coi numeri: delle folle osannanti rimangano solo undici uomini impauriti e poche donne tenaci e coraggiose. Ma lui sa che nessuno di loro lo dimenticherà, è la sola garanzia di cui ha bisogno, per affidare loro il suo vangelo e il suo sogno. “Ho amato ogni cosa con l'addio” (Marina Cvetaeva).

Mentre li benediceva si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Gesto prolungato, a indicare una benedizione mai terminata, che galleggia ancora alta sul mondo e vicinissima a me. Una benedizione ha lasciato il Signore; una parola bella su noi. Perché si benedice chi ci ha fatto del bene. E io, quale bene ho fatto a Dio? Eppure egli benedice i miei sandali rotti e i miei percorsi malandati.

Luca conclude il suo vangelo a sorpresa: i discepoli tornarono a Gerusalemme con grande gioia. Invece d’essere tristi perché se ne andava il loro amico, sentono dentro un amore che abbraccia l'universo, e ne sono felici: finalmente hanno capito. La "Chiesa in uscita" inizia su quell’altura, col chiedere agli apostoli un cambio di sguardo. Devono passare da un gruppo che mette se stesso al centro, ad una Chiesa al servizio dell'uomo, della vita, di ciò che conta davvero, della Casa comune e dei figli che verranno.

Benedici anche me, Signore, che sto imparando, che sto qualche volta camminando, come loro, su sandali di gioia.


Quei bambini cresciuti nella vendetta e nell'odio: che adulti saranno?

Milena Santerini*

Quei bambini cresciuti nella vendetta e nell'odio: che adulti saranno?

Sono almeno 3000 le sole vittime sotto i cinque anni. I superstiti cresceranno colpiti dal trauma della guerra, dei bombardamenti e delle mutilazioni, senza scuola né futuro. Ci si chiede se questa generazione di minori sarà capace di credere nei diritti umani

Foto di copertina, Reuters

Negli ultimi mesi, la situazione dei bambini nella Striscia di Gaza è precipitata in una crisi umanitaria senza precedenti, caratterizzata da un numero elevatissimo di vittime, malnutrizione diffusa, collasso dei servizi sanitari e distruzione delle infrastrutture essenziali. Le cifre esatte delle vittime degli attacchi israeliani non si conoscono – forse 50.000 – ma si stima che tra loro vi siano almeno 3000 bambini sotto i cinque anni. Dopo il blocco degli aiuti, da marzo 2025, e la parziale ripresa di questi giorni, si aggiungono, per i minori del nord della Striscia, malnutrizione o anche deperimento. Il sistema sanitario è al collasso: 26 dei 36 ospedali di Gaza sono stati messi fuori uso da oltre 400 attacchi e l’unico ospedale pediatrico nel nord non è più operativo. Mancano medicine e generi di prima necessità. Oltre 1 milione di bambini vivono in tende di fortuna, esposti al freddo e senza accesso a servizi essenziali.

Questi bambini che stanno crescendo colpiti dal trauma della guerra, dei bombardamenti, delle mutilazioni o della perdita dei familiari, presentano il rischio di conseguenze a lungo termine nella loro vita. Preoccupa anche l’impatto della perdita della scuola. Prima della guerra, la Striscia di Gaza vantava un sistema educativo ben strutturato, con un tasso di alfabetizzazione superiore al 95% tra i bambini di età compresa tra 6 e 12 anni. Oggi moltissime scuole sono distrutte o danneggiate

Uno studio, frutto di un'iniziativa congiunta dell'UNRWA (l’Agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi), della Facoltà di Scienze dell'Educazione dell'Università di Cambridge e del Centre for Lebanese Studies, ha valutato l’impatto della mancata scolarizzazione: nel migliore dei casi il ritardo sarà di due anni, ma se la guerra non finirà presto, potrebbe arrivare a cinque anni. I ricercatori calcolano che i mesi di scuola persa finora abbiano aumentato la "povertà di apprendimento" – la percentuale di bambini incapaci di leggere un testo elementare entro i 10 anni – di almeno 20 punti percentuali.

Ma la conseguenza più devastante potrebbe essere quella di perdere la fiducia e la speranza nel futuro (proprio nell’anno Giubilare che papa Francesco aveva dedicato a essa). Ci si chiede se questa generazione di bambini sarà capace di credere nei diritti umani, nell’uguaglianza e nella pace, dopo essere stati traditi così crudelmente. Dal punto di vista sociale e politico, sarebbe purtroppo molto facile aspettarsi ragazzi che crescono animati da spirito di vendetta, facile preda del terrorismo e della radicalizzazione di gruppi estremisti. Gideon Levy, giornalista del quotidiano israeliano Haaretz, ha scritto un articolo intitolato "Israel Is Fostering the Next Generation of Hatred Against Itself" descrivendo come le azioni militari israeliane stiano seminando un odio profondo nei bambini palestinesi, e come stia crescendo un'altra generazione di resistenti.

A loro, come ai bambini israeliani vittime del massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023, la comunità internazionale dovrà restituire la fiducia che siamo davvero capaci di protezione e cura nei loro confronti, e che quindi vogliamo davvero scegliere la pace.

*Milena Santerini, ordinario di Pedagogia generale all’Università Cattolica del S.Cuore
(fonte: Famiglia Cristiana 30/05/2025)

Violenza sulle donne. Quando l’amore é tossico di Linda Laura Sabbadini

Violenza sulle donne. 
Quando l’amore é tossico 
di Linda Laura Sabbadini


È straziante dover fare i conti con il femminicidio di una ragazza di 14 anni. Una ragazza che aveva il diritto di crescere spensierata, libera, a cui è stato strappato tutto: il futuro, i sogni, la gioia di vivere.

«L’ho uccisa perché mi aveva lasciato». Queste terribili parole non sono una semplice confessione, sono un urlo afono di potere. Sono la sintesi brutale di una cultura patriarcale e di una mascolinità tossica che continua a passare.

Anche le ragazze soffrono, quando sono lasciate dal loro ragazzo, ma sono rari i casi di omicidio. Attenzione, femminicidi come questo, sono solo la punta dell’iceberg delle molto più diffuse violenze di tutti i tipi, che tantissime ragazze hanno vissuto. L’Istat aveva stimato anni fa che il 10% delle donne aveva subito violenza prima dei 16 anni. Tra gli autori, amici di famiglia, conoscenti, fidanzati, compagni di scuola, e anche parenti, una vera mappa dell’orrore.

Non c’è nulla di improvviso o incontrollato in un gesto che porta all’assassinio di una donna. Questa non è follia, ma incapacità, o più esattamente, rifiuto di accettare che una donna, anche giovanissima, possa essere soggetto di scelte, che possa dire no, andarsene contro la volontà del maschio. In una cultura ancora profondamente radicata del possesso del corpo femminile, il rifiuto di una donna, fin da giovanissima, diventa una sfida insopportabile, un’umiliazione da lavare addirittura con il sangue. Se lei si sottrae alla relazione, è tradimento. Se lei sceglie, è colpa. Se lei va via, è una condanna da punire. E così, anche nell’anno 2025, il corpo di una ragazza solare, si trasforma in un campo di battaglia. Possibile che bisogna conquistarsi ogni giorno, fin da ragazzine, il diritto di essere libere?

La rabbia maschile non nasce dal nulla. È figlia di una mancata educazione emotiva, di un’assenza profonda di strumenti per gestire la frustrazione, il dolore, la fine di una relazione. Non bastano le leggi. Serve educare all’affettività e al rispetto dei sentimenti dell’altro, avivere la delusione senza trasformarla in vendetta. Quando una ragazza viene uccisa per la sua libertà e autodeterminazione, è la nostra democrazia a sanguinare.

