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venerdì 31 ottobre 2025

Giuseppe Savagnone La festa di Halloween come esorcizzazione della morte

Giuseppe Savagnone
La festa di Halloween come esorcizzazione della morte


I vivi e i morti

All’evidente declino della risonanza sociale delle feste cristiane dei santi e dei morti corrisponde, in Italia come nel resto del mondo occidentale, la trionfale affermazione di quella di Halloween, ormai entrata nel costume e ben più sentita di quelle della tradizione religiosa.

Le sue origini sono antichissime e risalgono all’Irlanda pre-crisitiana. Veniva celebrata il 31 ottobre, che nel calendario celtico segnava la fine della stagione del raccolto e l’inizio dell’inverno. Questa festa, col nome di Samhain, già due millenni fa rappresentava un vero e proprio capodanno per le popolazioni delle isole britanniche, da cui poi, alla metà dell’Ottocento, con l’ondata migratoria verso gli Stati Uniti, fu portata oltre oceano, dove trovò ampia diffusione.

Secondo la credenza originaria, in questa giornata il mondo terreno e quello dell’aldilà potevano incontrarsi. Gli spiriti dei morti ritornavano nel mondo dei vivi e bisognava in qualche modo fronteggiarli, perché non sempre avevano un atteggiamento amichevole. Sulla più antica festa stagionale, legata ai ritmi della natura, si è innestata, infatti, la leggenda irlandese del malvagio fabro Jack che, dopo aver promesso l’anima al diavolo, l’aveva più volte ingannato, cosicché, alla sua morte, neppure l’inferno l’aveva voluto accogliere ed era stato condannato a vagare in un’eterna oscurità, illuminata solo dalla debole luce di una candela custodita dentro una rapa svuotata.

Racconta la leggenda che durante la notte di Halloween Jack, insieme al ad altri spiriti, vaga alla ricerca di un rifugio. Alla radice di quella che ormai è diventata una festosa usanza sta questa visione problematica del rapporto tra i vivi e i morti. Le maschere spaventose, le decorazioni con pipistrelli, scheletri e altri simboli macabri rappresentano l’evoluzione moderna di rituali antichi il cui scopo era di confondere gli spiriti che, nella notte del 31 ottobre, si pensava vagassero sulla terra.

La stessa formula di rito “trick or treat”, “dolcetto o scherzetto”, che i bambini ripetono, girando di casa in casa, chiedendo dolci in dono, nasconde in realtà l’idea originaria di una minaccia, a cui corrisponde una negoziazione per evitare scherzi spiacevoli. L’alternativa posta è infatti tra trick, che significa “imbroglio”, “malizia”, “scherzo di cattivo genere”, e treat, che invece è il dono. E le zucche-lanterne fuori di casa, che col tempo hanno sostituito la rape, nel loro significato proprio servono ad esorcizzare la potenziale minaccia dei defunti.

Una lettura alternativa di Halloween

Non si può non confrontare questo messaggio con quello delle feste cristiane, dei santi e dei defunti, percepiti come protettori e amici, anzi, in alcuni contesti culturali – specie al sud – , come portatori di doni. È evidente che siamo davanti a due modi molto diversi di concepire la morte, dove il discrimine è la concezione cristiana che la vede come una purificazione volta a un compimento e non come la caduta in un mondo di ombre dove non c’è redenzione.

È comprensibile la resistenza della Chiesa cattolica al dilagare di una festività estranea alla nostra tradizione culturale e spirituale e importata dagli Stati Uniti sull’onda di una fortissimo incentivo consumistico. Papa Francesco parlava, a questo proposito, di una «cultura negativa sulla morte e sui morti».

Vi è però chi sottolinea che si tratta di una celebrazione il cui significato non è in fondo diverso da quello delle solennità cristiane: esorcizzare la morte e il terrore che essa ha sempre indotto nel cuore umano. Diversa, si dice, è solo la via per raggiungere questo obiettivo. Alla cupa visione che svaluta il mondo terreno esaltando la vita dell’oltretomba, Halloween contrappone, paganamente, una prospettiva ludica, in cui la morte è sconfitta da un rappresentazione in fondo parodistica, che alleggerisce l’esperienza della morte applicandole una buona dose di ironia.

«C’è chi, la notte del 31 ottobre, accende una candela dentro una zucca per ridere della paura e c’è chi, la stessa notte, accende una candela davanti a un altare per avere paura di ridere. Indovinate chi si diverte di più», scrive su «Il Dolomiti» Alessandro Giacomini. «Halloween è la notte in cui la gente ride della morte, esorcizza l’ignoto, prende in giro il male con ironia, tutto ciò che il potere religioso, per secoli, ha usato per tenere le persone soggiogate: la paura, l’oscurità, il peccato».

In questa lettura, Halloween diventa il simbolo di una società che ormai ha imparato a convivere con la finitezza della vita senza dovere fare i conti con la morte, anzi ridendoci su. Una interpretazione da prendere sul serio, perché permette di capire assai meglio della ricostruzione storico-filologica il successo di questa ricorrenza.

Corrisponde ad essa quella rimozione della morte che si registra nelle nostre società, rispetto a quelle del passato, in cui essa aveva un ruolo rilevante nell’esperienza dei vivi.

Prima il morente chiamava intorno a sé la famiglia e la sua fine implicava la trasmissione di una eredità, di un messaggio da conservare gelosamente nella memoria. Oggi si muore in ospedale o nell’ospizio, e se l’evento si verifica a casa, i bambini vengono mandati presso una famiglia amica perché non assistano. E la storia che ha vissuto chi è venuto prima non ha più alcun peso in un tempo che ha vissuto la “morte del padre” come radicale sganciamento dal suo esempio e dal suo insegnamento.

Il fatto è che nella nostra società è venuto meno «un orizzonte simbolico capace di far “vivere socialmente” il morire e che permetta di parlare della morte e insieme di parlare con il morente»; non ci sono più «parole capaci di far vivere socialmente il morire». Subentra la volontà di dominio che caratterizza la società tecnologica: «La morte in ospedale (…) finisce per essere una morte burocratizzata, dove il morire si dissolve in un contesto socio-organizzativo nel quale il funzionale si sostituisce all'umano. E insieme, una morte tecnicizzata, dove il morire tende ad essere sempre più programmato e pianificato» (Viafora).

