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venerdì 13 marzo 2015

Due anni con Papa Francesco /1


Nella stanza 201 della Domus Sanctae Martae la sveglia suona puntuale ogni mattina alle 4.45, le luci si accendono alle finestre del secondo piano che si affacciano a Nord sulle piazzetta e la facciata meridionale della Basilica di San Pietro. Non ci sono aiutanti di camera né procedure di vestizione, Bergoglio fa da sé e non si cura di quanto è sempre accaduto, con variazioni inessenziali, nei secoli precedenti. Giusto due anni fa cominciava il Conclave che l’indomani, alle 18.50 del 13 marzo, avrebbe eletto l’arcivescovo di Buenos Aires. Il cardinale occupava la stanza 207, il Papa si limitò a spostarsi nella 201 e cambiò tutto. Ne sa qualcosa la guardia che pochi giorni dopo vegliava in corridoio sul sonno pontificio.

Marzo 2013, prima dell’alba. Si apre la porta ed esce il Papa che vede accanto alla soglia un giovane svizzero, irrigidito sull’attenti, lo sguardo fisso davanti a sé. «Sei stato in piedi tutta la notte, figlio?». Il ragazzo deglutisce e mormora che in effetti non proprio tutta, ha dato il cambio a un collega. Francesco annuisce, rientra in camera e ne esce con una sedia. Si narra anche di un panino con la marmellata. La guardia svizzera cerca di obiettare che il regolamento vieta di sedersi (per tacere della colazione servita dal Pontefice, chi lo sente il comandante), ma il Papa lo rassicura - anche perché in Vaticano, in fin dei conti, comanda lui - e il ragazzo si siede. 

Ecco, i «muri» hanno cominciato a crollare anche così. A partire dalla scelta di non vivere nell’«imbuto rovesciato» dell’Appartamento apostolico ma in albergo, «non posso vivere da solo», riservando a sé quella cinquantina scarsa di metri quadri: anticamera, studio con tavolino e due librerie a parete, stanzetta da letto monastica, arredi ridotti all’essenziale di legno scuro, luci al neon. Non è stato facile, ma in un paio d’anni chi vive e lavora in Vaticano e soprattutto nel «Convitto» - il Papa gesuita chiama l’albergo così, come in una comunità di religiosi - ha finito col farci l’abitudine. «Mah, io cerco di essere libero, ci sono appuntamenti di ufficio, di lavoro... Veramente mi piacerebbe poter uscire, però non si può... Ma poi la vita, per me, è la più normale che posso fare», ha spiegato ai giornalisti che gli chiedevano se non si sentisse prigioniero, lui che a Buenos Aires girava in metrò. «No, no. All’inizio sì, ma adesso sono caduti alcuni muri, non so, tipo “il Papa non può!”. ...

Quando gli si chiede come sta, a volte il Papa risponde, in italiano: «Sono vivo». E l’impressione è che Francesco stia facendo una constatazione con se stesso, prima che con gli altri. Sembra quasi voler dire: sono qui, resisto, e vado avanti. A due anni dalla sua elezione al Pontificato, il 13 marzo del 2013, in effetti è più vivo che mai. Vivo, non sopravvissuto: al punto che la tentazione di definire il suo come un biennio trionfale diventa prepotente. Ma va frenata. I successi «di pubblico», meglio, «di popolo», sono strabilianti: le folle lo acclamano ovunque, i governi se lo contendono. La sua pedagogia fa scuola. E in politica estera, anche grazie al ruolo del segretario di Stato, Pietro Parolin, è riuscito a restituire al Vaticano una presenza ed una credibilità che non si avvertivano da diversi anni: basta citare la mediazione sulla Siria dell’autunno del 2013 e, di recente, tra gli Stati uniti e Cuba.
Il «cantiere» Vaticano
Eppure, il 2015 restituisce una Roma papale in pieno rivolgimento. Proiettata verso una metamorfosi delle strutture e delle gerarchie, e insieme inquieta. Nel simbolico cantiere racchiuso tra le Sacre Mura non ci sono solo riformisti operosi ed entusiasti, ma ecclesiastici impauriti, disorientati; e in alcuni casi decisi a resistere, in attesa di un impossibile ritorno al passato. Francesco sa anche quanto il suo stile di comunicazione possa suscitare sconcerto. Quando nel gennaio scorso, ritornando in aereo dal viaggio nelle Filippine e a Sri Lanka, parlò dei cattolici che facevano figli «come conigli», le reazioni sono state almeno di stupore. Il giorno dopo Francesco ha letto i giornali, e si è confidato con i collaboratori. «Mi dispiace tanto, non mi sono fatto capire», avrebbe detto. Tra l’altro, sapeva che avrebbe fornito un pretesto a chi nella Curia, e non solo, tende a presentarlo come un Pontefice troppo ciarliero. 
Si tratta di una caricatura alimentata da quanti ritengono Francesco non una novità benefica per la Chiesa cattolica, ma una parentesi anomala accompagnata da qualche perplessità sulle sue capacità di governo: sebbene in realtà abbia esperienza di comando, e la faccia valere. ...
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Mancano poche ore al 13 marzo. Due anni fa il papa argentino, venuto «quasi dalla fine del mondo», è stato eletto come successore di Pietro, salutando la folla radunata in piazza San Pietro con un inedito «Fratelli e sorelle, buonasera!». Il primo gesuita, il primo latinoamericano e non europeo nella storia bimillenaria della Chiesa, il primo a scegliere di chiamarsi come il poverello di Assisi, il santo patrono d’Italia. In questi giorni per ricordare l’evento verranno spesi fiumi d’inchiostro e servizi televisivi a iosa. Una profusione mediatica a volontà. Che rischia di spostare l'attenzione sul "personaggio" più che sul "messaggio" che non smette di annunciare con la propria esistenza in tutto il globo.

Sicuramente Francesco ha conquistato i cuori di credenti e non credenti, e di chi professa fedi diverse da quella cattolica, per la sua umanità e schiettezza. Per i suoi sorrisi larghi e i suoi abbracci, le carezze e il pollice alzato. Per il fatto che vive a Santa Marta e usa un’utilitaria, porta al collo una croce di ferro e scarponi neri ai piedi, un orologio modesto e una ventiquattr’ore consunta. In due anni ha polverizzato uno stile pontificale compassato, curiale, che creava distanza con i fedeli e non solo.

Una vicinanza, una “prossimità” (come si dice in gergo ecclesialese, facendo diventare un sostantivo femminile generico quel “prossimo” di cui parla Gesù nei Vangeli, delineandone il profilo nella parabola del Buon samaritano) che nei sacri palazzi viene chiacchierata, additata. Non è ieratico, non è assertivo, secondo molti tradizionalisti. Ma forse bisogna uscire dalla logica conservatori/innovatori. Dai contro e i pro papa Bergoglio: conflitti inutili in ambito ecclesiale. Dannosi soprattutto perché inquinano il messaggio profondo che questo gesuita argentino sta consegnando a chi crede e a ogni persona che voglia accoglierlo. ...