Ogni femminicidio è un fallimento collettivo, della scuola e della famiglia, troppo spesso incapaci di educare al rispetto e alle relazioni. Delle istituzioni, che arrivano tardi, quando arrivano, e dovrebbero sostenere di più e ampliare in modo capillare i centri antiviolenza. Dei media, che devono saper trasmettere messaggi adeguati e non scivolare nelle semplificazioni. E anche di una cultura che, sotto la patina della modernità, continua a riprodurre modelli tossici di virilità, controllo e possesso.

Serve una rivoluzione vera, una alfabetizzazione alla gestione delle emozioni, allo sviluppo di una cultura del rispetto, al contrasto di quella del possesso, anche attraverso la costruzione di presidi psicologici stabili in tutte le scuole e l’istituzione dello psicologo di famiglia. Dovremmo essere tutti uniti nel combattere la violenza contro le donne a partire dagli adulti nei tribunali. E, invece, anche lì resistono stereotipi che sembrano insuperabili. Se sono proprio i giudici a emettere sentenze come quella di Catania — sette studentesse denunciano molestie da parte di un professore, ma lui viene assolto perché “non c’è stato dissenso esplicito” o “non ha toccato il seno con le dita” — allora siamo veramente indietro. Ma davvero non sanno, i giudici — e le giudici ! — che il dissenso non sempre può essere espresso, soprattutto quando c’è un rapporto di potere, come tra docente e studentesse?

Stiamo regredendo culturalmente e si fa strada la reazione alle conquiste che sembravano acquisite. Bisogna ribaltare il paradigma, e ribadire il principio che senza consenso è sempre violenza. Tutte le parlamentari dovrebbero trovare una intesa per porre un argine invalicabile, migliorando la nostra legge.

(Fonte: “Domani”  - 29 maggio 2025)


Associazione Culturale Pediatri (ACP) - Un appello per GAZA: “Gli aiuti umanitari non sono un’arma”


Associazione Culturale Pediatri (ACP)
Un appello per GAZA:
“Gli aiuti umanitari non sono un’arma”

Il 25 maggio scorso un bambino palestinese di 4 anni, Mohammed, è morto di fame a Gaza. Mohammed non è morto di carestia per cause naturali, ma in un posto dove si è deciso di non far arrivare il cibo attraverso gli aiuti umanitari.

A distanza di poche ore di tempo, una mamma e collega pediatra palestinese, Alaa al-Najjar, di turno all’ospedale Nasser di Khan Yunis, uno dei pochi attivi a Gaza, si è vista arrivare i corpi dei suoi 9 figli colpiti da un bombardamento israeliano, e il suo unico figlio sopravvissuto versa in condizioni critiche.

L’enormità di questi accadimenti ci sovrasta e ci sentiamo inermi. Il nostro raggio di azione è o ci appare così insignificante che spesso si tace, pensando che quasi tutto il resto del mondo, di fronte all’assenza totale di protezione e di diritti nei confronti dei più deboli, sia indignato.

Sono diverse le società scientifiche e le associazioni mediche che stanno lanciando un appello per la protezione dell’infanzia nei conflitti armati, esprimendo anche il cordoglio per le tante vittime civili.

Ogni giorno, si legge da un editoriale del Lancet del 24 Maggio, 35 bambini vengono uccisi a Gaza, per un totale di 18.000 bambini morti a oggi. Gaza ha la più grande coorte di bambini e bambine amputate, oltre a coloro che muoiono e moriranno di fame, non per carestia, ma per impossibilità ad accedere agli aiuti umanitari. La fame non può essere un’arma di guerra, né una moneta di contrattazione.

Dobbiamo comunicare la nostra indignazione come madri e padri, come pediatri che si prendono cura delle bambine e dei bambini e delle loro famiglie, e come Associazione Culturale Pediatri ribadiamo con forza l’enorme gravità di questa situazione.

Il nostro appello, insieme a quello di altre istituzioni e associazioni, speriamo venga accolto affinché la negazione dei diritti umani e la totale assenza di protezione nei confronti delle bambine e dei bambini finisca al più presto. La distruzione del popolo palestinese avrà enormi ripercussioni sulle generazioni a venire, sui figli e sui nipoti dei bambini che sopravviveranno a tutto questo.

NON POSSIAMO TACERE perché i bambini non sono nemici e affinché gli aiuti umanitari non siano un’arma.

Stefania Manetti, presidente ACP
Il Direttivo ACP
I referenti regionali ACP
(fonte: Associazione Culturale Pediatri ACP 28/05/2025)


venerdì 30 maggio 2025

Giornata Mondiale dei Bambini: la Chiesa guidi la “rivoluzione della tenerezza”


Giornata Mondiale dei Bambini:
la Chiesa guidi la “rivoluzione della tenerezza”

Questa mattina, 30 maggio, si è svolto nell’aula Pio XI di Palazzo San Calisto un simposio, organizzato dal Pontificio Comitato per la GMB in preparazione alla Giornata del 2026, ed evento del Giubileo in corso. Il cardinale De Mendonça: “L’infanzia, nella sua realtà più nuda e fragile, deve essere assunta come un vero e proprio tema dalla teologia”.


“La Giornata mondiale dei Bambini, voluta da Papa Francesco, è un accadimento che, per la prima volta nella vita della Chiesa, pone i bambini come soggetto della vita ecclesiale, come viva e chiassosa profezia del Vangelo”. Lo ha sottolineato il cardinale José Tolentino De Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione nella lectio magistralis letta da padre Antonio Spadaro, segretario dello stesso Dicastero, stamani, 30 maggio, durante il simposio “La Chiesa dei Bambini - Verso la Giornata Mondiale dei Bambini” che si è svolto questa mattina, a Roma, nell’aula Pio XI di Palazzo San Calisto, nel cuore di Trastevere. Tutta focalizzata sulla “rivoluzione della tenerezza” e sui bambini, non secondari compagni sul cammino di fede della Chiesa, la relazione del porporato preceduta dai saluti di padre Enzo Fortunato, presidente del Pontificio Comitato per la GMB, che ha organizzato l'evento. L’occasione è stato il World Children’s Day, che si terrà a settembre del 2026, e il Giubileo delle Famiglie, dei Bambini, dei Nonni e degli Anziani, che inizia oggi e si conclude domenica con la Messa che Papa Leone XIV presiederà, dalle ore 10.30, in Piazza San Pietro.

L'infanzia nell'alveo della teologia

Sulla vita dei più piccoli, la statistica riporta numeri “agghiaccianti”: “Circa 400 milioni di bambini vivono in zone di conflitto e 13mila muoiono ogni giorno per cause che potremmo evitare”, ha commentato padre Spadaro, a margine della lectio magistralis del cardinale De Mendonça. Secondo il porporato serve, dunque, una teologia inclusiva, che comprenda i bambini: “Troppe volte - riferisce ancora la sua lezione - nel corso della storia, abbiamo concepito la teologia come un discorso prevalentemente astratto, lontano dalla carne viva della storia. L’infanzia, nella sua realtà più nuda e fragile, può e deve essere assunta come un vero e proprio locus theologicus”.