A questo fenomeno sociale si accompagna quello culturale che tende a valorizzare la finitezza come tale, annullando il rimando a un “oltre” che essa, logicamente suppone. A differenza che nell’età moderna, dove il soggetto tendeva ad assolutizzarsi e a sostituire Dio (in certe filosofie si scriveva “Io” con I maiuscola), oggi ci si riconosce relativi, ma senza che questo implichi il riferimento a un Assoluto. Dio è diventato superfluo e con Lui anche l’idea di un destino eterno vissuto in comunione con Lui e separati da Lui. Chi parla più di paradiso e di inferno?

La censura sulla morte

Come stupirsi che anche il rapporto con i morti si sia progressivamente estenuato fino, in molti casi – soprattutto tra i giovani – , a scomparire? Certo, il 2 novembre molti andranno ancora al cimitero a portare un mazzo di fiori. I riti continueranno ancora per un certo tempo ad attestare un legame, ma la percezione collettiva va in una direzione opposta.

E anche nella vita personale il pensiero della morte è ormai censurato. Riaffiora soprattutto in occasione di tragici eventi – incidenti, morti premature per malattia – che improvvisamente ne rivelano la silenziosa prossimità. Ma tutto, nella nostra società, – con i suoi ritmi frenetici, il suo consumismo che sazia e stordisce, i suoi miraggi di successo – , è congegnato in modo da farcela dimenticare. Non abbiamo più eppure il tempo di pensarci!

Perciò Halloween. Ha ragione in fondo chi vede in questa festa una radicale alternativa alla visione cristiana. Lo sbaglio, se mai, è nel parlare di antidoto alla paura. Di fronte alla morte non si ha paura, perché essa non è un evento finale che conclude l’esistenza, ma l’orizzonte entro cui essa si svolge, traendone il senso della sua finitezza. I filosofi esistenzialisti hanno parlato di “angoscia”, che è piuttosto la presa di coscienza di questo orizzonte. E che questa presa di coscienza costituisca un elemento importante dell’esperienza umana lo testimoniano tutte le filosofie e tutte le forme di arte (penso qui, per portare solo un recente esempio, al bellissimo film «Il settimo sigillo», di Ingmar Bergman).

Forse perché è dal dialogo con la morte e dalla percezione del nulla che la vita stessa trae la sua ricchezza e la sua gioia, di cui sono fonte incessante lo stupore e la gratitudine di fronte all’esperienza dell’essere. E ci sarebbe da chiedersi se non sia proprio l’avere esorcizzato la domanda sulla morte – anche trasformando la festa dei santi e quella dei defunti nell’ennesimo evento consumistico – ad avere favorito quel nichilismo, denunziato da Galimberti, che svuota oggi la nostra esistenza.

Perché, come ha detto papa Francesco, proprio a proposito di Halloween, «dimenticare la morte è anche il suo inizio; chi dimentica la morte ha già iniziato a morire».
(fonte: Tuttavia 30/10/2025)

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Vedi anche il post (all'interno link ad altri precedenti):


VITTORIO ROCCA: La fede come risposta all’iniziativa di Dio Trinità nella storia umana (VIDEO)

La fede come risposta all’iniziativa di Dio
Trinità nella storia umana
di Vittorio Rocca

22.10.2025 - Primo dei Mercoledì della Spiritualità 2025

VIVERE NELL’OGGI CON PROFEZIA
IL SIMBOLO DELLA FEDE

promossi dalla Fraternità Carmelitana 
di Barcellona Pozzo di Gotto



1. Premessa: la memoria del Concilio di Nicea

Quest’anno stiamo celebrando i 1700 anni del primo concilio della storia della Chiesa, svoltosi a Nicea, l’attuale Turchia, nel 325. Si tratta indubbiamente del concilio fondamentale di tutta la storia della Chiesa. È importante contestualizzare storicamente. Siamo nei primi secoli del cristianesimo. Nel 303 aveva avuto inizio la grande persecuzione di Diocleziano, alla quale avevano dato seguito i suoi successori. Nel 313 l’imperatore Costantino legittima il cristianesimo con il c.d. editto di Milano. Alcuni anni dopo, un presbitero di Alessandria d’Egitto, un certo Ario, per difendere dal suo punto di vista l’unicità di Dio, insegna che il Verbo o il Figlio non può essere Dio, ma una creatura di Dio. Ciò provoca dissidi, discordie, scontri anche violenti. Costantino ritiene allora di dover intervenire a ristabilire la concordia, convocando un concilio, il primo concilio ecumenico, cui parteciparono circa 300 vescovi. Scopo del concilio di Nicea era dimostrare, nel modo più ufficiale e solenne possibile, che il Verbo di Dio, Gesù, era di fatto Dio come il Padre. Il concilio ha composto così un simbolo della fede, un Credo, che ha riprodotto la professione di fede che ancora oggi ripetiamo la domenica.

A cosa serve oggi ricordare quei fatti così lontani da noi? Afferma padre Raniero Cantalamessa: «Tutte le innumerevoli iniziative storiche, teologiche ed ecumeniche che avranno luogo in occasione del centenario di Nicea saranno – per Dio e per la Chiesa – pressoché inutili, se non serviranno allo scopo a cui servì Nicea, e cioè a confermare e, dove è necessario, a ridestare nei cristiani la fede nella divinità di Cristo e nella Trinità di Dio […] Non basta ripetere il Credo di Nicea; occorre rinnovare lo slancio di fede che si ebbe allora nella divinità di Cristo e di cui non c’è più stato più l’uguale nei secoli»[1].

Di fronte alla temperie culturale, sociale e religiosa che oggi viviamo dominata (spesso in nome di Dio!) dalla cultura della legge del più forte, che nega il rispetto della dignità umana dell’altro e l’autodeterminazione dei popoli, con tutto quel che ne consegue in affermazione del primato della guerra e degli interessi economici e finanziari sul vero dialogo e la vera diplomazia, la comunità credente non può accontentarsi di semplici parole di disappunto, ma responsabilmente chiedersi, con coraggio e profezia: in quale Dio confidiamo, speriamo, viviamo ed esistiamo? Forse Dio non lo stiamo “confezionando” come un idolo “a nostra immagine e somiglianza”, a nostro uso e consumo, a copertura del nostro cinismo e delle nostre menzogne?
...
La fede allora è credere e comprendere insieme, è quel tipo d’intelligenza in cui l’io si scopre accolto e amato prima di ogni suo progetto e desiderio e in cui il mondo è il dono e il riflesso dell’Amore che per primo lo ha amato e continua ad amarlo, come ricorda Gesù nel suo discorso sulla montagna, quando invita i discepoli a guardare gli uccelli del cielo e i gigli del campo, non preoccupandosi del domani (cf. Mt 6,25-34).

