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venerdì 16 maggio 2025

Che papa sarà Leone XIV? È la domanda che tutti si pongono di Bruno Forte

Che papa sarà Leone XIV? 
È la domanda che tutti si pongono 
di Bruno Forte



Che Papa sarà Leone XIV? È questa la domanda che oggi molti si pongono, alcuni già catturati dalla Sua capacità di comunicare con la gente, altri timorosi di possibili passi indietro rispetto alle scelte di Papa Francesco, altri ancora sospettosi riguardo a ipotetiche riforme, ritenute di rottura con il passato. In realtà, nessuna di queste aspettative coglie nel segno, proprio perché ognuna sembra ispirata dal pregiudizio di portare questo Papa sulle proprie posizioni. Come va interpretata, allora, la sua figura? La risposta non può che rifarsi a quello che Robert Francis Prevost è stato ed è come cristiano convinto proveniente dal Nord del mondo, che ha servito con passione i poveri del Sud del mondo e si è trovato al centro della cristianità, a promuovere la comunione fra tutte le Chiese del villaggio globale sotto la guida del comune Pastore, il Successore di Pietro. 
Egli è anzitutto l’uomo del dialogo e della relazione vera.

Lo è nel rapporto con Dio: da discepolo di sant’Agostino, appartenente all’ordine religioso ispirato al pensiero e all’opera del grande vescovo di Ippona, Prevost è in primo luogo un uomo di preghiera, innamorato della Parola di Dio, continuamente alimentato da essa, nella continuità della lettura che ne hanno fatto i Padri della Chiesa, i teologi e gli spirituali di tutti i tempi. Per lui la preghiera è anzitutto la via per conoscere sé stessi e corrispondere al disegno di Dio su di noi, come afferma Agostino: “Non andare fuori di te, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità” (De Vera religione 39, 72). Per lui pregare significa amare Dio e lasciarsi amare da Lui: “Abbracciando Dio che è amore, abbracci Dio per amore” (De Trinitate 8, 8, 12). Pregare è unirsi al Figlio amato, che tutto trasfigura e redime: “Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te” (Confessioni X, 28, 39). Pregare è entrare in rapporto col Dio vivente, il solo che può dirci parole vere d’amore: “La tua preghiera è la tua parola rivolta a Dio. Quando leggi è Dio che ti parla; quando preghi sei tu che parli a Dio” (Enarrationes in Psalmos, 85,7). Da discepolo di Agostino, Robert Francis Prevost attinge dall’ascolto della Sua Parola, dal silenzio meditativo e dalla risposta maturata in esso, la luce e la forza delle sue scelte, che – per quanto possano apparire diverse e molteplici – sono unificate da quest’unico, profondissimo amore.

In secondo luogo, la vita del nuovo Papa è stata interamente spesa nel dialogo con gli altri: lo mostra la sua scelta di far parte di una comunità religiosa, l’Ordine di sant’Agostino, di cui è stato anche per due mandati priore generale, coltivando rapporti di rispetto, di fraternità e di amicizia con tutti; lo mostrano gli anni vissuti nell’insegnamento e nello studio, dialogando con i grandi Autori del passato e con i giovani, futuro del nostro presente; lo mostra il lungo tempo speso in Perù al servizio dei più poveri fra i poveri, dandosi a loro e camminando con loro senza riserve, condividendo gioie e dolori, speranze e attese, denunce e risultati, spesso faticosamente raggiunti. Ha portato a Dio la voce dei poveri e ai poveri la voce di Dio, percorrendo con loro i sentieri a volte impervi dell’impegno per la giustizia, nella certezza di essere accompagnati e sostenuti dall’amore più grande di ogni prova o sconfitta: “La preghiera è un grido che si leva al Signore… Se si grida col cuore, per quanto la voce del corpo resti in silenzio, il grido, impercettibile all’uomo, non sfuggirà a Dio” (ib., 118, 29). Con tutti, specialmente i piccoli e i poveri, il missionario agostiniano oggi Papa ha intessuto relazioni vere, fatte di ascolto, di parole dette per amore, di lacrime, di sorrisi, di lotte e di festa.

Questo dialogo ha rappresentato per lui il volto concreto della Chiesa, voluta da Gesù perché fosse casa di accoglienza e di comunione per tutti: “Nostro sacerdote, Cristo prega per noi; nostro capo, egli prega in noi; nostro Dio, noi lo preghiamo; riconosciamo in lui le nostre voci, e la sua voce in noi” (ib., 85,1). Prevost ha voluto impegnarsi come uomo di dialogo con tutti, in ambito intra- ecclesiale come in campo ecumenico e interreligioso, al servizio della causa di un mondo migliore per tutti: il suo Agostino, nutrito di dialogo sin dalla giovinezza, sempre pronto a discutere con altri dei problemi che lo angustiavano, grazie alla sua attitudine speculativa ha fatto del dialogo la via privilegiata della ricerca della verità, come mostrano ad esempio i Soliloquia e le Confessioni. Quest’atteggiamento è stato e sarà prezioso nell’ispirare l’impegno di Robert Francis Prevost nel dialogo su tutti i fronti, dove possa essere necessario.

A questo punto appare perfino deviante domandarsi se Leone sarà un Papa moderno o un tradizionalista, se promuoverà le riforme o sarà un conservatore, o – peggio ancora – se sarà di destra o di sinistra. Penso che l’intero impegno della sua esistenza nei vari campi in cui si è esercitato dimostri come egli non abbia mai voluto lasciarsi imprigionare in caselle prefabbricate, muovendosi invece nella libertà dei figli di Dio, che tutto valutano in rapporto al primato della verità e dell’amore. Ancora una volta una citazione di Agostino può farlo comprendere più di tanti astratti ragionamenti o di deduzioni pregiudiziali: “La carità geme, la carità prega; di fronte ad essa colui che l’ha data non può chiudere le orecchie. Sta sicuro, la carità stessa prega; e ad essa sono intente le orecchie di Dio” (Commento alla I Lettera di Giovanni, 6.8). 
Se ti doni per gli altri la tua vita è ben spesa e l’Eterno la benedice. Ciò che conta è amare. Il resto è polvere che il vento prima o poi disperde e che può solo continuare a offuscare gli occhi di chi non vuol vedere.