L'alleanza tra Chiesa e famiglia

Il posto legittimo dei bambini è, dunque, nel seno della teologia e nell’abbraccio spirituale della Chiesa. “I piccoli - ha detto Gleison De Paula Souza, segretario del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita - ci ricordano che la Chiesa è madre e in quanto tale si sente a tutti gli effetti responsabile della loro tutela, della loro protezione e della loro crescita umana e spirituale. È una missione che la Chiesa condivide con i genitori e le famiglie che stanno dietro a ogni bambino”.

Ogni bimbo è un seme che sboccerà

“Dalle mie latitudini - ha detto don Michele Gianola, delegato nazionale Cei per il Pontificio Comitato per la Giornata Mondiale dei Bambini, moderando gli interventi del simposio - si dice che sotto la neve c’è il pane, perché il seme posto nella terra è custodito dalla coltre di neve invernale finché sboccia in primavera. Infanzia e adolescenza vanno guardati in questa prospettiva, come dono e come compito: il compito di custodire e far sbocciare il seme di vita seminato in ogni bambino”.

L'infanzia, un'invenzione del Cristianesimo

La stessa infanzia, del resto, è novità antropologica introdotta nella storia proprio dalla Chiesa. “L’essere bambino è stato inventato nel I secolo d. C., quando i nuovi valori del Cristianesimo hanno separato adulti e piccini attraverso il concetto di pudore e quello di responsabilità”, ha spiegato la professoressa Marina D’Amato, docente di Sociologia dell’Infanzia all’Università di Roma Tre. "Nel Mondo antico precristiano le persone continuavano a fare, nella loro età adulta, le stesse cose che facevano da piccoli, senza pudore - ha proseguito la sociologa -. Il cristianesimo, poi, ha distinto un’età umana in cui non si ha la responsabilità delle proprie azioni, l’infanzia appunto, da quella in cui si è invece pienamente responsabili”.

Bambini raccolti intorno a Papa Francesco durante la GMB del 2024.

Sotto le bombe a Gaza, in Sudan e in Ucraina

Uno sguardo sul mondo contemporaneo è stato offerto dalla scrittrice Dacia Maraini che ha evidenziato i troppi luoghi in cui i minori vengono tutt’altro che custoditi: “I bambini che muoiono sotto le bombe, a Gaza, in Sudan, in Ucraina, non sono solo tragedie lontane: sono ferite che incrudeliscono sull’umanità intera. Credo che la Chiesa, con Papa Francesco e oggi con Papa Leone, abbia avuto il coraggio di rimettere i bambini al centro del discorso etico. Ha avuto l’ardire – ha concluso la scrittrice - di mettere in risalto le loro ferite, di denunciare gli abusi, di confrontarsi con chi subisce e chi tace impaurito”.
(fonte: Vatican News, articolo di Daniele Piccini 30/05/2025)


DIECI ANNI DI LAUDATO SÌ

DIECI ANNI DI LAUDATO SÌ, 
Custodire insieme la casa cumune


Il 24 maggio si è celebrato il 10° anniversario dell’enciclica Laudato Si’, il testo con cui papa Francesco ha richiamato l’umanità a prendersi cura della casa comune, intrecciando ecologia, giustizia sociale e spiritualità. Questa enciclica ha avuto un impatto senza precedenti sulla coscienza collettiva globale, richiamando l’attenzione del mondo civile sull’urgenza di una conversione ecologica integrale. A dieci anni dalla sua pubblicazione, la Chiesa in tutto il mondo si sta mobilitando con eventi, momenti di preghiera, azioni concrete e iniziative di sensibilizzazione per celebrare questo importante anniversario e rinnovare l’impegno per un cambiamento urgente e profondo.

Come ha detto il Cardinale Michael Czerny, prefetto del DSSUI, in una recente intervista:

“Nel contesto del Giubileo della speranza 2025, questo decimo anniversario sarà un momento per celebrare ciò che è stato raggiunto e per rendere grazie a Dio. Un momento per promuovere l’enciclica tra i cattolici e le persone di ogni fede che non la conoscono. Un tempo per piangere – e lottare – con coloro che soffrono, emarginati o impoveriti, a causa dei danni inflitti alla Terra e dei meccanismi economici ingiusti.”

Emanata nel 2015 da Papa Francesco, l’Enciclica Laudato Si’ risulta ancora molto attuale, denunciando il degrado ambientale, la perdita di biodiversità, l’inquinamento ed il cambiamento climatico, oltre che l’incombente crisi sociale. La necessità dell’impiego immediato ed attivo di un modello sostenibile, innovativo e solidale risuona oggi più forte che mai.

Questo decennio ha visto la nascita di numerose iniziative globali, come il Laudato Si’ Movement, una rete di cattolici che camminano insieme nella sinodalità e nella comunione con la chiesa universale verso un sentiero di conversione ecologica. Guidati dallo spirito di sussidiarietà, portano avanti la missione: prendersi cura della nostra casa comune.

In questa stessa ottica, il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale ha lanciato nel 2021 la Laudato Si’ Action Platform, per accompagnare concretamente i partecipanti in un percorso sostenibile attraverso obiettivi ispirati all’enciclica. La piattaforma offre alle istituzioni ed alle organizzazioni cattoliche numerose risorse, buone pratiche e percorsi per implementare i principi dell’ecologia integrale quotidianamente. É stato lanciato in questi giorni un aggiornamento del sito e un nuovo programma di certificazioni per le istituzioni, tramite le quali viene riconosciuta pubblicamente la partecipazione attiva degli utenti alla Piattaforma di Iniziative Laudato Si’.

Il decimo anniversario è quindi un’occasione unica per rilanciare l’impegno per la nostra casa comune, missione alla quale tutti siamo chiamati a partecipare attivamente, anche in vista della Giornata Mondiale di preghiera per la Cura del Creato, il 1° settembre 2025.

Visita il sito Raisinghope per partecipare e condividere le iniziative nate in occasione del decimo anniversario, o iscrivi il tuo progetto ecologico sulla Laudato Si’ Action Platform, per continuare a costruire insieme un futuro più giusto e sostenibile alla luce della Laudato Si’. (Caritas.it)
(fonte: VATVISION, articolo di Marianna Costanzi, 26/05/2025)

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Laudato si', dieci anni 
dal "grido" di Francesco per la cura della Casa comune


Era il 24 maggio 2015 quando Papa Francesco dava alle stampe l'enciclica sociale sul tema dell'ecologia integrale, quale nuovo paradigma di giustizia per una Terra, dono di Dio, troppo spesso maltratta, saccheggiata e sfigurata da coloro che la abitano. Un documento, il cui titolo è tratto dal "Cantico delle Creature" di San Francesco, divenuto immediatamente caposaldo del magistero del Pontefice argentino nonché punto di riferimento per molteplici iniziative a favore della natura e ispirazione per programmi politici e sociali. Il documento raccoglie, in un’ottica di collegialità, diverse riflessioni delle Conferenze Episcopali del mondo e si conclude con due preghiere, una interreligiosa ed una cristiana, per la salvaguardia del Creato. Nei suoi sei capitoli la preoccupazione per il Creato si unisce all'appello per l’equità verso i poveri, all’impegno nella società, all'invito ad una pace interiore. Forte il richiamo del Papa ad una “conversione ecologica”, ad un “cambiamento di rotta” affinché l’uomo si assuma la responsabilità di un impegno per “la cura" di questa casa donata dal Signore. Impegno che scaturisce dalla stessa fede cristiana. Il "grido" di Francesco otto anni dopo è stato rilanciato dalla Laudate Deum, l’esortazione apostolica ancora di Francesco che specifica e completa l’enciclica del 2015, in cui il Papa constata la reazione e l'azione insufficienti e ribadisce l'allarme di un imminente "punto di rottura".
(A cura di Salvatore Cernuzio. Video realizzato dalla Redazione Multimedia)

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Joshtrom Isaac Kureethadam*
Origine, impatto
e prospettive dell’enciclica
di Papa Francesco sulla cura della casa comune


Quando Papa Francesco ha preso il nome di san Francesco d’Assisi, ci si aspettava che il suo pontificato sarebbe stato un punto di svolta nel campo della cura del creato. Papa Bergoglio non ha deluso. Come il suo santo omonimo, la cui conversione iniziò quando udì la voce del Signore crocifisso nella fatiscente cappella di San Damiano che gli diceva: «Francesco, va’ a riparare la mia casa che, come vedi, sta andando in rovina—, Papa Francesco, nella Laudato si’, si è proposto di riparare la nostra casa planetaria che si sta sgretolando.