GUARDA IL VIDEO

Leggi anche il post già pubblicato:

Leone XIV: «Il mondo ha sete di pace... Basta guerre... Solo la pace è santa... Bisogna osare la pace!»

Leone XIV:
«Il mondo ha sete di pace... Basta guerre... 
Solo la pace è santa... Bisogna osare la pace!»


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Il forte appello del Papa all’incontro organizzato al Colosseo dalla Comunità di Sant’Egidio
Basta guerre!
Solo la pace è santa


«Basta guerre, con i loro dolorosi cumuli di morti, di distruzioni, esuli! Noi oggi, insieme, manifestiamo non solo la nostra ferma volontà di pace, ma anche la consapevolezza che la preghiera è una grande forza di riconciliazione»; perché «mai la guerra è santa». Per Leone XIV è questo il significato più autentico dell’Incontro “Osare la pace”, svoltosi martedì pomeriggio al Colosseo su iniziativa della Comunità di Sant’Egidio. Alla presenza di leader di altre Chiese e confessioni cristiane e di religioni di tutto il mondo, il Pontefice ha esortato a ricorrere alla «forza della preghiera» e usando un’immagine fortemente evocativa quella di «mani nude alzate al cielo e aperte verso gli altri» ha espresso l’auspicio «che tramonti presto questa stagione della storia segnata dalla guerra e dalla prepotenza della forza e inizi una storia nuova», una «storia diversa del mondo», ha detto citando Giorgio La Pira. «Non possiamo accettare che questa stagione perduri oltre — è stata la sua denuncia —, che plasmi la mentalità dei popoli, che ci si abitui alla guerra come compagna normale della storia umana». Da qui l’accorato «Basta!» del Papa, che è anche «il grido dei poveri e della terra».

Per approfondire leggi anche:
(fonte: L'Osservatore Romano 29/10/2025)

giovedì 30 ottobre 2025

A chi sa osservare non servono le parole per comprendere... Jannik Sinner, perché quella mano segnata è importante al di là del tennis

A chi sa osservare non servono le parole per comprendere...


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Jannik Sinner, perché quella mano segnata
è importante al di là del tennis

Jannik Sinner saluta il pubblico sventolando la mano destra subito dopo il torneo di Vienna, appena vinto in rimonta contro Alexandre Zverev, un gesto di sobria esultanza, come solito suo. La foto di quel gesto dal profilo Instagram ufficiale diventa virale. Ad attirare l’attenzione non sono tanto il successo o il gesto, ma il palmo del giocatore, che manda un messaggio controcorrente nel mondo contemporaneo


Jannik Sinner saluta il pubblico sventolando la mano destra subito dopo il torneo di Vienna, appena vinto in rimonta contro Alexandre Zverev, un gesto di sobria esultanza, come solito suo. La foto di quel gesto dal suo profilo Instagram ufficiale diventa virale, la Rete se la passa senza sosta. Ad attirare l’attenzione non sono tanto il successo o il gesto, ma il palmo della mano destra. Lì per lì la si direbbe sporca di terra rossa, ma il torneo di Vienna si gioca al chiuso sul cemento: quei segni rossi sono i calli, le pressioni della racchetta impugnata giorno per giorno.

La mano è l’emblema della fatica e dell’impegno quotidiano di un lavoro manuale, che, per quanto pagatissimo, non si può evitare né delegare. Colpisce quella mano perché ricorda al mondo che il successo in un campo in cui bisogna dimostrare (vale per lo sport, per la musica, per lo studio...) è una conquista di fatica quotidiana, che è stata anche dolore perché prima che un callo così maturi si mettono in conto abrasioni, vesciche e piaghe: una fatica che non può essere delegata ad altri o ad altro, né sostituita da nessun dispositivo, da nessun surrogato, da nessuna IA, da nessuna scorciatoia, ma che quando le partite si fanno dure torna in termini di allenamento fisico e mentale a resistere.

Un messaggio cifrato, magari involontario, che suona controcorrente in giorni in cui fanno notizia atti giudiziari che citano precedenti inesistenti, forse frutto di interventi dell’Intelligenza artificiale, smascherati da Cassazione e Tar; in un tempo in cui i professori universitari vivono con il sospetto che gli esami scritti possano essere truccati dal ricorso a dispositivi elettronici nascosti; in una fase storica in cui ci si illude che basti copiare i compiti a casa da Google, perché tentati di credere che la fatica di studiare sia inutile, tanto è forte la tentazione di credere che portare uno smartphone in tasca da interrogare all’occorrenza sia un valido surrogato della conquista della conoscenza.

La palla corta, oggi tanto efficace nel gioco di Sinner, e ormai diventata naturale come ha ammesso a Vienna lo stesso giocatore, non è frutto di puro talento, di naturalità istintiva, ma di fatica, di lavoro, di infinite ripetizioni, di tentativi e di errori, di pazienza e frustrazione, di conquista al prezzo dell’impegno, dell’abnegazione, della noia. Tutte parole un poco fuori moda in un tempo storico, in cui - ci insegnano gli esperti – sono spesso gli stessi adulti a rimuovere i concetti di fatica e frustrazione dall’esperienza della crescita.

Mentre è solo allenandosi a fare ciò che non si ha già nelle corde e non viene facile che si impara davvero, come ogni bravo insegnante incontrato nella vita ci ha dimostrato.

