Alla scuola di S. Giovanni Maria Vianney
di Antonio Savone
A scuola di umiltà
Il Curato d’Ars era un umanamente povero, non dotato di chissà quali capacità o risorse. Ha impiegato non poco per diventare prete anche se ben presto aveva cominciato a pensare a questa scelta di vita. Fu ordinato a 29 anni superando non poche traversie nelle quali emergeva la sua tenacia a voler rimanere fedele alla vocazione che egli riteneva ricevuta da Dio proprio mentre faceva esperienza dell’inadeguatezza dei suoi mezzi umani. Non aveva una memoria brillante, faticava ad intendere e a discernere: si possono immaginare le umiliazioni e le sconfitte cui fu sottoposto. Esami falliti, recriminazioni di ogni tipo. L’umiltà è stata senz’altro una delle virtù che più lo ha caratterizzato.
Oggi si esalta – anche in seno alla comunità cristiana e in seno al presbiterio – chi è pieno di sé, chi ha una fiducia incondizionata nelle proprie risorse, chi non arretra di fronte a nulla. Non poche volte queste sembrano le attitudini necessarie per un candidato al sacerdozio. Tuttavia, l’umiltà è la virtù che non può mancare in un cristiano e tanto più in un prete e in chi si prepara ad esserlo. Cosa intendo? L’umiltà come consapevolezza di non meritare il sacerdozio, come consapevolezza che il dono fattoci dal Signore è infinitamente più grande di noi: io non posso essere sacerdote pensando di bastare a me stesso ma solo in una comunione da cui ricevo molto e a cui devo molto. L’umiltà come verità, per usare un’espressione di s. Teresa.
Sono prete umile? Sono un seminarista umile? Come ho vissuto e come intendo vivere la dimensione dell’umiltà? Non c’è identità sacerdotale senza umiltà. Dove manca l’umiltà cresce l’ipocrisia, si moltiplica la presunzione, aumentano le pretese tanto da non essere più capaci di dono di sé ma solo uomini che dilatano a dismisura la loro bramosia di successo.
La vicenda del Curato d’Ars è stata una scuola che lo ha plasmato sulla via dell’umiltà giorno dopo giorno: pensiamo soltanto a quante tentazioni paurose ha subìto, quanti scoramenti di disperazione!
Oggi ci fa ridere che questo giovane prete trentenne abbia avuto paura dell’inferno. E invece deve farci pensare: non siamo forse troppo disinvolti? Non viviamo con una certa sicumera alcuni doni di Dio che se solo ne avessimo consapevolezza non ci farebbero che tremare? Quale consapevolezza che lui è i il Signore?
L’atteggiamento di umiltà è propedeutico a un itinerario vocazionale ma è anche ciò che fa una seria identità di prete.
Quando manca quel confronto continuo tra la mia condizione di fragilità e il mistero santo di Dio a me partecipato ecco che il ministero diventa ripetitivo, annoiato, ci si ritrova stanchi di fare sempre le stesse cose, di vivere sempre le stesse difficoltà. Dimentichiamo così che se ripetitivi possono essere i gesti il mistero non si ripete, sempre, di nuovo, si attua e si rende presente.
Il Curato d’Ars non era mai frustrato, mai stanco, mai deluso: le sue tentazioni di fuga, infatti, non nascevano da queste esperienze ma dallo sgomento che lo prendeva ogni volta che ripensava alla incommensurabilità del dono a lui partecipato.
Mentre noi vorremmo capire tutto, scandagliare tutto, quest’uomo conosceva bene un gesto che noi abbiamo disimparato: gettarsi a terra davanti al tabernacolo proprio per assaporare il mistero di non capire e nello stesso tempo la gioia di credere e di rimanere fedele.
Il mistero della mia fragilità esalta ed illustra la magnificenza del Signore.
A scuola di ministerialità
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A scuola di preghiera
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A scuola di perdono
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A scuola di carità
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