(Fonte: “La Stampa” - 11 maggio 2025)

giovedì 15 maggio 2025

José “Pepe” Mujica, un uomo comune straordinario - Un’altro Faro si è spento in America Latina. È morto Pepe Mujica, il presidente povero grande amico di Papa Francesco - Pepe Mujica, una vita coerente e piena di senso

José “Pepe” Mujica, un uomo comune straordinario

Morto martedì 13 maggio 2025  a 89 anni, l'ex presidente dell'Uruguay viene ricordato e raccontato con commozione e ammirazione trasversali

José Mujica nella sua fattoria alla periferia di Montevideo, Uruguay, 25 gennaio 2023 (AP Photo/Matilde Campodonico)

È stato spesso definito «il presidente più povero del mondo» perché dopo la sua elezione alla presidenza dell’Uruguay, nel 2009, continuò a vivere in una piccola casa vicino alla capitale Montevideo, continuò ad andare al lavoro con il suo Maggiolino blu del 1987 e a volare in classe economica decidendo di devolvere quasi il 90 per cento del proprio stipendio mensile in beneficenza. Ma al di là del suo stile di vita spartano furono la vita degna di un romanzo e i risultati positivi della sua presidenza ad aver reso José “Pepe” Mujica, che è morto (ieri) martedì 13 maggio 2025. In queste ore Mujica è stato ricordato e raccontato da molti. È stato detto come fosse un uomo allo stesso tempo potente e umile, visionario e popolare. Ed è stato descritto come lontano dalle ideologie perché, nonostante la sua provenienza politica, non aderì mai al socialismo del XXI secolo proclamato da Hugo Chávez in Venezuela e portato avanti da altri leader sudamericani.

Ne condivideva, in parte, il programma e la lotta antimperialista, ma non l’impostazione ideologica: «Una delle principali fonti di conoscenza è il senso comune» disse ai due giornalisti uruguaiani Andrés Danza e Ernesto Tulbovitz, autori di un libro a lui dedicato (Una oveja negra al poder, “Una pecora nera al potere”): «Il problema è quando metti l’ideologia al di sopra della realtà. La realtà ti arriva come un pugno e ti fa rotolare per terra… Io devo lottare per migliorare la vita delle persone nella realtà concreta di oggi e non farlo è immorale. Questa è la realtà. Sto lottando per degli ideali, ok; ma non posso sacrificare il benessere della gente per degli ideali».

Mujica è stato raccontato come un uomo «modesto ma coraggioso», come scrisse il settimanale britannico Economist, non attratto né affascinato dal potere. Che dimostrò, anzi, come il potere si potesse conciliare con la fedeltà alle proprie convinzioni e che il potere lo seppe usare. Bene, secondo molti, poiché quando lasciò la presidenza l’Uruguay era un paese più libero, più prospero e con meno povertà. Nonostante i suoi detrattori lo accusassero talvolta di avere uno stile troppo diretto fu proprio questa sua autenticità a renderlo gradito in modo piuttosto trasversale. Non cercò mai di agire seguendo il consenso né di accontentare tutti, impegnandosi solo a difendere ciò che riteneva giusto. Su di lui sono stati girati film e documentari (Pepe Mujica, una vita suprema di Emir Kusturica, o Compañeros, che raccontava i suoi anni di carcere, tra gli altri) e sono stati scritti moltissimi libri.

José Mujica è stato il quarantesimo presidente dell’Uruguay, un piccolo paese pioniere nella creazione dello stato sociale e la cui storia è stata oscurata da una dittatura, prima civile e poi militare, che è durata dal 1973 al 1985. Nato nel 1935, rimasto orfano di padre a otto anni e cresciuto in quella che lui stesso definì una «dignitosa povertà», Mujica fu innanzitutto un guerrigliero di sinistra che dagli anni Sessanta scelse di dedicarsi alla lotta armata con il movimento dei Tupamaros, un’organizzazione ispirata al marxismo e che si rifaceva agli obiettivi della Rivoluzione cubana. Mujica, in quegli anni, venne ferito sei volte in scontri armati e arrestato quattro. Evase di prigione due volte e trascorse in carcere un totale di circa quindici anni.

Venne imprigionato nel 1972 trascorrendo in isolamento la maggior parte del tempo, nove anni, inclusi i due in cui fu confinato in una buca scavata nella terra dove condivideva lo spazio con topi e rane. Subì torture, privazioni, malattie e in seguito confessò che la punizione peggiore fu per lui quella di essere privato dei libri. «A volte, il dolore è una cosa positiva se si è in grado di trasformarlo in qualcos’altro», dirà Mujica agli studenti dell’American University di Washington nel 2014. La prigione, proseguì in quell’occasione, «è stata brutta, ma allo stesso tempo ho ritrovato me stesso. Se mai vi dovesse succedere qualcosa, cercate di ricordare che siete forti, che potete ricominciare e che ne vale la pena». Mujica fu liberato solo nel 1985 grazie all’amnistia generale concessa dalle forze democratiche – che nel frattempo erano prevalse – a tutte le persone incarcerate dal regime.

José Mujica durante un’intervista a casa sua, l’8 giugno 1999 (AS/JP/FMS via Reuters)

Dopo aver abbandonato la lotta armata Mujica creò un partito, il Movimento di Partecipazione Popolare (MPP), che entrò a far parte della coalizione di sinistra Frente Amplio, decisiva per l’elezione alla presidenza del paese del socialista Tabaré Vázquez, nel 2005. Eletto deputato e poi senatore, tra il 2005 e il 2008 fu ministro per l’Allevamento, l’Agricoltura e la Pesca imponendo da subito uno stile politico differente e tutto suo che incuriosì i media di mezzo mondo: «Qualunque sia il proprio posizionamento politico è impossibile non rimanere impressionati o affascinati da José “Pepe” Mujica», scrisse ad esempio la BBC.

Lasciato il governo, nel 2008, si preparò per le successive elezioni presidenziali. A novembre 2009 venne eletto con quasi il 55 per cento dei voti spiegando di essere «più che completamente guarito dalle semplificazioni, dal dividere il mondo in bene e male, dal pensare in bianco e nero». Durante la campagna elettorale accettò di sostituire il pesante maglione che era solito indossare con un abito, ma rifiutò sempre la cravatta.

Da presidente, insieme alla moglie, la senatrice e compagna di lotte Lucia Topolansky, Mujica non volle vivere nella residenza riservata al suo ruolo nel centro di Montevideo e rimase nella sua piccola proprietà alla periferia della capitale, composta da una casa di meno di 50 metri quadrati e da un appezzamento di terra dove coltivava fiori, la cui rivendita era stata per lungo tempo il suo unico mezzo di sussistenza. Durante la forte ondata di freddo che colpì l’Uruguay all’inizio del suo mandato, inserì addirittura la residenza presidenziale nell’elenco delle strutture aperte a chi non aveva una casa.

Mujica accettò con riluttanza la scorta, ma rifiutò qualsiasi domestico. Rinunciò all’87 per cento del proprio stipendio trattenendo solo ciò che riteneva strettamente necessario per le spese correnti: meno di 1000 euro al mese. «È una questione di libertà», spiegò: «Se non si dispone di molti beni allora non c’è bisogno di lavorare tutta la vita come uno schiavo per mantenerli e quindi si ha più tempo per sé. Potrei sembrare un vecchio eccentrico, ma questa è solo una mia libera scelta».

Fu in ambito sociale che le riforme promosse da Mujica cambiarono l’Uruguay trasformandolo in un modello per l’intero continente. Nel 2012 spinse per la depenalizzazione dell’aborto, e fu un passo notevole per un paese nel quale fino a quel momento venivano puniti col carcere sia il medico che praticava l’aborto sia la donna che lo richiedeva. Nell’aprile del 2013 sotto la sua presidenza furono legalizzati anche i matrimoni tra persone dello stesso sesso e sempre nel 2013 venne legalizzata marijuana. «L’aborto è vecchio quanto il mondo», disse Mujica al quotidiano brasiliano O Globo, «e il matrimonio tra persone dello stesso sesso è più vecchio del mondo».