Il percorso che ha portato il ragazzo che picchiava tutte le palline e conosceva solo un pressing asfissiante da fondo campo al vertice del tennis mondiale è la puntigliosa quotidiana conquista di colpi mancanti: la palla corta che adesso c’è, ormai completamente automatizzata; le volée che sono a ottimo punto e all’occorrenza portano il punto anche se possono rivelare ancora margini di miglioramento; il servizio sempre più efficace ma ancora in affinamento. Mattoncini sbozzati e acquisiti al cantiere del gioco una ripetizione alla volta, di cui i segni sulla mano, insieme al gioco che progressivamente si arricchisce, sono la prova.
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Elisa Chiari 28/10/2025)


29/10/2025 UDIENZA GENERALE Leone XIV: la Chiesa non tollera l'antisemitismo e lo combatte a motivo del Vangelo (cronaca/sintesi, testo, foto e video)

LEONE XIV
UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 29 ottobre 2025


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Il Papa: la Chiesa non tollera l'antisemitismo e lo combatte a motivo del Vangelo

Leone XIV dedica al dialogo interreligioso e al messaggio del documento conciliare Nostra Aetate, la catechesi dell'udienza generale in piazza San Pietro. Rievoca le radici ebraiche del cristianesimo e suggerisce una serie di temi su cui tutte le religioni possono lavorare insieme: ecologia, lotta all’estremismo, Intelligenza Artificiale. Infine l’appello a fare in modo “che nulla ci divida”


Tutti i miei predecessori hanno condannato l’antisemitismo con parole chiare. E così anch’io confermo che la Chiesa non tollera l'antisemitismo e lo combatte, a motivo del Vangelo stesso

È una parola netta e diretta quella che Papa Leone XIV consegna nella catechesi dell’udienza generale di oggi, mercoledì 29 ottobre, in piazza San Pietro, ribadendo la totale incompatibilità tra il Vangelo, il magistero della Chiesa e l’antisemitismo. L’udienza, preceduta da un lungo giro in papamobile durante il quale Leone XIV ha salutato diversi bambini e la folla di fedeli fino a Piazza Pio XII, è dedicata – come lui stesso annuncia - al “dialogo interreligioso”. Spunto sono le celebrazioni per i sessant’anni della Dichiarazione Nostra aetate approvata dal Concilio Vaticano II proprio il 28 ottobre 1965.

Come compagni di viaggio

Ricordando il dialogo tra Gesù e la samaritana, nato dalla sete di Dio e che supera le barriere di cultura, genere e religione, il Papa sottolinea che questo momento coglie il nucleo stesso del dialogo interreligioso. Su questa scia spiega che il documento conciliare ridefiniva i rapporti tra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane, in particolare l’ebraismo, e “aprì – evidenzia il Pontefice - un nuovo orizzonte di incontro, rispetto e ospitalità spirituale”. Guardando in modo arricchente ai seguaci di altre religioni.

Come compagni di viaggio sulla via della verità; a onorare le differenze affermando la nostra comune umanità; e a discernere, in ogni ricerca religiosa sincera, un riflesso dell’unico Mistero divino che abbraccia tutta la creazione.

La Chiesa deplora gli odi, le persecuzioni e l’antisemitismo

Con questo documento, spiega ancora il Pontefice, Papa Giovanni XXIII intendeva rifondare il rapporto originario con il mondo ebraico, dando forma, “per la prima volta nella storia della Chiesa”, al tratto dottrinale sulle radici ebraiche del cristianesimo e che sul piano biblico e teologico rappresentasse “un punto di non ritorno”. Un riconoscimento dunque del legame tra “il popolo del Nuovo Testamento” e “la stirpe di Abramo”.

La Chiesa, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque.

Un’amicizia solida

“Oggi – aggiunge il Papa - possiamo guardare con gratitudine a tutto ciò che è stato realizzato nel dialogo ebraico-cattolico in questi sei decenni. Ciò non è dovuto solo allo sforzo umano, ma all’assistenza del nostro Dio che, secondo la convinzione cristiana, è in sé stesso dialogo”.

Non possiamo negare che in questo periodo ci siano stati anche malintesi, difficoltà e conflitti, che però non hanno mai impedito la prosecuzione del dialogo. Anche oggi non dobbiamo permettere che le circostanze politiche e le ingiustizie di alcuni ci distolgano dall’amicizia, soprattutto perché finora abbiamo realizzato molto.

L'udienza generale sul sagrato di Piazza San Pietro (@VATICAN MEDIA)

Le radici nell’amore

Leone XIV rammenta che lo spirito della Nostra aetate continua a illuminare il cammino della Chiesa, riconoscendo che tutte le religioni possono riflettere “un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”, cercando risposte ai misteri della vita portando il dialogo anche ad un livello spirituale. Da qui l’invito a “coinvolgersi” riconoscendo tutto ciò che è buono, vero e santo nelle diverse tradizioni, in particolare nel mondo di oggi “dove, a motivo della mobilità umana, le nostre diversità spirituali e di appartenenza sono chiamate a incontrarsi e a convivere fraternamente”.

Nostra Aetate ci ricorda che il vero dialogo affonda le sue radici nell’amore, unico fondamento della pace, della giustizia e della riconciliazione, mentre respinge con fermezza ogni forma di discriminazione o persecuzione, affermando la pari dignità di ogni essere umano.

Agire insieme contro il fanatismo religioso e l’estremismo

Il coinvolgimento di cui parla il Papa diventa, su sua indicazione, l’agire insieme in un mondo che “ha bisogno della nostra unità, della nostra amicizia e della nostra collaborazione”. Leone XIV si riferisce a degli ambiti in cui operare in modo condiviso per alleviare le sofferenze dell’uomo e prendersi cura, ad esempio, della casa comune e non solo.

Le nostre rispettive tradizioni insegnano la verità, la compassione, la riconciliazione, la giustizia e la pace. Dobbiamo riaffermare il servizio all'umanità, in ogni momento. Insieme, dobbiamo essere vigilanti contro l’abuso del nome di Dio, della religione e dello stesso dialogo, nonché contro i pericoli rappresentati dal fondamentalismo religioso e dall'estremismo.

L’intelligenza artificiale e i suoi pericoli

Tra i temi da affrontare c’è anche quello dell’Intelligenza artificiale, che “se concepita in alternativa all’umano, può gravemente l’infinita dignità e neutralizzarne le fondamentali responsabilità”.

Le nostre tradizioni hanno un immenso contributo da dare per l’umanizzazione della tecnica e quindi per ispirare la sua regolazione, a protezione dei diritti umani fondamentali.

La speranza nel mondo di domani

Le religioni, continua il Papa, insegnano che “la pace inizia nel cuore dell’uomo” e pertanto possono offrire un importante contributo perché sia possibile “un mondo nuovo”. “Dobbiamo riportare la speranza nelle nostre vite personali, nelle nostre famiglie, nei nostri quartieri, nelle nostre scuole, nei nostri villaggi, nei nostri Paesi e nel nostro mondo”. Il Pontefice evidenzia che Nostra aetate, sessant’anni fa, ha portato speranza al mondo del secondo dopoguerra.

Oggi siamo chiamati a rifondare quella speranza nel nostro mondo devastato dalla guerra e nel nostro ambiente naturale degradato. Collaboriamo, perché se siamo uniti tutto è possibile. Facciamo in modo che nulla ci divida.