Appena due settimane dopo la pubblicazione della Laudato si’, avvenuta il 18 giugno 2015, Dale Jamieson, professore di studi ambientali e filosofia alla New York State University la definì «il testo ambientale più importante del XXI secolo». Guardando all’impatto della storica lettera enciclica di Papa Francesco sulla cura della nostra casa comune a dieci anni dalla sua pubblicazione, l’affermazione profetica di Jamieson sembra essersi avverata. Laudato si’ ha avuto un impatto notevole sul modo in cui le persone guardano e si prendono cura della nostra casa planetaria.

Un contributo notevole dell’enciclica in ambito internazionale è stato il suo ruolo nel facilitare la firma dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015 (Cop21). Lo stesso Papa Francesco ha ammesso di aver programmato la pubblicazione dell’enciclica per influenzare l’esito della cruciale conferenza della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Parigi nel dicembre 2015, dopo il disastroso fallimento del vertice di Copenaghen del 2009 (Cop15).

Come ha detto Papa Francesco ai giornalisti che lo accompagnavano sul volo dallo Sri Lanka alle Filippine il 16 gennaio 2015, voleva che l’enciclica uscisse abbastanza presto in modo che «ci fosse un po’ di tempo tra la pubblicazione dell’enciclica e l’incontro di Parigi» per aiutare i delegati a «essere più coraggiosi». La Cop15 ha portato all’Accordo di Parigi, che è stato ampiamente riconosciuto come dovuto in parte alla pubblicazione tempestiva della Laudato si’, a partire dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon.

La Laudato si’ ha avuto un effetto a catena anche all’interno della comunità interreligiosa. Ha ispirato la Rabbinic Letter on the Climate Crisis, la Islamic Declaration on Global Climate Change, la Buddhist Climate Change Statement to World Leaders e Bhumi Devi Ki Jai! A Hindu Declaration on Climate Change, tutte pubblicate nel 2015.

La Laudato si’ ha determinato un enorme cambiamento di paradigma almeno su due fronti. In primo luogo, ha ampliato la portata delle nostre discussioni sulla crisi ecologica. Laudato si’ non è un documento “ambientale” qualsiasi. È significativo che l’enciclica porti il sottotitolo Sulla cura della nostra casa comune. Papa Francesco ha ricordato al mondo che non abbiamo a che fare solo con problemi ambientali, ma con una crisi che riguarda la nostra casa comune. L’enciclica ha avuto un impatto significativo sull’immaginario collettivo mondiale proprio perché coglie la drammatica urgenza del nostro attuale momento storico, ossia la minaccia alla nostra casa comune.

Un secondo cambiamento di paradigma determinato dalla Laudato si’ è evidente nel nuovo linguaggio di Papa Francesco dell’ecologia integrale. Egli ci ricorda che «che l’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra» (Laudato si’, 66).

Nello spirito dell’ecologia integrale, Papa Francesco ci invita ad «ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri” (Laudato si’, 49). La lente ecologica integrale aiuta Papa Francesco a diagnosticare e identificare le molteplici radici dello stato precario della nostra casa comune, che egli raggruppa sotto l’ombrello del paradigma economico-tecnocratico dominante. Nello spirito dell’ecologia integrale, Francesco chiede una risposta unitaria che coinvolga tutti e che metta insieme politica ed economia, collaborazione regionale e internazionale, educazione e religione, nonché conversione ecologica e spiritualità.

La missione di prendersi cura della nostra casa comune è oggi più importante che mai, poiché le grida della terra, dei poveri e dei bambini sono diventate sempre più forti. Come ha riconosciuto lo stesso Papa Francesco nell’esortazione apostolica Laudate Deum del 2023, «la situazione sta diventando ancora più urgente» (Laudate Deum, 4). Ha scritto: «Sono passati ormai otto anni dalla pubblicazione della Lettera enciclica Laudato si’, quando ho voluto condividere con tutti voi, sorelle e fratelli del nostro pianeta sofferente, le mie accorate preoccupazioni per la cura della nostra casa comune. Ma, con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. (Laudate Deum, 2).

La sfida è enorme. Come ha detto spesso Papa Francesco, «abbiamo ereditato un giardino dal Creatore, non possiamo lasciare un deserto ai nostri figli». La Provvidenza ci ha benedetto con Papa Leone XIV, un pastore che ha vissuto in prima persona le sfide ecologiche e le crisi socio-economiche del nostro tempo in Perú e intorno al mondo. In occasione di una conferenza tenuta in Vaticano nel  2024 sulle sfide ecologiche, l’allora cardinale Robert Francis Prevost affermò che era giunto il momento di passare «dalle parole ai fatti». Frate Leone era molto vicino a san Francesco d’Assisi e condivideva profondamente l’amore del santo per i poveri e per tutte le creature. Come amico intimo e scriba di san Francesco, frate Leone ha svolto un ruolo importante nel preservare gli insegnamenti e gli scritti del santo, compreso il Cantico delle creature, che celebra la bellezza e l’interconnessione di tutto il creato.

Proprio come frate Leone ha ricevuto e lasciato in eredità a noi il patrimonio spirituale di frate Francesco, preghiamo che Papa Leone XIV possa ereditare e trasmettere alla Chiesa e al mondo la preoccupazione e la leadership di Papa Francesco nella cura del creato. La posta in gioco non potrebbe essere più alta, poiché viviamo in un’epoca di emergenza planetaria senza precedenti.

*Direttore dell’Istituto di Scienze Sociali e Politiche all’Università Pontificia Salesiana

(fonte: L'Osservatore Romano 23/05/2025)

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#ottimista o pessimista? - Gianfranco Ravasi

#ottimista o pessimista?
Gianfranco Ravasi


Sia l’ottimista, sia il pessimista danno un loro contributo alla società. 
L’ottimista inventa l’aeroplano, il pessimista il paracadute.

È noto che lo scrittore inglese, nato però a Dublino nel 1856, George Bernard Shaw intingeva spesso la sua penna nell’inchiostro dell’ironia, come accade nell’aforisma che abbiamo citato, destinato a far abbracciare due figure poste agli estremi della vita sociale. Un altro autore inglese, Gilbert K. Chesterton, operava lo stesso confronto ricorrendo alla considerazione che aveva raccolto – almeno così egli confessava – da una ragazzina: «Un ottimista è un uomo che vi guarda negli occhi, un pessimista è invece un uomo che vi guarda i piedi». Certo è che una società monocolore, popolata solo di ottimisti, è votata all’illusione e alla conseguente delusione, così come quella affollata soltanto di pessimisti è destinata a trascinare un’esistenza lamentosa e insoddisfatta.