All’estero la sua fama continuò a fare notizia. Come si poteva, ha scritto ieri Libération, non amare un leader che poteva arrivare a una riunione del Consiglio dei ministri in sandali con i pantaloni arrotolati, o lasciare un incontro dicendo: “Mi dispiace, devo aiutare mia moglie a raccogliere le zucche”? Era «l’ultimo degli hippy», avrebbe poi detto di lui con ammirazione il presidente argentino di sinistra Alberto Fernández.

Mujica si dimostrò un oratore efficace e spontaneo. I suoi interventi alle Nazioni Unite o agli altri vertici internazionali contro il «dio mercato», la crescita sfrenata del capitalismo e a favore dell’ambiente vennero raccontati in tutto il mondo. La felicità era per lui un orizzonte politico: «Lo sviluppo deve essere a favore della felicità umana; dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane», disse al vertice della Celac (Comunità stati latinoamericani e dei Caraibi) che si tenne all’Avana nel 2014.

José Mujica all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, 24 settembre 2013 (AP Photo/Pool, Justin Lane)

Negli anni della sua presidenza fu anche il più ammirato rappresentante della cosiddetta “marea rosa”, il fenomeno che nel corso degli anni Duemila portò la gran parte dei paesi di quell’area a essere governati da forze di sinistra e progressiste, dopo anni di dittature militari e governi civili conservatori. L’espressione “marea rosa” si riferiva al fatto che gli esperti avevano visto nelle vittorie elettorali della sinistra del tempo non un’ascesa del comunismo (il cui colore simbolico è il rosso), ma di forze socialiste relativamente più moderate, non ideologiche e aperte a un liberalismo progressista.

I suoi successi in campo economico, sempre bilanciati da una grande attenzione alla vita reale delle persone, furono indiscussi. Mujica cercò di promuovere il commercio, lo sviluppo e di attrarre nuovi investitori stranieri, soprattutto nel settore minerario («Se li caccio e nazionalizzo, corro il rischio che si riducano gli investimenti e i posti di lavoro per la mia gente», raccontò). Durante la sua presidenza i salari aumentarono e la disoccupazione, tradizionalmente bassa in Uruguay, si mantenne intorno al 6 per cento. Nei cinque anni del suo governo il salario minimo aumentò del 250 per cento, l’economia uruguaiana crebbe del 3,6 per cento annuo, i progetti per le energie rinnovabili vennero finanziati e diminuì il numero di persone che vivevano in povertà. Mujica riuscì anche a disinnescare una disputa che durava da anni con l’Argentina, coltivò buoni rapporti con gli Stati Uniti e si rifiutò di modificare la Costituzione del paese per prolungare la sua presidenza.

Attribuì sempre poca importanza al fatto di essere al potere, perché per lui «si trattava solo di una circostanza», come disse. E quando lasciò la politica istituzionale, nell’ottobre del 2020, all’età di 85 anni, spiegò così la sua decisione: «A cosa serve un vecchio albero se non lascia passare la luce affinché nuovi semi possano crescere tra le sue foglie?». Ai giovani attivisti che si preparavano a raccogliere la sua eredità disse: «Non siete delle formiche o degli scarafaggi, perché avete una coscienza. Invece di inseguire un destino naturale, una tradizione o di condurre una vita senza senso, potete fare qualcosa con il mondo in cui vivete. Prendete la vita nelle vostre mani e costruite un progetto collettivo».

Nella piccola casa vicino a Montevideo, sulle sedie di plastica che stavano nel suo giardino, il pensionato Mujica continuò ad accogliere autorità, giornalisti e ammiratori da tutto il mondo continuando a condividere ciò in cui credeva: «La frenesia consumistica ci ruba la libertà, invade il posto che dovrebbe occupare l’emozione. Nella vita dobbiamo riservare del tempo per le relazioni umane, l’amore, l’amicizia, l’avventura, la solidarietà, la famiglia». Nei suoi interventi continuò a mettere sempre in guardia i giovani dai pericoli dell’alienazione sociale: «Non sprecare il tuo tempo lavorando per guadagnare soldi, avrai solo sprecato la tua vita, il tempo della tua vita, la cui unica cosa importante è viverla con gli altri. Vivi come pensi o finirai per pensare come vivi».

José Mujica accanto al suo cane, durante un’intervista con l’agenzia Reuters nella sua fattoria alla periferia di Montevideo, 25 febbraio 2015 (REUTERS/Andres Stapff)

Mujica e la moglie non ebbero dei figli perché, come spiegò lui stesso, erano entrambi troppo impegnati a cercare di fondare una nuova società: «Appartengo a una generazione che ha cercato di cambiare il mondo», disse ancora.

José “Pepe” Mujica è morto per un cancro all’esofago che gli era stato diagnosticato nell’aprile del 2024. Il suo vecchio Maggiolino gli sopravvive. Un ricco ammiratore, una volta, gli offrì un milione di dollari per averlo. Dopo aver pensato di donare la somma in beneficenza, alla fine lui rifiutò l’offerta: «Sarebbe stata un’offesa per gli amici che avevano contribuito a donarmela», raccontò. Mujica ha chiesto che le sue ceneri vengano sepolte sotto un albero del suo giardino, dove si trovano anche i resti di Manuela, il suo cane a tre zampe morto all’età di ventidue anni.
(fonte: Il Post 14/05/2025)

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Un’altro Faro si è spento in America Latina.
È morto Pepe Mujica, il presidente povero grande amico di Papa Francesco


Addio al leader uruguaiano José Mujica, deceduto martedì 13 maggio a 89 anni. Proverbiale la sua amicizia con Papa Francesco che lo ha preceduto di appena tre settimane in Paradiso.

Mujica fino al 2015 è stato “il presidente più povero del mondo” per il suo modesto stile di vita, rifiutando anche la pensione da senatore. Infatti aveva rassegnato le dimissioni anche dalla carica di senatore, che rivestiva da quando il suo mandato quinquennale come presidente era giunto al termine. A 83 anni aveva ufficializzato le dimissioni in una lettera al capo del Senato, Lucía Topolansky, che è anche vicepresidente dell’Uruguay, nonché sua moglie da tredici anni.

Come si legge sul sito della BBC, “i motivi delle dimissioni erano stati personali: li chiamerei, disse, ‘stanchezza dopo un lungo viaggio’. Tuttavia, mentre la mia mente lavora, non posso dimettermi dalla solidarietà e dalla battaglia delle idee”. Noto per il suo linguaggio diretto e talvolta colorito, Mujica si è scusato per questo con “tutti i colleghi che potrei aver personalmente ferito nella foga del dibattito”.

Il mondo piange oggi dunque la scomparsa di un leader rivoluzionario tanto umile quanto carismatico, che con Chavez e Fidel Castro ha lasciato un segno indelebile nella politica internazionale, incarnando un modello di leadership alternativo, basato sulla giustizia sociale e l’amore per il popolo a cominciare dai nativi americani.