Leader di altre religioni in ascolto del Papa (@Vatican Media)

La base del dialogo e la preghiera

È nell’amicizia e nella collaborazione che le generazioni future potranno guardare per continuare il dialogo.

E ora, fermiamoci un momento in preghiera silenziosa: la preghiera ha il potere di trasformare i nostri atteggiamenti, i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni.
(fonte: Vatican News, articolo di Daniele Piccini 29/10/2025)

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Leone XIV
Catechesi in occasione del 60° anniversario della Dichiarazione conciliare Nostra aetate



Cari fratelli e sorelle, pellegrini nella fede e rappresentanti delle diverse tradizioni religiose! Buongiorno, benvenuti!

Al centro della riflessione odierna, in questa Udienza Generale dedicata al dialogo interreligioso, desidero porre le parole del Signore Gesù alla donna samaritana: «Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (Gv 4,24). Nel Vangelo, questo incontro rivela l’essenza dell’autentico dialogo religioso: uno scambio che si instaura quando le persone si aprono l’una all’altra con sincerità, ascolto attento e arricchimento reciproco. È un dialogo nato dalla sete: la sete di Dio per il cuore umano e la sete umana di Dio. Al pozzo di Sicar, Gesù supera le barriere di cultura, di genere e di religione. Invita la donna samaritana a una nuova comprensione del culto, che non è limitato a un luogo particolare – “né su questa montagna né a Gerusalemme” – ma si realizza in Spirito e verità. Questo momento coglie il nucleo stesso del dialogo interreligioso: la scoperta della presenza di Dio al di là di ogni confine e l’invito a cercarlo insieme con riverenza e umiltà.

Sessant’anni fa, il 28 ottobre 1965, il Concilio Vaticano II, con la promulgazione della Dichiarazione Nostra aetate, aprì un nuovo orizzonte di incontro, rispetto e ospitalità spirituale. Questo luminoso Documento ci insegna a incontrare i seguaci di altre religioni non come estranei, ma come compagni di viaggio sulla via della verità; a onorare le differenze affermando la nostra comune umanità; e a discernere, in ogni ricerca religiosa sincera, un riflesso dell’unico Mistero divino che abbraccia tutta la creazione.

In particolare, non va dimenticato che il primo orientamento di Nostra aetate fu verso il mondo ebraico, con cui San Giovanni XXIII intese rifondare il rapporto originario. Per la prima volta nella storia della Chiesa doveva così prendere forma un trattato dottrinale sulle radici ebraiche del cristianesimo, che sul piano biblico e teologico rappresentasse un punto di non ritorno. «Il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti» (NA, 4). Così, la Chiesa, «memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque» (ibid.). Da allora, tutti i miei predecessori hanno condannato l’antisemitismo con parole chiare. E così anch’io confermo che la Chiesa non tollera l'antisemitismo e lo combatte, a motivo del Vangelo stesso.

Oggi possiamo guardare con gratitudine a tutto ciò che è stato realizzato nel dialogo ebraico-cattolico in questi sei decenni. Ciò non è dovuto solo allo sforzo umano, ma all’assistenza del nostro Dio che, secondo la convinzione cristiana, è in sé stesso dialogo. Non possiamo negare che in questo periodo ci siano stati anche malintesi, difficoltà e conflitti, che però non hanno mai impedito la prosecuzione del dialogo. Anche oggi non dobbiamo permettere che le circostanze politiche e le ingiustizie di alcuni ci distolgano dall’amicizia, soprattutto perché finora abbiamo realizzato molto.

Lo spirito della Nostra aetate continua a illuminare il cammino della Chiesa. Essa riconosce che tutte le religioni possono riflettere «un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (n. 2) e cercano risposte ai grandi misteri dell’esistenza umana, così che il dialogo deve essere non solo intellettuale, ma profondamente spirituale. La Dichiarazione invita tutti i cattolici – vescovi, clero, persone consacrate e fedeli laici – a coinvolgersi sinceramente nel dialogo e nella collaborazione con i seguaci di altre religioni, riconoscendo e promuovendo tutto ciò che è buono, vero e santo nelle loro tradizioni (cfr ibid.). Questo è oggi necessario praticamente in ogni città del mondo dove, a motivo della mobilità umana, le nostre diversità spirituali e di appartenenza sono chiamate a incontrarsi e a convivere fraternamente. Nostra aetate ci ricorda che il vero dialogo affonda le sue radici nell’amore, unico fondamento della pace, della giustizia e della riconciliazione, mentre respinge con fermezza ogni forma di discriminazione o persecuzione, affermando la pari dignità di ogni essere umano (cfr NA, 5).

Quindi, cari fratelli e sorelle, a sessant’anni dalla Nostra aetate, possiamo chiederci: cosa possiamo fare insieme? La risposta è semplice: agiamo insieme. Più che mai, il nostro mondo ha bisogno della nostra unità, della nostra amicizia e della nostra collaborazione. Ciascuna delle nostre religioni può contribuire ad alleviare le sofferenze umane e a prendersi cura della nostra casa comune, il nostro pianeta Terra. Le nostre rispettive tradizioni insegnano la verità, la compassione, la riconciliazione, la giustizia e la pace. Dobbiamo riaffermare il servizio all'umanità, in ogni momento. Insieme, dobbiamo essere vigilanti contro l’abuso del nome di Dio, della religione e dello stesso dialogo, nonché contro i pericoli rappresentati dal fondamentalismo religioso e dall'estremismo. Dobbiamo anche affrontare lo sviluppo responsabile dell’intelligenza artificiale, perché, se concepita in alternativa all’umano, essa può gravemente violarne l’infinita dignità e neutralizzarne le fondamentali responsabilità. Le nostre tradizioni hanno un immenso contributo da dare per l’umanizzazione della tecnica e quindi per ispirare la sua regolazione, a protezione dei diritti umani fondamentali.

Come tutti sappiamo, le nostre religioni insegnano che la pace inizia nel cuore dell’uomo. In questo senso, la religione può svolgere un ruolo fondamentale. Dobbiamo riportare la speranza nelle nostre vite personali, nelle nostre famiglie, nei nostri quartieri, nelle nostre scuole, nei nostri villaggi, nei nostri Paesi e nel nostro mondo. Questa speranza si fonda sulle nostre convinzioni religiose, sulla convinzione che un mondo nuovo sia possibile.

