Un uomo che (ci) comprenda (ancora)
Papa Francesco comprendeva le fatiche dell’umanità di oggi; di un pastore così c’è ancora grande bisogno
C’è forse un aspetto di Papa Francesco che è stato poco messo in rilievo in questi giorni di ricordi e gratitudine, e riguarda un aspetto centrale del suo essere stato Papa, un aspetto che spiega l’affetto che ha ricevuto, il bene che è emerso, il dispiacere che la sua morte ha suscitato: Francesco era un papa da cui ci sentivamo compresi. Questo, credo, il punto essenziale del suo essere pastore, che ne spiega anche le critiche malevoli. Perché molti di noi hanno sentito la vicinanza del Papa nel fatto che egli capiva la fatica del vivere oggi, una fatica che è di tutti: zoppicanti e convinti, forti e deboli. Francesco comprendeva la fatica delle coppie, la fatica delle famiglie, le fatiche dei giovani e degli anziani, dei preti e delle suore, dei consacrati e degli educatori, dei single, delle persone LGBTQ, dei sofferenti, dei migranti, dei carcerati.
Sentirsi capiti è una delle grazie più grandi della vita; sentirsi capiti se hai dei dubbi di fede, sentirsi compresi se fatichi a gestire un rapporto di coppia (Amoris laetitia), se fatichi a stare con un bambino a Messa (ricordiamo l’invito ad allattare anche in chiesa), se sei costretto ad emigrare, se vuoi battezzare tuo figlio nato fuori dal matrimonio, se arranchi nella preghiera, se senti che il tuo essere, le tue tendenze, i tuoi gusti, le tue attrazioni non rientrano nelle ‘regole prestabilite’. Sentirsi capiti se sei povero e sul palco della storia o nelle volute di incenso vedi solo i ricchi. Sentirsi capiti se non credi in Dio. Sentirsi compresi quando avverti la discrepanza tra Vangelo e Chiesa.
Sentirsi capiti e, dunque, accolti: questo è stato, prima di tutto, il ministero di Jorge Mario Bergoglio. Ed è questo che alcuni non hanno voluto accettare, come anche in questi giorni alcuni (pochi) giornalisti incattiviti o (pochi) anziani rosso vestiti hanno voluto rimarcare, mettendo, però, ancora una volta in rilievo l’assoluta distanza tra le loro parole e ciò che è la vita concreta di tanta umanità del XXI secolo, la quale, più di tutto, cerca uno sguardo di bene di un altro (e, anche, di un Altro) su di sé.
E ora, mentre i cardinali in conclave si troveranno a scegliere, sperando che si rendano docili alla voce dello Spirito, di questo, probabilmente, oggi avvertiamo ancora il desiderio, che si fa bisogno condiviso: dateci un pastore che, di nuovo, capisca e ci capisca. Che comprenda cosa vuol dire la vita concreta, reale, complessa del nostro tempo; che abbia consapevolezza di un quotidiano; che sappia leggere quanto anche nella vita di fede vi è sete di sentirsi accolti e capiti. Avremo un pastore con la sua storia, il suo carattere, la sua fede, il suo personale modo di vivere il Vangelo: è sempre stato così e così sarà ancora. Ma donateci un uomo che comprenda il nostro vivere.
Dateci un pastore secondo il cuore di Dio, che comprenda il cuore dell’epoca che attraversiamo: tutti, nel concreto, nel reale. Non nelle categorie astratte che spiegano bene in teoria, ma non colgono la profondità delle pieghe di oggi. E macinano vittime, allargano fossati, provocano fratture.
Un uomo che abbia uno sguardo che comprenda, uno sguardo capace di vedere: quel vedere che toccò Zaccheo, Levi, il cieco nato.
Perché «ci sono luoghi in cui soffia lo Spirito, ma c’è uno Spirito che soffia in tutti i luoghi» (Madeleine Delbrêl)
(fonte: Vino Nuovo, articolo di Sergio Di Benedetto 07/05/2025)