Mujica ha conquistato il cuore di milioni di persone con il suo stile di vita semplice e la sua profonda umanità. Durante il suo mandato, dal 2010 al 2015, ha rinunciato alla residenza presidenziale per continuare a vivere nella sua modesta fattoria, devolvendo gran parte del suo stipendio in beneficenza.

La sua politica si è concentrata sulla riduzione delle disuguaglianze, sulla promozione dei diritti umani e sulla tutela dell’ambiente. Mujica ha legalizzato l’aborto e la marijuana, posizionando l’Uruguay all’avanguardia in materia di diritti civili. Ha inoltre promosso politiche di inclusione sociale e di sviluppo sostenibile, con un’attenzione particolare all’agricoltura e alla difesa delle risorse naturali.

La sua voce, sempre pacata e riflessiva, ha risuonato nei consessi internazionali, invitando i leader mondiali a riflettere sul modello di sviluppo dominante e a perseguire una maggiore equità globale. Mujica ha criticato il consumismo sfrenato e l’ossessione per la crescita economica, sottolineando l’importanza di valori come la solidarietà, la cooperazione e il rispetto per la natura.

La sua storia personale è un esempio di resilienza e di impegno politico. Mujica è stato un guerrigliero dei Tupamaros, trascorrendo 14 anni in prigione durante la dittatura militare in Uruguay. Dopo il ritorno alla democrazia, ha intrapreso la carriera politica, diventando senatore e poi presidente.

La sua eredità va oltre i risultati politici. Mujica ha ispirato milioni di persone con la sua coerenza, la sua umiltà e la sua capacità di incarnare i valori che professava. La sua figura rimarrà un faro per chi crede in una politica più umana, più giusta e più vicina alla gente.

Una notte lunga 12 anni

Negli anni ’60 Pepe Mujica combatté contro la dittatura, fu imprigionato per circa 15 anni e brutalmente torturato finché l’amnistia emanata con il ritorno della democrazia in Uruguay non gli conferì finalmente la libertà, divenendo poi presidente della repubblica del suo paese dal 2010 al 2015. Una storia raccontata in un film interpretato dal sempre straordinario Antonio de la Torre e intitolato “Una notte lunga 12 anni”. “Questa è un’atrocità: sarebbe più umano fucilarli”, replica il medico del carcere nel film che da oggi è distribuito in 44 sale in tutta Italia. Il film racconta la storia della difficile transizione democratica dell’Uruguay e di tre uomini, tre guerriglieri Tupamaros, prelevati dal regime un giorno nel settembre del 1973 e destinati a “chiudere gli occhi” nelle patrie galere fino al 1985.

La frase che sussurra quel medico in penombra dà il senso dell’intera – bellissima – opera che descrive le condizioni disumane con cui vengono trattati i tre carcerati che, per fortuna, non vengono giustiziati anche se devono subire angherie di ogni tipo. Non è un film facile, né per deboli di cuore questa opera del giovane regista Alvaro Brechner che durante la presentazione alla stampa ha raccontato “di non aver voluto fare un’opera sulla storia della dittatura” bensì “la vita di tre uomini idealisti che sognavano di cambiare il mondo e, in modo particolare, il loro Paese”.

Un’amicizia al di là dei protocolli: l’incontro umano tra Pepe Mujica e Papa Francesco

Il mondo ha salutato con commozione la scomparsa di José “Pepe” Mujica, un uomo che ha saputo incarnare una leadership umile e profondamente umana. Tra i tanti legami significativi che hanno costellato la sua vita, spicca l’amicizia sincera e profonda con Papa Francesco, un rapporto che ha saputo trascendere le differenze ideologiche e di ruolo, fondandosi su una comune visione di giustizia sociale e di attenzione verso gli ultimi.

L’incontro tra il “presidente più povero del mondo” e il pontefice argentino ha rappresentato un evento emblematico, un dialogo tra due figure che, pur provenendo da contesti e percorsi differenti, condividevano una profonda preoccupazione per le sorti dell’umanità e un’attenzione particolare verso i marginalizzati. La loro amicizia non è nata da calcoli politici o convenienze diplomatiche, ma da un’autentica sintonia umana, nutrita da valori condivisi e da un reciproco rispetto.
(fonte: Faro di Roma, articolo di Irina Smirnova 13/05/2025)


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Pepe Mujica, una vita coerente e piena di senso

Quest’articolo è disponibile anche in: Spagnolo, Francese

(Foto di Juliana Barbosa, MST-PR)

Una vita coerente. Una vita con il chiaro scopo di migliorare le condizioni di vita del popolo uruguaiano. Una vita con un significato profondo. Grazie per la tua vita, caro Pepe. Vola alto, Pepe Mujica”. Queste le parole del cileno Tomás Hirsch, deputato di Acción Humanista, nel salutare la partenza dell’ex presidente uruguaiano verso l’eternità.

Membro del movimento guerrigliero dei Tupamaros negli anni Sessanta, imprigionato dalla dittatura uruguaiana tra il 1972 e il 1985, poi ministro, presidente e due volte senatore dopo la sua presidenza, leggendario leader del Movimento di Partecipazione Popolare (MPP) – settore maggioritario del Frente Amplio, ora nuovamente al governo – “Pepe” ha messo tutta la sua vita al servizio del suo popolo.

Coerente con il suo approccio critico nei confronti della spinta capitalista ad accumulare beni materiali che non contribuiscono alla felicità umana, Mujica ha condotto uno stile di vita austero fino alla fine, donando il 90% del suo stipendio a istituzioni di azione sociale a beneficio di settori impoveriti e piccoli imprenditori.

Tra i principali risultati politici durante il suo mandato presidenziale, va ricordato il Piano di edilizia sociale “Juntos”, il cui obiettivo era quello di fornire alle famiglie bisognose una casa in cui vivere. La costruzione delle case ha coinvolto non solo i professionisti, ma anche le persone stesse, insieme ai loro vicini e ai volontari.

Nel giugno 2012, con una decisione da pioniere, il governo Mujica ha proposto di legalizzare e regolamentare la vendita di marijuana. Un altro progetto importante è stata la promozione dell’Università Tecnologica dell’Uruguay, un’istituzione pubblica e autonoma che offre istruzione in sei dipartimenti del Paese, consentendo agli studenti dell’interno del Paese di accedere all’istruzione universitaria.

Mujica è anche riuscito a promulgare, dopo un’accanita resistenza conservatrice, la legge sul matrimonio egualitario nel maggio 2013. Sempre sotto il suo mandato presidenziale, nel 2012 è stato depenalizzato l’aborto con la legge n. 18.987, che regola l’interruzione volontaria della gravidanza (IVE).

Strenuo oppositore della guerra, nel suo discorso alle Nazioni Unite del settembre 2013 ha affermato che il primo compito dell’umanità è “salvare la vita”.