Nostra aetate, sessant’anni fa, ha portato speranza al mondo del secondo dopoguerra. Oggi siamo chiamati a rifondare quella speranza nel nostro mondo devastato dalla guerra e nel nostro ambiente naturale degradato. Collaboriamo, perché se siamo uniti tutto è possibile. Facciamo in modo che nulla ci divida. E in questo spirito, desidero esprimere ancora una volta la mia gratitudine per la vostra presenza e la vostra amicizia. Trasmettiamo questo spirito di amicizia e collaborazione anche alla generazione futura, perché è il vero pilastro del dialogo.

E ora, fermiamoci un momento in preghiera silenziosa: la preghiera ha il potere di trasformare i nostri atteggiamenti, i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni.

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Saluti
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APPELLO

In questi giorni si è abbattuto sulla Giamaica l’uragano “Melissa”, una tempesta dalla potenza catastrofica, che sta provocando violente inondazioni e in queste ore, con la stessa forza devastante, sta attraversando Cuba. Sono migliaia le persone sfollate, mentre sono state danneggiate case, infrastrutture e diversi ospedali. Assicuro a tutti la mia vicinanza, pregando per coloro che hanno perso la vita, per quanti sono in fuga e per quelle popolazioni che, in attesa degli sviluppi della tempesta, stanno vivendo ore di ansia e preoccupazione. Incoraggio le Autorità civili a fare tutto il possibile e ringrazio le comunità cristiane, insieme agli organismi di volontariato, per il soccorso che stanno prestando.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai fedeli di lingua italiana, in particolare alle Suore Francescane Alcantarine, che celebrano il Capitolo Generale, e alla Comunità Monastica di Monte Oliveto Maggiore. Accolgo con affetto il pellegrinaggio della Diocesi di Conversano-Monopoli, con il Vescovo Mons. Giuseppe Favale, e il pellegrinaggio della Diocesi di Bolzano-Bressanone, con il Vescovo Mons. Ivo Muser. Su tutti invoco dalla Vergine Maria ogni desiderato bene e formulo fervidi voti che ciascuno possa rendere ovunque una generosa testimonianza evangelica. Saluto altresì l’Associazione Nazionale Dirigenti pubblici e Alte professionalità della Scuola, il gruppo di Italia Nostra e l’Oasi Mamma dell’amore di Brescia.

Saluto, infine, i malati, gli sposi novelli e i giovani, specialmente gli studenti dell’Istituto Nostra Signora del Suffragio di Roma, della Scuola Sacro Cuore di Roma e della Scuola Santa Teresa del Bambino Gesù di Santa Marinella. Ieri la Liturgia ha fatto memoria dei Santi Apostoli Simone e Giuda Taddeo. Il loro esempio incoraggi voi, ammalati, a seguire sempre Gesù nel cammino della prova; aiuti voi, sposi novelli, a fare della vostra famiglia il luogo dell’incontro con l'amore di Dio e dei fratelli; sostenga voi, giovani, nell'impegno di fedeltà a Cristo. A tutti la mia benedizione!


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Leone XIV firma la Lettera Apostolica “Disegnare mappe di speranza” per il 60° anniversario Concilio Vaticano II che ha aperto la Chiesa al dialogo ecumenico e interreligioso

Leone XIV firma la Lettera Apostolica 
“Disegnare mappe di speranza” 
per il 60° anniversario Concilio Vaticano II
che ha aperto la Chiesa al dialogo ecumenico e interreligioso 


Un testo per riaffermare il dialogo tra le religioni e l’impegno educativo nel costruire ponti di fraternità e di pace

Nel cuore della basilica di San Pietro, davanti a migliaia di studenti, docenti e religiosi riuniti per la messa del Giubileo del mondo educativo, Papa Leone XIV ha firmato nel pomeriggio del 27 ottobre la lettera apostolica Disegnare mappe di speranza. Un gesto compiuto a sorpresa, prima dell’inizio della celebrazione, ma che racchiude un forte valore simbolico e spirituale: riaffermare, sessant’anni dopo la dichiarazione conciliare Nostra Aetate, l’urgenza del dialogo interreligioso e della cooperazione tra culture e fedi diverse in un tempo segnato da guerre, divisioni e smarrimento etico.

Il documento, pubblicato il giorno seguente in coincidenza con l’anniversario della storica dichiarazione del Concilio Vaticano II sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, vuole indicare — come ha spiegato il Papa nei giorni scorsi — “nuove rotte di fraternità”, invitando credenti e non credenti a riscoprire la responsabilità comune verso la pace e la dignità umana.

L’iniziativa nasce nel solco della tradizione conciliare, ma la prospettiva è pienamente contemporanea. Leone XIV, fin dall’inizio del suo pontificato, ha sottolineato la necessità di un rinnovato impegno per l’educazione al dialogo e alla solidarietà universale, ribadendo che “ogni muro culturale o religioso è un ostacolo alla pace”. Con la lettera Disegnare mappe di speranza, il Pontefice sembra voler aggiornare l’eredità del Concilio Vaticano II, adattandola a un mondo globalizzato, attraversato da tensioni etniche e crisi geopolitiche che minacciano la convivenza pacifica tra i popoli.

La scelta di firmare il documento nel contesto del Giubileo dedicato al mondo educativo non è casuale. Leone XIV ha più volte richiamato le università e le istituzioni formative a diventare “laboratori di dialogo”, capaci di unire la ricerca della verità con la costruzione di relazioni umane fondate sulla reciproca stima. L’educazione, secondo il Papa, resta la chiave per disegnare davvero “mappe di speranza”, cioè percorsi di riconciliazione e di incontro tra culture.

L’atto di oggi, dunque, non è solo una celebrazione della memoria conciliare, ma anche un atto programmatico: un invito a riprendere il cammino di fraternità tracciato sessant’anni fa e a tradurlo nelle sfide del presente. In un tempo in cui tornano le logiche di esclusione e di conflitto, Leone XIV indica la rotta di un umanesimo condiviso, in cui la fede non divide, ma illumina la strada comune dell’umanità.

In occasione dell’anniversario della enciclica Nostra Aetate, il Vaticano renderà pubblico il testo integrale della lettera apostolica, destinata a diventare una pietra miliare del pontificato di Leone XIV, il Papa che fin dal primo giorno invita la Chiesa e il mondo a “non smettere di credere nella pace e di disegnarne insieme le mappe”.