In realtà, come supponeva Shaw, è necessario in tutte le vicende umane un dosaggio sapiente di fiducia e di realismo per poter procedere nella storia. Tendenzialmente chi è al potere è orientato a mostrare solo le luminose e progressive sorti verso cui siamo condotti, mentre chi è all’opposizione, e più in generale, è tra la gente comune, è spinto spontaneamente a segnalare le pecche, i limiti, le deficienze del vivere quotidiano. L’ottimista talora proclama che siamo nel migliore dei mondi possibili e il pessimista teme che possa essere vero. In ultima analisi, è la spezia ben dosata della critica intelligente a ridimensionare la deriva sognante ottimistica e la corsa verso un ipotetico baratro annunciato dal pessimista. Quest’ultimo, però, scriveva Rex Stout, il creatore del detective Nero Wolfe, «ha un vantaggio, egli può andare incontro solo a sorprese piacevoli, mentre l’ottimista ne avrà soltanto di spiacevoli».

(Fonte: “Il Sole 24 Ore - Domenica” - 25 maggio 2025)

giovedì 29 maggio 2025

Il cuore inquieto della Chiesa di Vito Mancuso

Il cuore inquieto della Chiesa 
di Vito Mancuso

Il pontefice invita all’amore e all’unità 
ma riconosce anche che i fedeli 
devono sapersi immergere nella Storia



(Pubblicato su La Stampa - 19 maggio 2025)

È stata molto bella nella sua semplicità, chiarezza e brevità, l’omelia di papa Leone XIV per la Messa d’inizio pontificato. Quanto però ai miei occhi la rende particolarmente preziosa è stato l’aver delineato, senza formularlo esplicitamente ma facendolo sorgere dal basso, il problema fondamentale che il suo pontificato dovrà da subito e per lungo tempo affrontare. Quale? Quello che sorge inevitabilmente dalla strutturale dialettica tra i due concetti più importanti dell’omelia: inquietudine e unità. C’è anche un terzo concetto che gioca un ruolo rilevante, l’amore, e non poteva che essere così per un agostiniano, ma l’amore qui è al servizio dell’unità, quindi non fa che rafforzare il centro concettuale vero e proprio del discorso consistente nella dialettica di inquietudine e unità …

L’inquietudine incornicia l’omelia papale, è il primo e l’ultimo concetto evocato, appare subito dopo i saluti di rito e ritorna alla fine nelle ultime parole. All’inizio il Papa riporta il celebre incipit delle Confessioni del “suo” sant’Agostino che a Dio si rivolgeva così: “Ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”, celebre testo che merita di essere ricordato anche nella bellezza dell’originale latino: “Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te” (io sogno che la prima enciclica di papa Leone si intitoli proprio così: Cor inquietum). L’inquietudine ritorna alla fine, quando Leone afferma che occorre costruire una Chiesa “che si lascia inquietare dalla storia”. Un cuore inquieto, quindi, anzi tanti cuori inquieti, quelli di tutti noi esseri umani, e una Chiesa che si apre alle molteplici inquietudini di questi nostri cuori.

L’altro concetto, l’unità, è il messaggio maggiormente ribadito, al punto da identificare “il nostro primo grande desiderio”, come si esprime il Papa, con “una Chiesa unita, segno di unità”
Il brano evangelico letto durante la Messa riguardava san Pietro e papa Leone parlando di Pietro parlava ovviamente di sé in quanto successore di Pietro, affermando in questa prospettiva la centralità assoluta dell’amore “di” Dio e dell’amore “per” Dio: di un amore cioè che scende dall’alto e viene ricevuto da Pietro (ovvero dal Papa), e di un amore che sale dal basso e viene manifestato da Pietro (ovvero dal Papa). Se questo amore non c’è, non si può fare il Papa, afferma Leone, perché “il ministero di Pietro è contrassegnato proprio da questo amore oblativo”. Si tratta di un amore, però, che è funzionale all’unità, che si esplica come servizio all’unità e all’armonia dei fratelli, a quell’azione che il vangelo descrive dicendo “pasci i miei agnelli”.
 L’amore di Dio e l’amore per Dio diviene quindi per il Papa amore per la Chiesa e la sua unità.

Eccoci dunque al punto critico: 
com’è possibile tenere insieme le due dimensioni dell’inquietudine e dell’unità? Come aprirsi alle inquietudini del mondo e custodire l’unità della Chiesa? In che modo la Chiesa potrà lasciarsi inquietare dal mondo e al contempo essere testimone di un amore che le proviene da Dio? Come conciliare le inquietudini che provengono dal basso con la missione che proviene dall'alto? Come far convivere un cuore inquieto per i drammi della storia e una mente sicura che proclama gioiosa il credo cattolico con tutti i suoi dogmi? Il concetto di unità rimanda al rapporto della Chiesa con se stessa, il concetto di inquietudine, invece, rimanda al rapporto della Chiesa con il mondo: ma è possibile per una Chiesa che si rapporta al mondo lasciandosi inquietare mantenere poi la sua unità? Ecco la sfida che attende Leone XIV: comporre “cor inquietum” e unità ecclesiale.

Il più delle volte lungo la storia della Chiesa le inquietudini del cuore, e di conseguenza della mente, sono state represse per favorire l’armonia, o meglio l’armonizzazione, e così produrre un’unità per lo meno di facciata. Il che è avvenuto proprio a partire da sant’Agostino, durissimo nel reprimere non senza violenza le inquietudini sollevate dai donatisti e dai pelagiani. Ma venendo ai due immediati predecessori di Papa Leone si può dire che Papa Benedetto continuava la linea tradizionale che privilegia l’unità rispetto all’inquietudine, mentre Papa Francesco all’opposto sacrificava il più delle volte l’unità per privilegiare l’inquietudine. Papa Benedetto aveva così a cuore la custodia del “depositum fidei” da chiudere la porta senza esitazioni alle attese del mondo nella misura in cui si rivelavano un pericolo per la dottrina: si pensi alla lotta contro la teologia della liberazione, alla ritrosia verso il dialogo interreligioso, alla cancellazione di due secoli di esegesi storico-critica nella trilogia dedicata a Gesù in cui Benedetto sostiene la perfetta equivalenza tra il Gesù della storia e il Gesù dei vangeli. Papa Francesco invece viveva così intensamente i drammi e le sofferenze del mondo da farsene portavoce in prima persona, spesso con parole e gesti profetici inaspettati, e come tali in grado di comprendere e riesprimere l’inquietudine del mondo (che infatti si sentiva accolto dal Papa argentino e per questo l’amava), ma allo stesso tempo tali da destabilizzare l’unità e l’armonia della Chiesa, organismo per definizione portato alla conservazione e alla custodia della tradizione.

Papa Leone ha perfettamente tracciato il ritratto della missione che lo attende quando nell’omelia ha descritto così il Papa: come “un pastore capace di custodire il ricco patrimonio della fede cristiana e, al contempo, di gettare lo sguardo lontano, per andare incontro alle domande, alle inquietudini e alle sfide di oggi”. Ecco ancora una volta la dialettica: da un lato “custodire”, conservare, proteggere, ovvero stare fermi e mentalmente guardinghi; dall’altro “andare incontro”, muoversi, aprirsi, lasciarsi inquietare, cambiare posizione e assumere quella altrui per entrare veramente in empatia e quindi essere davvero capaci di accogliere. Quale delle due anime prevarrà, l’inquietudine o l’unità? Oppure Papa Leone riuscirà nell’impresa di conciliare questi poli dialettici producendo una formidabile complexio oppositorum? Io lo spero, ovviamente, e mi piace concludere sottolineando il passaggio in cui il Papa ha ricordato l'importanza di camminare insieme con le altre chiese, con le altre religioni, “con chi coltiva l’inquietudine della ricerca di Dio” e infine “con tutte le donne e gli uomini di buona volontà” per costruire un mondo nuovo in cui regna la pace. Nessun complesso di superiorità, quindi, ma al contrario uno spirito di servizio per offrire a tutti quell'amore che nell’esperienza spirituale proviene al Papa dall’amore di Dio.

