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martedì 28 gennaio 2020

"Padri e figli del Vaticano II: in dialogo con Massimo Faggioli" di Andrea Grillo


Padri e figli del Vaticano II:
in dialogo con Massimo Faggioli

di Andrea Grillo





“E’ triste vedere il vescovo emerito di Roma diventare estraneo alla sua stessa eredità conciliare”. In un articolo, breve e denso, per la rivista Commonweal (Theological Drift. Benedict’s Estrangement from Ratzinger), Massimo Faggioli riflette con cura su alcune implicazioni che il recente libro “Dal profondo del nostro cuore” – a firma di R. Sarah e di Benedetto XVI – suscita nel lettore. Il cuore della considerazione è il Concilio Vaticano II e la sua eredità problematica in J. Ratzinger. Vorrei brevemente sintetizzare la tesi di Faggioli, per poi valorizzarne ulteriormente alcuni aspetti.

L’estraneazione di Benedetto da Ratzinger

L’analisi di Massimo Faggioli è convincente nel mettere in luce un paradosso: nel triste libro sul celibato si propone una teoria del sacerdozio del tutto priva di riferimenti al Concilio Vaticano II, mentre J. Ratzinger è stato sicuramente uno dei “padri” del Concilio. Come è possibile? Faggioli illustra brevemente una “storia dell’alienazione di Benedetto dal Concilio”, le cui tappe risalgono già al 1965, poi alle esperienze del 68-69, quindi nella lunga esperienza come Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ed infine in tre luoghi “topici” del pontificato di Benedetto XVI: il discorso alla curia romana del 2005 sulla “ermeneutica del Concilio”, la Prolusione di Regensburg del 2006 e il Motu Proprio “Summorum Pontificum” del 2007, fino ad arrivare al discorso al clero romano, del febbraio 2013. Ma questo non basta. Perché gli anni dell’emeritato” hanno, in qualche modo, amplificato questo “disagio” e lo hanno indirettamente collegato con le frange più estreme della reazione contro papa Francesco. In una forma difficilmente controllabile, singole affermazioni del periodo papale e nuove espressioni del periodo dell’emeritato vengono esplicitamente giocate in funzione “anti-papale”, creando una tensione che difficilmente può essere istituzionalmente controllata e orientata. E il vescovo emerito si trova così collocato, al di là delle sue intenzioni, in profondo contrasto con la Chiesa che ha contribuito ad edificare.

I padri del Concilio e la “obbedienza filiale”

Tra le cose più penose del recente libro sul celibato c’è la ripetizione del concetto di “obbedienza filiale” che gli autori esprimono verso papa Francesco. E’ triste vedere usato il concetto di figliolanza in un modo tanto ipocrita, tanto più da parte di “padri” vescovi. E lo sgomento è ancor più forte perché essere “padri” e “figli” è, per la esperienza ecclesiale, una cosa del tutto decisiva. Qui, tuttavia, la cosa fondamentale non è che Francesco sia “padre” per Ratzinger e Sarah, o che Francesco consideri Ratzinger “come un nonno”. Fondamentale è riconoscere che diverso è il rapporto di J. Ratzinger e di J. Bergoglio nei confronti del Concilio Vaticano II. J. Ratzinger, non lo si ripeterà mai abbastanza, è un “padre conciliare”. Lo è in una forma “anomala” – padri conciliari sono, in effetti, coloro che erano vescovi durante il Concilio, come è ancora oggi Luigi Bettazzi – ma è pur vero che J. Ratzinger è stato senza alcun dubbio uno dei teologi che ha maggiormente influito su molte decisioni conciliari. Dunque senza forzatura può essere considerato “padre”: perché legge, vive e considera il Concilio “come suo figlio”. Pertanto ne porta la responsabilità, se ne sente causa e lo vive, come è inevitabile per i padri verso i figli, anche con senso di colpa. Addirittura questo rapporto di paternità è sembrato, in qualche caso, arrivare al “disconoscimento del figlio”, nella figura di un padre che non riconosca più il Concilio come “suo figlio” e che lo smentisce apertamente e pesantemente. Fino a ricostruire la realtà della liturgia, quella della Chiesa, quella del sacerdozio “come se il Concilio non ci fosse mai stato”, trattando il Concilio, oserei dire, “perinde ac cadaver”.

Il Concilio come “padre” e il primo papa “figlio”

E’ evidente, però, che questo rapporto di paternità disconosciuta non ha potuto impedire che il Concilio, generato e diventato adulto, non diventasse a sua volta “padre” e generasse figli anche lui. Jorge Mario Bergoglio è “figlio del Concilio” anzitutto per un motivo: come tutti i figli, non porta su di sé la responsabilità dei padri. Sono i padri a sentirsi responsabili dei figli. I figli no. E sono figli proprio per questo! La differenza di date biografiche, tra Ratzinger e Bergoglio, è qui decisiva: Ratzinger nasce nel 1927 e viene ordinato presbitero nel 1951, a 24 anni; Bergoglio nasce solo 9 anni dopo, nel 1936, ma viene ordinato presbitero solo nel 1969, a 33 anni. Tra le due ordinazioni c’è quasi una generazione. In quella differenza il Concilio Vaticano II si inserisce come mediazione fondamentale. L’immaginario ecclesiale, la autocoscienza ministeriale, la valorizzazione della libertà di coscienza e la correlazione alle altre confessioni e fedi è, in Francesco, segnata “nella carne e nel sangue” dalle parole conciliari. Potremmo dire che per Bergoglio il Concilio è lingua madre vitale, mentre per Ratzinger è frutto di acuta riflessione intellettuale.

Il Vaticano II come oggetto di “obbedienza filiale”

I padri lasciano l’eredità alle generazioni successive. Per la Chiesa in cammino, questa verità rimane decisiva. Ora, nella vicenda che stiamo considerando, dobbiamo riconoscere che ogni generazione ha le sue ragioni. Ci sono ragioni per elaborare il rimorso e ragioni per lanciarsi nell’entusiasmo. Ma il rapporto tra Benedetto XVI e Francesco non è un rapporto diretto. Giustamente, e in forma non solo affettuosa, Francesco ha chiamato il Vescovo emerito con la parola “nonno”, che non deve essere sottovalutata. Benedetto, infatti, è stato un padre del Concilio e il Concilio, come un figlio diventato adulto, ha generato Francesco. Il papa risponde, come un figlio, al Concilio e del Concilio. Questo cammino trova nell’istituto del “papa emerito” un elemento di possibile alterazione, poiché tende a “fermare la evoluzione”, che è vitale per la Chiesa. Se poi una “corte del papa emerito” favorisce una rielaborazione della tradizione, in cui i nonni ripudiano figli e nipoti, e lacerano la normale tradizione ecclesiale, allora è chiaro che un senso di tristezza avvolge tutta la vicenda e una domanda istituzionale di chiarezza diventa tanto più ragionevole. E così il figlio del Concilio, Francesco, deve ora prendersi cura del padre Vaticano II, e ne diventa in qualche modo responsabile, anche per custodirlo dalle intemperanze con cui il nonno, ma soprattutto gli amici del nonno, continuano ad assillarlo. Questa è la “obbedienza filiale” di cui abbiamo bisogno.

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