In quel messaggio poetico e pieno di significato, ha sottolineato: “Porto il fardello dei milioni di poveri dell’America Latina, una patria comune in via di formazione. Porto con me le culture originarie schiacciate, i resti del colonialismo nelle Malvine, gli inutili blocchi di quell’alligatore sotto il sole dei Caraibi chiamato Cuba. Porto con me le conseguenze della sorveglianza elettronica che ci avvelena con la sfiducia. Porto con me un gigantesco debito sociale, con il dovere di lottare per l’Amazzonia, per una patria per tutti e perché la Colombia trovi la strada della pace. Porto con me il dovere della tolleranza. La tolleranza è necessaria per chi è diverso e non per chi è d’accordo con noi. La tolleranza è la base per vivere insieme in pace”. Mujica ha poi definito “piaghe contemporanee” l’economia sporca, il traffico di droga e la corruzione.

“Abbiamo sacrificato i vecchi dei immateriali e occupato il tempio con il dio mercato, che organizza la nostra economia, la politica, la vita e finanzia persino l’apparenza della felicità a rate. Sembra che siamo nati solo per consumare e consumare, e quando non possiamo farlo, ci sentiamo oppressi dalla frustrazione e dalla povertà”, ha aggiunto.

Ha criticato con forza il consumismo. Se l’umanità aspira a consumare come l’americano medio, ci vorrebbero tre pianeti per vivere. Gli sprechi e le speculazioni andrebbero puniti.

“Né i grandi Stati, né le multinazionali e tanto meno il sistema finanziario dovrebbero governare il mondo”. Per il presidente uruguaiano, è l’alta politica intrecciata con la scienza, “che non brama il profitto”, che dovrebbe fornire le linee guida.

Al di là delle critiche, Pepe Mujica ha concluso il suo discorso con un messaggio di speranza per la capacità dell’umanità di trasformare i deserti, di creare piante che vivono nell’acqua salata, di sradicare l’indigenza dal pianeta e di accettare il fatto che la vita è un miracolo di cui bisogna prendersi cura.

Attivo promotore dell’integrazione regionale sovrana, ha fatto parte dell’asse politico latinoamericano, accanto a Cristina Kirchner, Lula da Silva e Hugo Chávez, tra gli altri.

Nell’ambito delle Giornate Latinoamericane e Caraibiche dell’Integrazione dei Popoli, che si sono svolte a Foz de Iguazú nel febbraio 2024, alle quali ha partecipato con i suoi 88 anni, il veterano attivista ha affermato che “non c’è integrazione senza popoli che la sostengano”, tracciando una chiara rotta per gli sforzi di costruzione di una casa comune in America Latina e nei Caraibi.

Nel suo intervento nell’atto finale della Conferenza, Mujica ha illustrato interessanti esempi sulla necessità e l’utilità dell’integrazione per il miglioramento della deplorevole situazione del gruppo che siamo soliti chiamare “popolo”, anche se molti dei suoi membri, forse influenzati da false promesse individualistiche, non sempre si considerano tali.

Mujica ha proposto una prima fase con possibili questioni, difficili da respingere, che potrebbero facilitare la comprensione da parte della base sociale dei vantaggi e dei requisiti di sopravvivenza che l’integrazione continentale comporta.

“L’integrazione non è fine a se stessa e non prospera se non migliora la vita dei popoli. Inoltre, per non essere uno slogan vuoto e inutile, deve configurarsi con immagini precise, acquisire colore, forma, plasticità, suscitare passione…”.

E’ difficile descrivere in modo completo la sua personalità, a volte affabile e altre pungente nella sua franchezza, profonda e allo stesso tempo legata ai detti popolari. José Alberto “Pepe” Mujica Cordano passa alla storia come un umanista integrale.

Come ha detto durante una recente visita del Presidente cileno Boric alla sua fattoria di Rincón del Cerro, alla periferia di Montevideo: “Siamo diversi, ma sappiamo tutti che ci sono troppe persone che non hanno una possibilità nella vita. Per questo ci definiamo di sinistra, ma in realtà non siamo né di destra né di sinistra, siamo umanisti. Pensiamo a ciò che è meglio per il futuro dell’umanità. E moriremo sognando questo.”

Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo
 (fonte: Pressenza, articolo di Javier Tolcachier 14.05.25)



Leone XIV: «I popoli vogliono la pace e io, col cuore in mano, dico ai responsabili dei popoli: incontriamoci, dialoghiamo, negoziamo! La guerra non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere...» (cronaca, foto, testo e video)


UDIENZA  AI PARTECIPANTI AL GIUBILEO DELLE CHIESE ORIENTALI
Aula Paolo VI
Mercoledì, 14 maggio 2025


Ucraina, Libano, Romania, ma anche Brasile. È uno sventolio di bandiere l’aula Paolo VI gremita da oltre settemila persone. I pellegrini delle Chiese orientali incontrano papa Leone in quella che è la prima udienza giubilare del nuovo Pontefice. Anche a loro papa Prevost ricorda l’impegno per la pace. Anzi soprattutto a loro che, forse più che altri, sopportano persecuzioni e incomprensioni, fa giungere, forte la voce della Chiesa che è a loro fianco. 
Leone XIV invia forte e chiaro un messaggio a tutti coloro che possono costruire la pace: «Perché questa pace si diffonda io impiegherò ogni sforzo. La Santa Sede è a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi, perché ai popoli sia restituita una speranza e sia ridata la dignità che meritano, la dignità della pace. I popoli vogliono la pace e io, col cuore in mano, dico ai responsabili dei popoli: incontriamoci, dialoghiamo, negoziamo! La guerra non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere».












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DISCORSO DEL SANTO PADRE LEONE XIV


Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, la pace sia con voi!

Beatitudini, Eminenza, Eccellenze,
cari sacerdoti, consacrate e consacrati,
fratelli e sorelle,

Cristo è risorto. È veramente risorto! Vi saluto con le parole che, in molte regioni, l’Oriente cristiano in questo tempo pasquale non si stanca di ripetere, professando il nucleo centrale della fede e della speranza. Ed è bello vedervi qui proprio in occasione del Giubileo della speranza, della quale la risurrezione di Gesù è il fondamento indistruttibile. Benvenuti a Roma! Sono felice di incontrarvi e di dedicare ai fedeli orientali uno dei primi incontri del mio pontificato.

Siete preziosi. Guardando a voi, penso alla varietà delle vostre provenienze, alla storia gloriosa e alle aspre sofferenze che molte vostre comunità hanno patito o patiscono. E vorrei ribadire quanto delle Chiese Orientali disse Papa Francesco: «Sono Chiese che vanno amate: custodiscono tradizioni spirituali e sapienziali uniche, e hanno tanto da dirci sulla vita cristiana, sulla sinodalità e sulla liturgia; pensiamo ai padri antichi, ai Concili, al monachesimo: tesori inestimabili per la Chiesa» (Discorso ai partecipanti all’Assemblea della ROACO, 27 giugno 2024).