(Fonte: sito dell'autore)  

Tonio Dell'Olio: La proposta di Bergamo

Tonio Dell'Olio
 
La proposta di Bergamo



PUBBLICATO IN MOSAICO DEI GIORNI  IL 20 MAGGIO 2025

La maggioranza guidata dalla sindaco Elena Carnevali a Bergamo ha proposto di conferire la cittadinanza onoraria ai minori stranieri residenti a Bergamo che abbiano completato il primo ciclo scolastico.

Continuiamo a chiamarli “stranieri” ma di fatto sono nati e cresciuti nella stessa città come gli altri. 

E non sono pochi. Sono il 17% del totale degli alunni della città, 2.232. Nell’ordine del giorno presentato, si fa riferimento alla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia che impone agli Stati di garantire a tutti i minori, senza alcuna discriminazione, i diritti fondamentali, a prescindere dalla loro origine, religione o condizione sociale. E allora che senso ha attendere i 18 anni come prevedono le leggi in vigore attualmente in Italia? 

Ed è significativo che l’atto simbolico del conferimento della cittadinanza onoraria avverrebbe ogni anno proprio il giorno 20 novembre in cui si celebra la Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Si tratta di un segnale ma – si sa – i segni sono importanti per provocare i cambiamenti.


mercoledì 28 maggio 2025

LEONE XIV UDIENZA GENERALE 28/05/2025 "Prima che una questione religiosa, la compassione è una questione di umanità! Prima di essere credenti, siamo chiamati a essere umani. - Fermare la guerra e sostenere dialogo e pace (sintesi, testo e video)

LEONE XIV

UDIENZA GENERALE 

Piazza San Pietro
Mercoledì, 28 maggio 2025

"Prima che una questione religiosa, la compassione è una questione di umanità! Prima di essere credenti, siamo chiamati a essere umani."

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All’udienza generale il rinnovato appello di Leone XIV per la fine dei conflitti a Gaza e in Ucraina

Fermare la guerra
e sostenere dialogo e pace


Un nuovo appello a «fermare la guerra e a sostenere ogni iniziativa di dialogo e di pace» è stato lanciato da Leone XIV al termine dell’udienza generale di stamane, mercoledì 28 maggio, in piazza San Pietro. Ai quarantamila presenti e a quanti erano collegati attraverso i media, il Pontefice ha parlato in particolare dell’Ucraina e della Striscia di Gaza, da dove «si leva sempre più intenso al Cielo il pianto» delle vittime di violenza, fame e sfollamenti. «Cessate il fuoco, siano liberati tutti gli ostaggi, si rispetti integralmente il diritto umanitario!» è stata l’invocazione del Papa.

All’inizio dell’udienza, il vescovo di Roma ha compiuto un lungo giro in papamobile, salutando i vari gruppi di fedeli. Quindi, proseguendo il ciclo di catechesi giubilari avviato dal predecessore Francesco sul tema «Cristo Nostra Speranza», Leone XIV si è soffermato sulla parabola del samaritano: «Prima che una questione religiosa, la compassione è una questione di umanità», ha detto il Papa; perciò «prima di essere credenti, siamo chiamati a essere umani». Davanti alla fragilità e alla debolezza dell’altro, ha aggiunto, è bene fare memoria «di tutte le volte in cui Gesù si è fermato per prendersi cura di noi».
(fonte: L'Osservatore Romano 28/05/2025)

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Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. II. La vita di Gesù. Le parabole. 7. Il samaritano. Passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione (Lc 10,33b)



Cari fratelli e sorelle,

continuiamo a meditare su alcune parabole del Vangelo che sono un’occasione per cambiare prospettiva e aprirci alla speranza. La mancanza di speranza, a volte, è dovuta al fatto che ci fissiamo su un certo modo rigido e chiuso di vedere le cose, e le parabole ci aiutano a guardarle da un altro punto di vista.

Oggi vorrei parlarvi di una persona esperta, preparata, un dottore della Legge, che ha bisogno però di cambiare prospettiva, perché è concentrato su se stesso e non si accorge degli altri (cfr Lc 10,25-37). Egli infatti interroga Gesù sul modo in cui si “eredita” la vita eterna, usando un’espressione che la intende come un diritto inequivocabile. Ma dietro questa domanda si nasconde forse proprio un bisogno di attenzione: l’unica parola su cui chiede spiegazioni a Gesù è il termine “prossimo”, che letteralmente vuol dire colui che è vicino.

Per questo Gesù racconta una parabola che è un cammino per trasformare quella domanda, per passare dal chi mi vuole bene? al chi ha voluto bene? La prima è una domanda immatura, la seconda è la domanda dell’adulto che ha compreso il senso della sua vita. La prima domanda è quella che pronunciamo quando ci mettiamo nell’angolo e aspettiamo, la seconda è quella che ci spinge a metterci in cammino.

La parabola che Gesù racconta ha, infatti, come scenario proprio una strada, ed è una strada difficile e impervia, come la vita. È la strada percorsa da un uomo che scende da Gerusalemme, la città sul monte, a Gerico, la città sotto il livello del mare. È un’immagine che già prelude a ciò che potrebbe succedere: accade infatti che quell’uomo viene assalito, bastonato, derubato e lasciato mezzo morto. È l’esperienza che capita quando le situazioni, le persone, a volte persino quelli di cui ci siamo fidati, ci tolgono tutto e ci lasciano in mezzo alla strada.

La vita però è fatta di incontri, e in questi incontri veniamo fuori per quello che siamo. Ci troviamo davanti all’altro, davanti alla sua fragilità e alla sua debolezza e possiamo decidere cosa fare: prendercene cura o fare finta di niente. Un sacerdote e un levita scendono per quella medesima strada. Sono persone che prestano servizio nel Tempio di Gerusalemme, che abitano nello spazio sacro. Eppure, la pratica del culto non porta automaticamente ad essere compassionevoli. Infatti, prima che una questione religiosa, la compassione è una questione di umanità! Prima di essere credenti, siamo chiamati a essere umani.

Possiamo immaginare che, dopo essere rimasti a lungo a Gerusalemme, quel sacerdote e quel levita abbiano fretta di tornare a casa. È proprio la fretta, così presente nella nostra vita, che molte volte ci impedisce di provare compassione. Chi pensa che il proprio viaggio debba avere la priorità, non è disposto a fermarsi per un altro.

Ma ecco che arriva qualcuno che effettivamente è capace di fermarsi: è un samaritano, uno quindi che appartiene a un popolo disprezzato (cfr 2Re 17). Nel suo caso, il testo non precisa la direzione, ma dice solo che era in viaggio. La religiosità qui non c’entra. Questo samaritano si ferma semplicemente perché è un uomo davanti a un altro uomo che ha bisogno di aiuto.

