Volendo riassumere con un’immagine il viaggio di papa Francesco in Corea, il pensiero va a un cuore pulsante che irrora di energie vitali il corpo fino alle sue estremità. Abbiamo avuto ancora una volta una chiara testimonianza di come il papa quando parla di “periferie” non usi una semplice metafora che tanti suoi pseudo-imitatori ora applicano a qualsiasi circostanza, ma riaffermi un aspetto centrale del suo ministero pastorale e delle modalità con cui intende esercitarlo.
Innanzitutto il riproporre a distanza di molti anni la scelta dell’estremo oriente come meta di un viaggio pastorale del vescovo di Roma lo ha condotto in prossimità di due “confini” apparentemente invalicabili, almeno nell’immediato: la Corea del Nord e la Cina. A questi due paesi così diversi per dimensioni, per storia anche recente, per posizione occupata nel consesso delle nazioni, il papa venuto “quasi dalla fine del mondo” si è rivolto in modo indiretto ma pregnante, da un lato ricordando l’unità della famiglia coreana e invocando riconciliazione e perdono, d’altro canto mettendo in bocca all’interlocutore le frasi che il suo atteggiamento vorrebbe suscitare: “questi cristiani non vengono come conquistatori, non vengono a toglierci la nostra identità: ci portano la loro, ma vogliono camminare con noi”.
Ma l’aspetto centrale del viaggio e dei numerosi discorsi pronunciati è una catechesi alla chiesa nel suo insieme: non solo alla chiesa coreana o ai vescovi asiatici, ma all’intero corpo ecclesiale, locale e universale, composto di laici e pastori, di giovani e di religiosi e religiose, una chiesa fondata e formata anche dai martiri di ogni stagione che hanno saputo e sanno donare la loro vita perché il seme del Vangelo germinasse nella compagnia degli uomini e delle donne del loro tempo. Anche per questo – e non per una brama di rincorrere l’attualità – non sono mancati i costanti riferimenti e le preghiere per la situazione dei cristiani in Iraq, in Siria e in Medioriente; per questo la canonizzazione dei martiri coreani ha proposto al culto e alla venerazione di tutta la chiesa – questo significa la proclamazione di un santo – dei testimoni di una vita evangelica radicalmente vissuta.
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Nessun essere umano è “effetto collaterale” di sciagure più grandi: ciascuno ha un valore inestimabile non solo agli occhi di Dio, ma anche per il cuore misericordioso di ogni discepolo di Cristo. Sì, papa Francesco ha mostrato di essere al cuore della chiesa non tanto perché è a capo del centro nevralgico e di potere del mondo cattolico, ma perché il suo cuore di uomo, di cristiano e di vescovo pulsa per diffondere la vita ricca di senso e di speranza che sgorga del Vangelo di Gesù Cristo.
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