Sessant’anni di “Nostra aetate”: il coraggio del dialogo che continua

A sessant’anni dalla dichiarazione Nostra aetate, il documento conciliare che cambiò per sempre i rapporti tra la Chiesa cattolica e le altre religioni, il messaggio di apertura e fraternità che ne scaturì risuona oggi con una forza nuova. La recente lettera apostolica di Papa Leone XIV, Disegnare mappe di speranza, ne raccoglie l’eredità, ma la rilancia in un mondo segnato da nuovi muri e da conflitti identitari che rischiano di oscurare la speranza.

Quando il 28 ottobre 1965 Paolo VI promulgò la Nostra aetate, il Concilio Vaticano II decise di guardare alle religioni non cristiane non più come a rivali della verità, ma come a interlocutori nel cammino verso il senso ultimo dell’esistenza. Fu una rivoluzione teologica e pastorale. Per la prima volta la Chiesa riconobbe esplicitamente “quanto di vero e di santo si trova” nelle altre fedi, respingendo ogni forma di antisemitismo e ogni discriminazione fondata su razza o religione.

Sessant’anni dopo, Papa Leone XIV riprende quello spirito con parole che invitano a rimettere al centro “la dignità dell’uomo come immagine di Dio” e la comune responsabilità di credenti e non credenti nella costruzione della pace. La Nostra aetate – ha ricordato il Pontefice nei giorni scorsi – “non è una reliquia conciliare, ma una mappa ancora aperta”, un orizzonte che chiede di essere tradotto in gesti concreti di fraternità.

Il contesto storico è radicalmente diverso, ma le sfide non sono meno drammatiche. Allora si usciva da due guerre mondiali e dall’orrore della Shoah; oggi il mondo è lacerato da conflitti in Medio Oriente, da persecuzioni religiose, da nuove forme di esclusione culturale e tecnologica. In entrambe le epoche, la tentazione è la stessa: cedere alla paura dell’altro.

Per questo la *Nostra aetate* rimane un testo profetico. Il suo invito a “superare ogni inimicizia e a collaborare per la giustizia e la pace” è più attuale che mai. Non fu solo un documento di dottrina, ma una conversione dello sguardo: la consapevolezza che la verità non si difende chiudendosi, ma aprendosi al dialogo.

Papa Leone XIV prosegue su questa linea, rafforzando l’idea che il dialogo interreligioso non è una diplomazia spirituale, ma una forma di testimonianza evangelica. “Il cristiano che incontra l’altro – ha detto recentemente – non rinuncia alla propria fede, ma la purifica dall’orgoglio e dalla paura”.

L’impatto della Nostra aetate è stato profondo: ha aperto la via ai rapporti con l’ebraismo, con l’islam, con l’induismo e il buddismo, fino al dialogo con le culture secolari e laiche. Ha ispirato gesti concreti come la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma nel 1986, l’incontro interreligioso di Assisi e, più recentemente, il “Documento sulla fratellanza umana” firmato da Papa Francesco ad Abu Dhabi nel 2019. Leone XIV, oggi, prosegue quel cammino indicando il dialogo come “condizione di sopravvivenza spirituale” in un’epoca di fratture globali.

La Nostra aetate continua dunque a parlare al mondo: è la voce di una Chiesa che non rinuncia alla propria identità, ma la vive come servizio e incontro. E in questo anniversario, la nuova lettera di Leone XIV rappresenta non un ritorno al passato, ma una chiamata a un futuro di responsabilità condivisa.

Sessant’anni dopo, l’appello conciliare a riconoscere “gli uomini come fratelli” non ha perso la sua forza rivoluzionaria. Anzi, in un tempo di guerre e diffidenze, suona come un monito e una promessa: solo tornando allo spirito della Nostra aetate si può davvero “disegnare mappe di speranza” per il XXI secolo.
(fonte: Faro di Roma, articolo di Chiara Lonardo 27/10/2025)

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Leggi anche il testo integrale della lettera apostolica DISEGNARE NUOVE MAPPE DI SPERANZA


mercoledì 29 ottobre 2025

Papa Leone XIV invoca Maria e don Tonino Bello: “Beati gli operatori di pace”

“Una Chiesa umile, radicata nell’amore e testimone di unità”.
Papa Leone XIV invoca Maria e don Tonino Bello:
“Beati gli operatori di pace” 


Papa Leone XIV ha concluso la sua omelia della messa in occasione del Giubileo delle Équipe sinodali invocando, in San Pietro, l’intercessione della Vergine Maria con le parole del Servo di Dio mons. Tonino Bello, storico presidente di Pax Christi che ha “rotto” l’assedio di Sarajevo guidando fino a lì — nonostante fosse già molto provato dal tumore che poi lo ha ucciso — una marcia della pace l’11 dicembre 1992, composta da 500 pacifisti, che riuscì a entrare nella città attraverso una delle poche brecce nel blocco militare durato quasi quattro anni. La marcia, organizzata dall’associazione “Beati costruttori di pace”, fu un gesto simbolico e un’azione di forte impatto mediatico per portare solidarietà e pace in una realtà devastata dalla guerra.

“Santa Maria, donna conviviale — ha pregato Papa Prevost con le parole di don Tonino — alimenta nelle nostre Chiese lo spasimo di comunione. (…) Aiutale a superare le divisioni interne. Intervieni quando nel loro grembo serpeggia il demone della discordia. Spegni i focolai delle fazioni. Ricomponi le reciproche contese. Stempera le loro rivalità. Fermale quando decidono di mettersi in proprio, trascurando la convergenza su progetti comuni.”
“Ci conceda il Signore questa grazia: essere radicati nell’amore di Dio per vivere in comunione tra di noi. Ed essere, come Chiesa, testimoni di unità e di amore”, ha concluso il Pontefice.

“Prosegue incessante la nostra preghiera per la pace, particolarmente mediante la recita comunitaria del Santo Rosario”, ha poi confidato Leone XIV all’Angelus. “Contemplando i misteri di Cristo insieme alla Vergine Maria, facciamo nostra la sofferenza e la speranza dei bambini, delle madri, dei padri, degli anziani vittime della guerra. E da queste intercessioni del cuore nascono tanti gesti di carità evangelica, di vicinanza concreta, di solidarietà. A tutti coloro che ogni giorno, con fiduciosa perseveranza, portano avanti questo impegno, ripeto: ‘Beati gli operatori di pace!’”.

