Intervista a Rosario Giuè
Chiesa e mafia, un problema ancora aperto
di Luca Kocci
«Il problema del rapporto tra Chiesa cattolica e mafia è una ferita ancora aperta. Anzi proprio il grande “rumore” che recentemente hanno fatto e continuano a fare le parole e gli atti di papa Francesco sta a dimostrare che nel passato ci sono stati silenzi, omissioni e talvolta compromissioni», come del resto ha affermato pochi giorni fa anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Rosario Giuè, prete palermitano già parroco a Brancaccio prima dell’arrivo di don Pino Puglisi, ha appena pubblicato con le edizioni Dehoniane un libro (Peccato di mafia, pp. 116, euro 10) nel quale mette a fuoco in maniera specifica proprio le relazioni fra Chiesa e mafia, anche per offrire suggerimenti e strumenti alla comunità ecclesiale per affrontare il nodo della liberazione dal potere mafioso, come risulta evidente dal sottotitolo del volume: Potere criminale e questioni pastorali.
Il tema centrale è l’azione pastorale, da modellare non in astratto, ma a partire dal contesto sociale e culturale che va ascoltato preliminarmente, seguendo il metodo della Teologia della Liberazione, di cui Giuè è studioso e “allievo” (recentemente ha pubblicato anche Chiesa e liberazione. Linee essenziali di teologia della liberazione, Tau editrice, 2013, pp. 104, euro 8). E allora ci si chiede: come annunciare il Vangelo in terre di mafia a partire dal basso, dalle vittime? Come definire la mafia dal punto di vista etico-teologico? Può aiutare in terre di potere mafioso narrare con più attenzione il Gesù storico? Quanto è importante l’uso accurato del linguaggio di fronte alla mafia? In che modo ci si può muovere sulla questione della conversione e del perdono nel contesto della mafia? Cosa comporta l’esercizio del ministero pastorale dalla parte dei crocifissi anche nel processo di liberazione dal potere mafioso? Domande da farsi camminando, perché la Chiesa possa recuperare pienamente la propria credibilità, prestando attenzione ai segni dei tempi e testimoniando e annunciando, in povertà, un Vangelo di liberazione, un Vangelo di dignità, a favore dell’uomo e della donna di oggi, a cominciare dalle vittime. «Perché se da parte della Chiesa c’è chiarezza nella testimonianza e nell’annuncio – spiega Giuè –, il mafioso si autoescluderà da solo, invece di cercare di utilizzare strumentalmente la religiosità per guadagnarsi consenso sociale».
Lo scorso 24 febbraio, il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, nella sua relazione annuale, ha detto: «Sono convinto che la Chiesa potrebbe moltissimo contro le mafie e gran parte delle responsabilità le ha proprio la Chiesa perché per secoli non ha fatto niente». Il segretario generale della Conferenza episcopale, mons. Nunzio Galantino, dal canto suo ha replicato intervenendo alla trasmissione di RaiUno “A sua immagine”: «Il dottor Roberti è bravo, sa fare bene il suo lavoro di magistrato, ma stavolta ha toppato: non è informato sufficientemente su quello che la Chiesa ha fatto», ha detto. «Su 36mila preti in Italia – ha ribattuto – ci sono quelli più coraggiosi e quelli che lo sono meno, ma parlare genericamente dei silenzi della Chiesa mi sembra non solo esagerato ma fuori posto». Lei che cosa ne pensa? Chi ha ragione fra i due?
«La questione del rapporto tra Chiesa cattolica e mafia è una ferita aperta. Le parole del procuratore Franco Roberti hanno dato visibilità a questa ferita. La beatificazione di don Giuseppe Puglisi non ha chiuso la questione. Chi pensava di poter dire “ormai anche noi abbiamo il nostro martire, il nostro santo”, “abbiamo dato”, “abbiamo fatto la nostra parte”, è fuori dalla realtà. Chi pensa così si muove in una prospettiva clericale. Le parole del procuratore Roberti, invece di essere accolte con disappunto, possono essere un’occasione utile e feconda per interrogarsi come istituzione ecclesiale».
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