La compassione si esprime attraverso gesti concreti. L’evangelista Luca indugia sulle azioni del samaritano, che noi chiamiamo “buono”, ma che nel testo è semplicemente una persona: il samaritano si fa vicino, perché se vuoi aiutare qualcuno non puoi pensare di tenerti a distanza, ti devi coinvolgere, sporcare, forse contaminare; gli fascia le ferite dopo averle pulite con olio e vino; lo carica sulla sua cavalcatura, cioè se ne fa carico, perché si aiuta veramente se si è disposti a sentire il peso del dolore dell’altro; lo porta in un albergo dove spende dei soldi, “due denari”, più o meno due giornate di lavoro; e si impegna a tornare ed eventualmente a pagare ancora, perché l’altro non è un pacco da consegnare, ma qualcuno di cui prendersi cura.

Cari fratelli e sorelle, quando anche noi saremo capaci di interrompere il nostro viaggio e di avere compassione? Quando avremo capito che quell’uomo ferito lungo la strada rappresenta ognuno di noi. E allora la memoria di tutte le volte in cui Gesù si è fermato per prendersi cura di noi ci renderà più capaci di compassione.

Preghiamo, dunque, affinché possiamo crescere in umanità, così che le nostre relazioni siano più vere e più ricche di compassione. Chiediamo al Cuore di Cristo la grazia di avere sempre di più i suoi stessi sentimenti.
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Saluti
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APPELLO

In questi giorni il mio pensiero va spesso al popolo ucraino, colpito da nuovi, gravi attacchi contro civili e infrastrutture. Assicuro la mia vicinanza e la mia preghiera per tutte le vittime, in particolare per i bambini e le famiglie. Rinnovo con forza l’appello a fermare la guerra e a sostenere ogni iniziativa di dialogo e di pace. Chiedo a tutti di unirsi nella preghiera per la pace in Ucraina e ovunque si soffre per la guerra.

Dalla Striscia di Gaza si leva sempre più intenso al Cielo il pianto delle mamme e dei papà, che stringono a sé i corpi senza vita dei bambini, e che sono continuamente costretti a spostarsi alla ricerca di un po’ di cibo e di un riparo più sicuro dai bombardamenti. Ai responsabili rinnovo il mio appello: cessate il fuoco, siano liberati tutti gli ostaggi, si rispetti integralmente il diritto umanitario!

Maria, Regina della Pace, prega per noi!



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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare ...

Il mio pensiero va infine ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Pensando alla imminente Solennità dell’Ascensione del Signore, incoraggio ciascuno a diffondere e testimoniare, come gli Apostoli, il Vangelo di Cristo. A tutti la mia benedizione!


Guarda il video integrale




Archiviare Francesco?

Archiviare Francesco?



Una volta depositate le emozioni e svanita l’eco mediatica suscitata dalla morte di papa Francesco e dalla elezione di Leone, sento il bisogno di confessare una preoccupazione.

La seguente: che, in buona o cattiva fede, si archivi la lezione di Francesco, il senso del suo pontificato, fraintendendolo, facendone una caricatura. Non solo da parte dei suoi critici o antipatizzanti. Di qui l’esigenza di fissarne alcuni tratti fugando alcuni equivoci al riguardo, dal mio modesto, personalissimo punto di vista.

Anche per confutare la “scuola di pensiero”, che già ha preso corpo, di chi esagera (auspicandola) la discontinuità/differenza incarnata dal suo successore. A dispetto, da un lato, dagli enunciati dello stesso Leone e, dall’altro, dalla cura di attendere di meglio conoscere le sue idee e i suoi propositi.

Con (pre)giudizi francamente intempestivi e prematuri. Diamo tempo al tempo. Ferma restando l’ovvia circostanza che ciascuno ha la propria personalità, il proprio carisma, il proprio stile e che pensare a un Francesco 2.0 sarebbe fuori luogo e persino grottesco.

Il Vangelo e la sua radicalità

Alcune letture decisamente superficiali hanno dipinto Francesco come un papa tutto proteso all’esterno a discapito dell’interiorità e della cura per la Chiesa, un papa apprezzato più da “quelli di fuori” che da “quelli di dentro”, un papa dedito alle questioni sociali e politiche distratto rispetto al contenuto proprio della fede e della dottrina.

A ben vedere, si può sostenere l’esatto contrario e cioè che il suo ministero si sia caratterizzato per un massimo di concentrazione sul Vangelo e, questo sì, sulla radicalità delle sue implicazioni.

La percezione contraria semmai ne avvalora l’esigenza, attesta la diffusa ignoranza circa gli intimi nessi: ovvero che fosse quantomai necessario rimarcare tale alterità del Vangelo rispetto al senso comune e al pensiero dominante in un mondo che vive etsi Deus non daretur, un mondo che mostra di non intendere la portata di un messaggio quale “segno di contraddizione”, quale “scandalo e follia” per i pagani di oggi come di ieri.

Lo stile

Giustamente di Francesco un po’ tutti − forse con l’eccezione dei nostalgici dei rituali legati al “papa re” − hanno apprezzato lo stile umile, semplice, sobrio testimoniato da innumerevoli dettagli concernenti le sue abitudini di vita. Così pure la sua fedeltà al profilo di pastore generosamente dedito al servizio del suo gregge (celebre la metafora dell’odore di esse).

Il suo magistero si è sempre ispirato a quel registro e a quella curvatura pastorale. Altrettanto informate a quel registro le sue nomine di vescovi e cardinali. Questo aspetto ha indotto taluni a misconoscere la densità e la profondità del suo pensiero. Eppure basterebbe evocare la sua esortazione apostolica e le sue due principali encicliche.

La Evangelii gaudium, che è il manifesto del suo pontificato, rappresenta la ripresa/attualizzazione del Concilio Vaticano II; la Fratelli tutti e la Laudato si‘, tra loro complementari, che si segnalano per originalità e spessore nonché per la loro puntuale corrispondenza alle grandi sfide del nostro tempo riconducibili alla giustizia sociale e alla salvaguardia del Creato.

Per dirla con espressione conciliare e giovannea, la centratura della riflessione cristiana sui “segni del nostro tempo” accuratamente selezionati. Il profilo soggettivo di Francesco tanto amato per la sua semplicità nulla toglie alla pregnanza del suo magistero e della teologia che lo ispira.

Di nuovo, certi superficiali opinionisti, dopo l’elezione di Leone, del quale hanno rimarcato la robustezza degli studi, lo hanno opposto a un Francesco rappresentato come un buon parroco privo di dottrina. Quasi che egli non abbia portato nulla di significativo e di nuovo al magistero pontificio.
Montini-Bergoglio

Si diceva della ripresa organica del Vaticano II. È innegabile che, a monte di Francesco, il cosiddetto aggiornamento conciliare e le riforme da esso sortite abbiano conosciuto una fase di stanca se non di arretramento.

In sede teologica si è suggerito di sostituire l’“ermeneutica della riforma”, bollata polemicamente come teoria della rottura con la tradizione, con l’“ermeneutica della continuità”. Una correzione solo apparentemente lessicale che, in realtà, sottende una riserva e un ridimensionamento dell’oggettiva tensione innovatrice dell’assise conciliare.

Sia in ciò che attiene al cuore del Concilio e del pontificato di Paolo VI (pochi hanno notato quanto spesso Francesco abbia fatto esplicito rimando a Montini, specie al Montini della Evangelii nuntiandi centrata sulla sfida decisiva dell’inculturazione della fede) ovvero al rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno; sia i due temi cruciali al tempo del Vaticano II ma un po’ calati nell’attenzione degli anni a seguire: la Chiesa povera e dei poveri, nonché l’esigenza di uno “scatto profetico” nel magistero circa la pace e la guerra, con un graduale, progressivo abbandono della dottrina della guerra giusta.