Desidero citare anche Papa Leone XIII, che per primo dedicò uno specifico documento alla dignità delle vostre Chiese, data anzitutto dal fatto che “l’opera della redenzione umana iniziò nell’Oriente” (cfr Lett. ap. Orientalium dignitas, 30 novembre 1894). Sì, avete «un ruolo unico e privilegiato, in quanto contesto originario della Chiesa nascente» (S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Orientale lumen, 5). È significativo che alcune delle vostre Liturgie – in questi giorni le state celebrando solennemente a Roma secondo le varie tradizioni – utilizzano ancora la lingua del Signore Gesù. Ma Papa Leone XIII espresse un accorato appello affinché la «legittima varietà di liturgia e di disciplina orientale […] ridondi a […] grande decoro e utilità della Chiesa» (Lett. ap. Orientalium dignitas). La sua preoccupazione di allora è molto attuale, perché ai nostri giorni tanti fratelli e sorelle orientali, tra cui diversi di voi, costretti a fuggire dai loro territori di origine a causa di guerra e persecuzioni, di instabilità e povertà, rischiano, arrivando in Occidente, di perdere, oltre alla patria, anche la propria identità religiosa. E così, con il passare delle generazioni, si smarrisce il patrimonio inestimabile delle Chiese Orientali.

Oltre un secolo fa, Leone XIII notò che «la conservazione dei riti orientali è più importante di quanto si creda» e a questo fine prescrisse persino che «qualsiasi missionario latino, del clero secolare o regolare, che con consigli o aiuti attiri qualche orientale al rito latino» fosse «destituito ed escluso dal suo ufficio» (ibid.). Accogliamo l’appello a custodire e promuovere l’Oriente cristiano, soprattutto nella diaspora; qui, oltre ad erigere, dove possibile e opportuno, delle circoscrizioni orientali, occorre sensibilizzare i latini. In questo senso chiedo al Dicastero per le Chiese Orientali, che ringrazio per il suo lavoro, di aiutarmi a definire principi, norme, linee-guida attraverso cui i Pastori latini possano concretamente sostenere i cattolici orientali della diaspora e a preservare le loro tradizioni viventi e ad arricchire con la loro specificità il contesto in cui vivono.

La Chiesa ha bisogno di voi. Quanto è grande l’apporto che può darci oggi l’Oriente cristiano! Quanto bisogno abbiamo di recuperare il senso del mistero, così vivo nelle vostre liturgie, che coinvolgono la persona umana nella sua totalità, cantano la bellezza della salvezza e suscitano lo stupore per la grandezza divina che abbraccia la piccolezza umana! E quanto è importante riscoprire, anche nell’Occidente cristiano, il senso del primato di Dio, il valore della mistagogia, dell’intercessione incessante, della penitenza, del digiuno, del pianto per i peccati propri e dell’intera umanità (penthos), così tipici delle spiritualità orientali! Perciò è fondamentale custodire le vostre tradizioni senza annacquarle, magari per praticità e comodità, così che non vengano corrotte da uno spirito consumistico e utilitarista.

Le vostre spiritualità, antiche e sempre nuove, sono medicinali. In esse il senso drammatico della miseria umana si fonde con lo stupore per la misericordia divina, così che le nostre bassezze non provochino disperazione, ma invitino ad accogliere la grazia di essere creature risanate, divinizzate ed elevate alle altezze celesti. Abbiamo bisogno di lodare e ringraziare senza fine il Signore per questo. Con voi possiamo pregare le parole di Sant’Efrem il Siro e dire a Gesù: «Gloria a te che della tua croce hai fatto un ponte sulla morte. […] Gloria a te che ti sei rivestito del corpo dell’uomo mortale e lo hai trasformato in sorgente di vita per tutti i mortali» (Discorso sul Signore, 9). È un dono da chiedere quello di saper vedere la certezza della Pasqua in ogni travaglio della vita e di non perderci d’animo ricordando, come scriveva un altro grande padre orientale, che «il più grande peccato è non credere nelle energie della Risurrezione» (Sant’Isacco di Ninive, Sermones ascetici, I,5).

Chi dunque, più di voi, può cantare parole di speranza nell’abisso della violenza? Chi più di voi, che conoscete da vicino gli orrori della guerra, tanto che Papa Francesco chiamò le vostre Chiese «martiriali» (Discorso alla ROACO, cit.)? È vero: dalla Terra Santa all’Ucraina, dal Libano alla Siria, dal Medio Oriente al Tigray e al Caucaso, quanta violenza! E su tutto questo orrore, sui massacri di tante giovani vite, che dovrebbero provocare sdegno, perché, in nome della conquista militare, a morire sono le persone, si staglia un appello: non tanto quello del Papa, ma di Cristo, che ripete: «Pace a voi!» (Gv 20,19.21.26). E specifica: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). La pace di Cristo non è il silenzio tombale dopo il conflitto, non è il risultato della sopraffazione, ma è un dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita. Preghiamo per questa pace, che è riconciliazione, perdono, coraggio di voltare pagina e ricominciare.

Perché questa pace si diffonda, io impiegherò ogni sforzo. La Santa Sede è a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi, perché ai popoli sia restituita una speranza e sia ridata la dignità che meritano, la dignità della pace. I popoli vogliono la pace e io, col cuore in mano, dico ai responsabili dei popoli: incontriamoci, dialoghiamo, negoziamo! La guerra non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere, perché non risolvono i problemi ma li aumentano; perché passerà alla storia chi seminerà pace, non chi mieterà vittime; perché gli altri non sono anzitutto nemici, ma esseri umani: non cattivi da odiare, ma persone con cui parlare. Rifuggiamo le visioni manichee tipiche delle narrazioni violente, che dividono il mondo in buoni e cattivi.

La Chiesa non si stancherà di ripetere: tacciano le armi. E vorrei ringraziare Dio per quanti nel silenzio, nella preghiera, nell’offerta cuciono trame di pace; e i cristiani – orientali e latini – che, specialmente in Medio Oriente, perseverano e resistono nelle loro terre, più forti della tentazione di abbandonarle. Ai cristiani va data la possibilità, non solo a parole, di rimanere nelle loro terre con tutti i diritti necessari per un’esistenza sicura. Vi prego, ci si impegni per questo!

E grazie, grazie a voi, cari fratelli e sorelle dell’Oriente, da cui è sorto Gesù, il Sole di giustizia, per essere “luci del mondo” (cfr Mt 5,14). Continuate a brillare per fede, speranza e carità, e per null’altro. Le vostre Chiese siano di esempio, e i Pastori promuovano con rettitudine la comunione, soprattutto nei Sinodi dei Vescovi, perché siano luoghi di collegialità e di corresponsabilità autentica. Si curi la trasparenza nella gestione dei beni, si dia testimonianza di dedizione umile e totale al santo popolo di Dio, senza attaccamenti agli onori, ai poteri del mondo e alla propria immagine. San Simeone il Nuovo Teologo additava un bell’esempio: «Come uno, gettando polvere sulla fiamma di una fornace accesa la spegne, allo stesso modo le preoccupazioni di questa vita e ogni tipo di attaccamento a cose meschine e di nessun valore distruggono il calore del cuore acceso agli inizi» (Capitoli pratici e teologici, 63). Lo splendore dell’Oriente cristiano domanda, oggi più che mai, libertà da ogni dipendenza mondana e da ogni tendenza contraria alla comunione, per essere fedeli nell’obbedienza e nella testimonianza evangeliche.

