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sabato 3 maggio 2025

Il populismo: servirsi della persuasione venduta come verità di Umberto Galimberti

Il populismo: 
servirsi della persuasione 
venduta come verità 
di Umberto Galimberti



Se gli unici rapporti universalmente riconosciuti dovessero essere solo i rapporti di forza, la via sulla quale sembra che ci si stia avviando, ad essere sacrificata non è solo la democrazia, non è solo la libertà che ha come sua precondizione la democrazia, ma è soprattutto la verità.

Già nel IV secolo a. C. Platone ci avvertiva che se si vuole instaurare ad Atene la democrazia occorre cacciare dalla città i sofisti che, con i loro discorsi ingannano il popolo (démos) con paralogismi, falsi sillogismi, infondate notizie, e i rètori che con l’efficacia delle parole incantano gli ascoltatori facendo leva sulla mozione degli affetti che promuovono un’adesione acritica. E allora, si chiede l’adolescente che deve scegliere tra due tipi di educazione, salirò la torre più elevata per il sentiero della Giustizia (Díke) o della Seduzione ingannevole (Apáte)? (Platone, Repubblica ,365 b). La domanda non è pleonastica, ma è insidiosa, perché sia le parole di verità, sia quelle di giustizia, sia quelle di inganno non hanno efficacia se non sono accompagnate da Persuasione (Peithó). Cassandra, riferisce Eschilo nell’ Agamennone (vv. 1208-1213), profetessa veritiera, a seguito di un giuramento tradito è stata privata da Apollo del potere della persuasione, per cui le sue parole sono inefficaci e non più degne di fede.

Ma se la persuasione è la potenza che la parola esercita sugli altri, questo effetto, una volta consaputo, conferisce autonomia all’ordine della parola che perciò vale per se stessa, senza più dipendere dalla sua capacità di conoscere e nominare la verità del reale.

L’autonomizzarsi della potenza della parola, il suo fondarsi più sull’efficacia persuasiva che su quella conoscitiva, consente a chi è in grado di impossessarsene «di servirsi della persuasione come di un timone secondo i propri disegni» (Platone, Crizia). Il populismo è propriamente questo. Servirsi della persuasione venduta come verità. Questo inganno è favorito da due condizioni facilmente verificabili che sono la società complessa e la frequentazione informatica. Quando le società erano semplici tutti potevano rendersi facilmente conto di come andavano le cose nella realtà, ma oggi la nostra società ha raggiunto una tale complessità da superare le competenze medie di ciascuno di noi. E allora affidarsi a chi, anche solo con uno slogan ripetuto, ci persuade è una tentazione difficile da evitare. E forse anche impossibile, dal momento che i mezzi informatici di comunicazione, da cui nessuno si stacca quasi fossero protesi indispensabili del nostro corpo, sembrano facilitare la divulgazione delle nostre idee, mentre sotto sotto modificano a nostra insaputa il nostro modo di pensare, rendendolo da “problematico” a “binario” secondo lo schema informatico 0/1, che ci rende idonei a dire solo “sì” o “no”, al massimo “non so”. Fallimento del pensiero critico che per essere esercitato richiede cultura. Ma ha interesse il potere a diffondere cultura? Ha interesse a far funzionare meglio la scuola e la formazione degli studenti? Assolutamente no. Perché, come ci ricorda Nietzsche in Così parlò Zarathustra, quando l’umanità diventa gregge, vuole l’animale capo. E in questa direzione ci stiamo avviando a passi ben spediti. Non a caso Trump, come ha scritto Ezio Mauro su Repubblica il giorno di Pasqua, vuole il controllo delle università americane per «selezionare le idee e gerarchizzarle, fissando limiti e binari alla conoscenza, imponendo conformità al pensiero dominante e instaurando canoni governativi di una nuova legittimità culturale» nel tentativo di imporre «un sapere di Stato», fino a minacciare di togliere i finanziamenti federali alle università che non dovessero sottoporsi a questo disegno.

E qui assistiamo a un altro passaggio inquietante: se non basta la persuasione a occultare la verità si usa la forza. E si parla solo con i “forti” come fa Trump con Putin, assegnando ai deboli la loro sconfitta, quando addirittura non li si rende colpevoli della loro disfatta, perché hanno osato sfidare chi era più forte di loro. Ma quando i rapporti di forza sono gli unici ad essere legittimati, oltre alla democrazia e alla libertà, anche la verità è cancellata e non può più emergere e farsi strada. La conseguenza è che il posto lasciato vuoto dalla verità viene occupato dal negazionismo. Sappiamo tutti che cos’è la rimozione (Verdrängung), termine freudiano che si riferisce a quel meccanismo di difesa inconscio con cui allontaniamo da noi immagini e fatti che ci risultano inaccettabili. Ma oltre alla rimozione Freud ha individuato anche la negazione (Verneinung) in cui il soggetto nega l’esistenza di ciò che esiste e conosce. Nella negazione Freud vede l’origine della scissione dell’Io, l’anticamera della pazzia. Il discorso non fa una piega. Se davanti a me c’è una montagna e io nego che ci sia, evidentemente qualche problema ce l’ho.

Il sociologo Stanley Cohen, scomparso nel 2013, che ha insegnato alla London School of Economics and Political Science, individua nel suo libro Stati di negazione (2001) diverse figure di negazionismo. Figure che, nel caso le applichiamo alle dichiarazioni di Trump, vanno dal diniego assoluto (non è la Russia responsabile della guerra in Ucraina), al discredito (gli immigrati sono tutti delinquenti o criminali e perciò vanno espulsi dagli Stati Uniti), al giustificazionismo (è vero che nella Striscia di Gaza sono morte decine di migliaia di palestinesi innocenti, ma non c’è altro da fare finché non si trova una soluzione politica). Il linguaggio politico è particolarmente specializzato in queste formulazioni e quindi è un grande alleato del negazionismo, per cui la pulizia etnica si chiama “scambio di popolazioni”, un massacro di civili “danno collaterale”, una deportazione “trasferimento di popolazione”, una tortura “pressione fisica”.

Queste forme di negazione inducono a una falsificazione del nostro apparato cognitivo (non riconoscere i fatti che si conoscono), emozionale (non provare sentimenti verso i fatti che li sollecitano), morale (non riconoscere nei fatti alcuna valenza di ingiustizia o di responsabilità), e di azione (non agire in risposta a quanto conosciamo). Da questa forma di negazione non è immune neppure la parola “pace”, perché se con questo termine, che risponde al desiderio di tutti, si sottintende la “resa” incondizionata degli aggrediti, allora anche la parola “pace” concorre alla rimozione se non addirittura alla negazione della verità.

A differenza dei tempi trascorsi, oggi l’abbondanza delle informazioni, che è il tratto tipico del nostro tempo, ci rende responsabili di ciò che sappiamo e se, per quieto vivere, per noia, per distrazione, per disinteresse, per stanchezza o per assuefazione non diventiamo sensibili al problema della verità, di fronte a quel che sappiamo diventiamo irrimediabilmente immorali a colpi di rimozione e negazione a spese della verità.

(Fonte: “la Repubblica” - 30 aprile 2025)