Decisionismo-sinodalità

Con riguardo a un tratto soggettivo di Francesco, da più parti si è messo l’accento su un certo suo decisionismo, persino sul suo carattere impulsivo. Difficile negarlo. Un difetto? Forse.

Non è da escludere tuttavia che quel difetto possa essersi rivelato provvidenziale per affrancarlo da “lacci e lacciuoli”, opacità e resistenze di cui non è immune il “sistema vaticano” e la sua burocrazia. Ma soprattutto va osservato che la visione della Chiesa e della prassi a essa congeniale in Francesco sia connotata dalla più larga partecipazione e dalla “sinodalità”.

Una parola che, evocando il sinodo, designa l’ultimo grande impegno del suo pontificato. Solo qualche esempio: penso al Sinodo sulla famiglia per la prima volta scandito in due tempi, con il primo senza conclusioni in quanto interamente dedicato all’ascolto delle Chiese locali; penso al ruolo assegnato per la prima volta a donne nei dicasteri pontifici; penso all’ultimo episodio − impensabile prima di Francesco − dell’Assemblea sinodale della Chiesa italiana, tradizionalmente non delle più sciolte e coraggiose, con lo stop al varo di un documento finale originato da una “pacifica rivolta” dal basso dei suoi delegati insoddisfatti (va detto: cui ha acconsentito il vertice della CEI).

Il proprio di Francesco

Pur nella sostanziale continuità della Chiesa e degli stessi pontefici, ciascuno di essi porta tuttavia un proprio peculiare carisma. È innegabile che Francesco abbia rappresentato una novità in quanto uomo e pastore che veniva dal Sud del mondo. Un punto di vista prezioso per una Chiesa storicamente e culturalmente eurocentrica ed euro-occidentale.

In un tempo nel quale l’Europa è sempre meno centrale nello scenario mondiale ed altri, al Sud e all’Est, acquistano nuovo protagonismo. E la stessa Chiesa registra un’espansione soprattutto fuori dai confini dell’Europa, vecchia e stanca, nella quale la scristianizzazione non conosce soste.

A mio avviso, sono semmai un’opportunità e un servizio reso all’Occidente − da taluni rappresentato come il regno del bene opposto al regno del male − quello di una Chiesa coscienza critica di esso, che contribuisca a custodire il portato buono della sua civilizzazione cui la Chiesa stessa ha concorso (diritti umani, Stato di diritto, democrazia liberale), ma che non esiti a denunciarne limiti e responsabilità verso le civiltà e le culture altre.

Celiando ma non troppo, taluni hanno fatto assurgere Francesco a solitario “leader morale” della sinistra in una stagione nella quale le sinistre, in Europa e nel mondo, scontano una crisi culturale e politica e non esprimono leadership autorevoli. Si spiega. Lo ha fatto lo stesso Bergoglio in più circostanze con riguardo ai suoi pronunciamenti in tema di pace e guerra, di critica al capitalismo e all’economia dello scarto, di commercio delle armi, dello scandalo della povertà e delle macroscopiche disuguaglianze, delle politiche di respingimento dei migranti, di inerzia colpevole verso il cambiamento climatico.

Francesco − alla stregua di La Pira − ha replicato che a ispirarlo non è Marx ma il Vangelo. Come contestarlo? E tuttavia segnalo che egli su certe certezze della cultura woke ha manifestato riserve e obiezioni che non sono da bollare come dal sapore retrò. Certo, esse si situano in una linea di continuità rispetto al magistero tradizionale, ma forse possono essere lette anche in altre due chiavi.

La prima: scavare alla radice individualistica di certi asseriti diritti a ben vedere in contrasto con una concezione della libertà non refrattaria alla relazione e ai vincoli di solidarietà cui la stessa sinistra dovrebbe essere sensibile. La seconda: segnalare come, nell’agenda politica di chi si propone di corrispondere alle “attese della povera gente”, vi sono altre priorità rispetto a quelle, pur degne, care a circoscritte minoranze acculturate.

La teologia del popolo respirata da Francesco e la sua attenzione al protagonismo dei movimenti popolari impegnati all’elevazione sociale degli umili può rendere ragione di una sua distanza critica dall’elitarismo della cultura woke.

Un papa per il popolo

Per tutte le menzionate ragioni e altre ancora, è facile comprendere perché Francesco abbia fatto breccia nel cuore del popolo, credente e non, della gente semplice, delle periferie umane e sociali, e, invece, abbia incontrato diffidenze e ostilità nell’establishment.

Gli uni lo hanno sentito come uno di loro, uno che stava dalla loro parte; gli altri come uno fuori dagli schemi, scomodo, alieno. Se ne è avuta un’immagine plastica al suo funerale: nelle prime file i potenti che in vita per lo più non gli hanno dato ascolto; in piazza e lungo via della Conciliazione il popolo che partecipava al lutto con sincera, intensa commozione.

Di nuovo non sorprende che l’establishment abbia avvertito il senso di una sua alterità, quella che corrisponde alla “differenza evangelica” rispetto ai parametri del mondo e segnatamente del mondo che conta.

Né sorprende, come si è accennato, che i media che danno voce a quel mondo abbiano avviato da subito una campagna volta ad accreditare l’idea che finalmente Leone è e sarà l’opposto di Francesco – da archiviare come un papa sprovveduto, incolto, bizzoso.

Non un buon servizio a Leone che, ho ragione di pensare, ne smentirà le attese non del tutto disinteressate.
(fonte: Settimana News, articolo di Franco Monaco 24/05/2025)


#indifferenza - Gianfranco Ravasi

#Indifferenza 
Gianfranco Ravasi


L’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza. L’opposto dell’educazione non è l’ignoranza, ma l’indifferenza. L’opposto dell’arte non è la bruttezza ma l’indifferenza. L’opposto della giustizia non è l’ingiustizia, ma l’indifferenza. L’opposto della pace non è la guerra, ma l’indifferenza alla guerra. L’opposto della vita non è la morte, ma l’indifferenza alla vita e alla morte.

Sono parole che lo scrittore Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace nel 1986, pronunciò il 12 aprile 1999 alla Casa Bianca, invitato dal presidente Clinton. La forma quasi litanica è incisiva e potrebbe essere allungata a dismisura. L’indifferenza è una sorta di nebbia che confonde e sfigura ogni verità, è una superficialità che si alimenta solo di banalità e di stereotipi, è la ricusazione di ogni impegno severo e faticoso, è un’assuefazione che s’adatta a ogni dittatura sociale e politica. Apparentemente inoffensiva, l’indifferenza è come un efficace distillato di veleno che paralizza la coscienza.

Sulla rivista «La città futura» l’11 febbraio 1917 Antonio Gramsci scriveva: «L’indifferenza è il peso morto della storia, è la materia inerte che opera passivamente, ma opera… È una malattia morale che può essere anche una malattia mortale». Wiesel in quel discorso, come antidoto proponeva il «fare memoria». Infatti, è la smemoratezza nei confronti dei grandi valori e della stessa nostra eredità culturale che appiattisce e impoverisce la persona e la società. L’indifferenza, poi, diventa spesso complicità. È ciò che suggeriva Liliana Segre, in un suo intervento del 2019:
«L’indifferenza racchiude la chiave per comprendere la ragione del male, perché quando credi che una cosa non ti tocchi o ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore».

(Fonte:  “Il Sole 24 Ore - Domenica”  -  18 maggio 2025)