Io vi ringrazio per questo e di cuore vi benedico, chiedendovi di pregare per la Chiesa e di elevare le vostre potenti preghiere di intercessione per il mio ministero. Grazie!

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mercoledì 14 maggio 2025

Alex Zanotelli: Come cittadino, come credente, come testimone della sofferenza umana, non posso tacere

Alex Zanotelli

I deputati della Commissione bilancio hanno discusso e votato in soli cinque minuti

Come cittadino, come credente, come testimone della sofferenza umana, non posso tacere

E’ assurdo che vengano acquistati aerei militari da Israele mentre si sta consumando la tragedia di Gaza. Un popolo rischia di scomparire sotto le bombe ma l’Italia acquista tecnologie militari da Israele. E' un tradimento dei valori che dovrebbero guidare le scelte pubbliche.


Devo purtroppo constatare che in Parlamento bastano cinque minuti per votare milioni di euro destinati a nuove tecnologie di guerra. È quanto avvenuto nella Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, dove, senza alcun vero dibattito, è stato approvato lo schema di decreto ministeriale SMD 19/2024. 
Si tratta della prosecuzione di un programma militare di lungo periodo per la dotazione di sofisticati sistemi "Multi-Missione Multi-Sensore" (MMMS) montati su aerei Gulfstream G550. Stiamo parlando dell’Atto di Governo n. 264 sottoposto a parere parlamentare. Il suo esame è durato dalle ore 13.40 alle 13.45 del 6 maggio.

Tutto questo, ripeto, in cinque minuti. E con un silenzio assordante su un fatto gravissimo: la tecnologia alla base di questi sistemi è israeliana. Una tecnologia nata da decenni di occupazione, repressione e controllo militare su un intero popolo. Mentre a Gaza si muore, mentre l’opinione pubblica internazionale si interroga sui crimini di guerra di Netanyahu, l’Italia rafforza i suoi legami militari con l’apparato bellico israeliano. E lo fa nel modo peggiore: senza trasparenza, senza discussione, senza che i parlamentari stessi – in molti casi – siano pienamente consapevoli di ciò che votano. Infatti nei resoconti parlamentari viene omessa la parola Israele. Non viene scritto che queste tecnologie vengono da Israele, dal suo complesso industriale-militare.

In questo Atto di Governo n. 264 si perpetua la segretezza, e questo lo si riscontra nel linguaggio criptico degli atti parlamentari, nei tempi compressi che impediscono ogni approfondimento.

Come cittadino, come credente, come testimone della sofferenza umana, non posso tacere. Questo voto frettoloso e opaco è una ferita alla democrazia. È un insulto al dolore delle vittime dei conflitti armati. È un tradimento dei valori di pace, giustizia e solidarietà che dovrebbero guidare le scelte pubbliche.

E’ assurdo che questo accordo commerciale militare avvenga in un momento in cui si sta consumando la tragedia di Gaza. Mentre un popolo rischia di scomparire sotto le bombe, l’Italia stringe accordi con Israele per rendere ancora più terribile e devastante la guerra. Dovremmo boicottare il governo di Netanyahu e invece acquistiamo i sistemi d’arma israeliani.

Chiedo ai parlamentari di risvegliarsi dal torpore. Chiedo ai cittadini di informarsi, di vigilare, di opporsi. Chiedo alla stampa di fare il suo dovere. E chiedo, infine, alla coscienza collettiva di interrogarsi: in silenzio stiamo per acquistare da Israele delle tecnologie di morte. Diciamo stop, contattiamo i parlamentari, poniamoli di fronte alle loro responsabilità! E boicottiamo l’apparato bellico di Israele.
(fonte: PeaceLink 13/05/2025)

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L’elezione di Leone XIV: fiducia, reti ecclesiali e guida dello Spirito Santo


L’elezione di Leone XIV:
fiducia, reti ecclesiali e guida dello Spirito Santo

L’elezione di Leone XIV è il risultato di un percorso costruito su fiducia e relazioni nel Collegio cardinalizio, accompagnato dalla guida dello Spirito Santo. Uno studio della Bocconi rivela come la centralità del cardinale Prevost nei dicasteri chiave, sostenuta da Papa Francesco, abbia preparato il terreno per il discernimento nel Conclave dell’8 maggio. Scienza e Spirito si sono trovati

(Fonte SIR)

L’8 maggio, la fumata bianca ha annunciato al mondo l’elezione di Leone XIV, al secolo Robert Francis Prevost. Il primo Papa statunitense della storia della Chiesa ha assunto il mandato dopo un Conclave segnato da preghiera e confronto, intrecciando dimensione spirituale e relazioni all’interno del Collegio cardinalizio. “Lo Spirito Santo non è una dittatura che si impone e che interviene dall’alto per indicare direttamente il nome del Papa, ma accompagna i cardinali nel discernimento”, spiega Giuseppe Soda, professore di teoria dell’organizzazione e analisi delle reti sociali alla Bocconi, richiamando le parole dell’allora cardinale Ratzinger in un’intervista con una televisione bavarese. Soda è autore, insieme ad Alessandro Iorio e Leonardo Rizzo, di uno studio che ha applicato l’analisi delle reti sociali (social network analysis) al Collegio cardinalizio. Il risultato è stato reso pubblico il 7 maggio e aveva previsto Prevost al primo posto tra le possibili scelte.

La Chiesa come rete diffusa

“La Chiesa è un’organizzazione estremamente complessa”
La Chiesa è un’organizzazione estremamente complessa, più di una multinazionale. Ha un governo collettivo che non si limita alla gerarchia, ma si estende a un incredibile numero di organismi collettivi: dicasteri, commissioni, consigli. Quando abbiamo ricostruito tutte le nostre fonti, ci siamo resi conto che il sistema era ipercomplesso, e questa è stata la nostra grande scoperta.

Soda sottolinea come l’immagine di una Chiesa rigida e verticistica, spesso proposta dall’immaginario comune, sia riduttiva: “C’è una strana idea sulla Chiesa, si pensa che sia una piramide con Dio sopra e il Papa a seguire, fino ai parroci di campagna. In realtà, la Chiesa è molto più diffusa e orizzontale. Funziona attraverso un numero impressionante di organismi collettivi, dove il confronto e la collaborazione sono essenziali”. Le relazioni tra i cardinali – che si sviluppano attraverso incarichi condivisi, incontri e collaborazioni nei vari dicasteri – generano una rete di conoscenze che favorisce la nascita del consenso.

(Foto SIR)
Status e relazioni al centro del Conclave
Secondo lo studio della Bocconi, sono tre le dimensioni che definiscono l’influenza di un cardinale: status, controllo informativo e capacità di coalizione. Tra queste, è stato soprattutto lo status a determinare l’emergenza di Prevost come figura papabile: “Leone XIV era al centro di molte reti, anche grazie alla fiducia che Papa Francesco aveva riposto in lui, affidandogli incarichi chiave nel Dicastero dei vescovi”. Un percorso che ha contribuito a far sì che il cardinale statunitense crescesse in visibilità e riconoscimento, fino a divenire punto di riferimento nel Collegio. Per Soda, “lo status è quello teoricamente più fondato e quello che nei nostri studi si trova più spesso in altri contesti.

Non misura solo il numero di connessioni di un cardinale, ma anche la qualità di queste connessioni, cioè se sono con persone influenti o centrali nel sistema”.

Scienza e Spirito: due dimensioni dell’elezione
L’elezione di Leone XIV sembra aver dato ulteriore credito al modello di analisi della Bocconi. “La nostra non è stata una previsione, ma una lettura delle reti. Se avessimo applicato lo stesso metodo durante l’elezione di Papa Francesco, probabilmente non avremmo visto il suo nome emergere, perché era ai margini delle reti di potere ecclesiastico. Quando lui disse di venire ‘dalla fine del mondo’ era una frase letterale, anche dal punto di vista delle connessioni”, precisa Soda. Un’eccezione che, nel caso di Leone XIV, non si è ripetuta: “Il cardinale Prevost non era ai confini del mondo, era perfettamente integrato nel cuore del sistema ecclesiastico. In questo senso, si può dire che il Conclave ha riconosciuto un percorso già tracciato, un percorso di fiducia e relazioni consolidate”.

“Lo Spirito soffia dove vuole”
Lo Spirito soffia dove vuole, noi abbiamo solo cercato di capire come le reti umane possano facilitare o ostacolare il formarsi di un consenso. Le decisioni restano umane, ma protette da una guida superiore. Questo studio non è una predizione, ma un tentativo di leggere meglio la straordinaria complessità della Chiesa.
(fonte: SIR, articolo di Riccardo Benotti 13/05/2025)


martedì 13 maggio 2025

Viaggi, sfide di tennis, doni di sciarpe e reliquie. Papa Leone saluta i giornalisti

Viaggi, sfide di tennis, doni di sciarpe e reliquie.
Papa Leone saluta i giornalisti

Il Pontefice, dopo il discorso ai rappresentanti dei media di tutto il mondo ricevuti in Aula Paolo VI, ha voluto salutare alcuni gruppi di giornalisti. In regalo una sciarpa delle Ande del Perù e una reliquia di Papa Luciani, poi la proposta di una partita di tennis: “Purché non ci sia Sinner” e le domande su viaggi a Fatima e Nicea. “Noi non siamo nemici, ma suoi alleati”

Il Papa indossa la chalina, una sciarpa artigianale peruviana donata dalla giornalista peruviana Paola Ugaz

Una sciarpa in alpaca delle Ande peruviane, la foto a fianco ad una giornalista con il tailleur di un bianco quasi ‘papale’, il dono di una reliquia di Papa Luciani, la proposta di match di tennis (uno dei suoi sport preferiti), la battuta sul possibile viaggio a Nicea e quella sfumato a Fatima che avrebbe voluto fare da cardinale. Si aspettava il baciamano, in fila, uno ad uno, invece Papa Leone XIV è sceso dai gradini dell’Aula Paolo VI ed è andato lui stesso a salutare le prime file dei giornalisti - in rappresentanza dei media di tutto il mondo - ricevuti oggi come segno di ringraziamento per il grande lavoro di copertura svolto dalla morte di Papa Francesco fino al Conclave e alla sua elezione.

Una partita a tennis?

Foto, regali, firme di autografi, benedizioni, durante il lungo giro del Pontefice tra i vaticanisti di varie lingue e testate, e anche qualche frase spiritosa. Come ad esempio quella su un possibile match di tennis di beneficenza, proposto da Inés San Martin, responsabile della comunicazione delle Pontificie Opere Missionarie: “Sarebbe bello fare una partita, la organizzo io!”. “Ah sì, è davvero è una buona idea. Basta che però non porti Sinner”, ha ribattuto il Papa, lasciando intendere di ‘temere’ il talento del campione italiano.

La bandiera del Perù su un pc (@Vatican Media)

Un dono in ricordo di Papa Luciani

Con gratitudine Leone XIV ha accolto il regalo di Stefania Falasca, editorialista di Avvenire e postulatrice della causa di canonizzazione di Giovanni Paolo I che ha donato una piccola reliquia del beato Luciani, il quale ha fatto suo proprio il “Sermo humilis” di Sant’Agostino affinché il messaggio della salvezza potesse arrivare a tutti. Luciani, che avrebbe voluto fare il giornalista in gioventù, diceva infatti: “Anche con la penna si può fare tanto del bene”.

Foto e regali

Numerose le lettere e i biglietti consegnati al Pontefice che ha suscitato uno spontaneo "oooh" nella folla quando ha ripetuto il saluto in lingua dei segni mostratogli da suor Veronica Donatello, responsabile del Servizio per la pastorale delle Persone con disabilità della CEI. Per qualche istante Papa Prevost si è soffermato con l’inviata di Tv2000, Cristiana Caricato, che scherzava sul suo completo tutto bianco e le scarpe rosse: “Ho un abito bianco, lo so, ma non ho ambizioni da papessa”. “No, bello”, ha detto Leone, chiedendo di scattare una foto a fianco alla vaticanista. E lo stesso ha fatto con la giornalista, Paola Ugaz, nota in Perù per la sua inchiesta sul movimento Sodalicio, la quale gli ha donato una chalina, una sciarpa multicolore in lana di alpaca, proveniente dalle terre andine. Quelle in cui il Pontefice è stato missionario per circa vent’anni. Papa Prevost l’ha indossata al collo per lo scatto, poi ha salutato un gruppo di peruviani che gli mostravano al computer la loro bandiera.

Suor Donatello saluta il Papa con la lingua dei segni (@Vatican Media)

Usa, Fatima, Nicea

E se al collega statunitense che chiedeva se fosse previsto un viaggio a casa (negli Usa) “soon”, Leone XIV ha risposto “not soon”, con la giornalista portoghese Aura Miguél, che ricordava la festa di domani, 13 maggio, della Madonna di Fatima, il Papa ha invece detto: “Sì, il cardinale Prevost aveva previsto di andare (a Fatima) ma i piani sono cambiati”. Sempre in tema viaggi, alcuni giornalisti hanno domandato al Pontefice se si terrà il famoso viaggio a Nicea, in Turchia, per i 1700 anni del Concilio, desiderio di Papa Francesco che tante volte e in tante occasioni ha espresso la volontà di vivere questo evento. Leone XIV si è mostrato aperto alla possibilità.

"Compagni di viaggio"

Da parte di alcuni cronisti, infine, una manifestazione di intenti: “Non siamo suoi nemici, ma vogliamo essere suoi alleati e compagni di viaggio e che se un giorno vorrà ci piacerebbe che ci ascoltasse”.

Il saluto del Papa ai giornalisti (@Vatican Media)
(fonte: Vatican News, articolo di Salvatore Cernuzio 12/05/2025)

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