“Dobbiamo sognare e costruire una Chiesa umile. Una Chiesa che non sta dritta in piedi come il fariseo, trionfante e gonfia di sé stessa, ma si abbassa per lavare i piedi dell’umanità; una Chiesa che non giudica come fa il fariseo col pubblicano, ma si fa luogo ospitale per tutti e per ciascuno; una Chiesa che non si chiude in sé stessa, ma resta in ascolto di Dio per poter allo stesso modo ascoltare tutti.”
È la Chiesa di Papa Prevost. “Impegniamoci a costruire una Chiesa tutta sinodale, tutta ministeriale, tutta attratta da Cristo e perciò protesa al servizio del mondo”, ammonisce Leone nella messa conclusiva del Giubileo delle Équipe sinodali.

“Gesù ci dà un messaggio potente: non è ostentando i propri meriti che ci si salva, né nascondendo i propri errori, ma presentandosi onestamente, così come siamo, davanti a Dio, a se stessi e agli altri, chiedendo perdono e affidandosi alla grazia del Signore.”
Così Papa Leone XIV, introducendo la recita dell’Angelus e commentando il brano del Vangelo di oggi sulla parabola del fariseo e del pubblicano che pregano nel Tempio. Il Pontefice ha quindi esortato a non aver “paura di riconoscere i nostri errori, di metterli a nudo assumendocene la responsabilità e affidandoli alla misericordia di Dio”.
“Potrà così crescere, in noi e attorno a noi, il suo Regno, che non appartiene ai superbi ma agli umili, e che si coltiva, nella preghiera e nella vita, attraverso l’onestà, il perdono e la gratitudine.”
“Chiediamo a Maria, modello di santità, che ci aiuti a crescere in queste virtù.”

I governi siano “attenti al grido dei poveri”, “siano docili strumenti della cura di Dio verso i deboli, gli oppressi e i diseredati”. È il testo di una preghiera dei fedeli, letta in arabo, durante la messa presieduta da Papa Leone XIV nella Basilica di San Pietro, in occasione del Giubileo delle Équipe sinodali.
(fonte: Faro di Roma, articolo di Sante Cavalleri 26/10/2025)


#la massa - Il breviario di Gianfranco Ravasi

#la massa
 Il breviario di Gianfranco Ravasi


Il maggior pericolo non è tanto la tendenza della massa a comprimere la persona, ma la tendenza della persona a precipitarsi ad annegare nella massa.

È morta in un sanatorio inglese nel 1943, a soli 34 anni, dopo una vita consumata fino allo spasimo nell’impegno sociale con l’insegnamento agli studenti operai, la tutela sindacale dei braccianti, il lavoro fisico con gli sfruttati, l’opera di infermiera volontaria durante la guerra. Simone Weil era, però, soprattutto una donna di straordinaria intelligenza che ha lasciato pagine ancor oggi emozionanti, espressione di una ricerca appassionata, segnata dalla sua matrice ebraica ma anche dal fascino di Cristo e del suo messaggio. Abbiamo scelto dai suoi Scritti di Londra una sorta di aforisma, un lampo sulla società valido ancor più oggi, avvolti come siamo dall’infosfera dei social. L’intuizione è netta, e ribalta la comune certezza secondo cui è la massa ad attirare i singoli, i quali vengono risucchiati dagli stereotipi, dalle mode, dagli eccessi divenendo così replicanti senza personalità.

Simone Weil, invece, svela un altro volto del fenomeno. Sono gli individui stessi ben felici di correre a frotte in quel buco nero ove vengono omologati, lieti di ripetere i movimenti e di ripetere i motti ormai dominanti e spesso gestiti da potenti agenzie politiche, economiche, sociali. Se è vero che la massa schiaccia e riesce ad annullare l’identità personale, è ancor più vero che sotto quello schiacciasassi la maggior parte si distende, soddisfatta di essere “spianata”. Ecco, allora, l’ideale appello, confermato dalla stessa biografia di questa donna: avere il coraggio di rifiutare l’abbraccio caldo della folla anonima o del “branco”, di tenere alta invece la fiaccola del proprio pensiero meditato, di scegliere la via dell’impegno e della coerenza, di testimoniare uno stile di vita sobrio, solidale e morale.

(Fonte: “Il Sole 24 Ore - Domenica”  - 26 ottobre 2025)

martedì 28 ottobre 2025

Francesco, un Papa fatto popolo

Francesco, un Papa fatto popolo

A sei mesi dal dies natalis di Francesco, ripercorriamo la strada che ha tracciato con la sua testimonianza e il suo magistero


Adriano Levi e don Tonino Bello hanno definito Oscar Arnulfo Romero, “un vescovo fatto popolo”, per esprimere la vicinanza ma soprattutto la conversione e la compenetrazione dell’arcivescovo di San Salvador con la vita e la sofferenza del popolo che gli era stato affidato, oppresso dalla dittatura al potere in El Salvador durante il suo ministero.

Se la CEI ha voluto istituire nel 1992 la Giornata di preghiera e digiuno per i missionari martiri fissando la data del 24 marzo, anniversario dell’uccisione di Romero, avvenuta nel 1980, abbiamo dovuto attendere il primo Papa sudamericano, perché l’arcivescovo di San Salvador fosse beatificato e poi canonizzato il 14 ottobre 2018 come martire per la fede.

Domenica 20 aprile 2025 – Pasqua di Resurrezione – Papa Francesco, debilitato dalla malattia che lo aveva costretto al ricovero e a un delicato decorso nei precedenti due mesi, aveva voluto affacciarsi alla loggia centrale della basilica di San Pietro per la benedizione Urbi et Orbi (la messa era stata celebrata dal cardinale Angelo Comastri). Subito dopo, a sorpresa, era sceso in piazza in papamobile per quello che sarebbe stato il suo ultimo saluto e il suo ultimo abbraccio con i fedeli, con quel popolo al quale era visceralmente legato.

Questa immagine, conclusiva del suo pontificato e del suo pellegrinaggio terreno, che si sarebbe concluso il giorno dopo, ci propone di definire Francesco, non meno dell’arcivescovo sudamericano da lui canonizzato, come “un Papa fatto popolo”.

A sei mesi dal suo dies natalis, vorrei proporvi un excursus sulla sua testimonianza e sul suo magistero, ripercorrendo un servizio televisivo che ritengo prezioso: quello che è andato in onda su Rai Uno il 25 aprile 2025 (vedi qui).

Francesco è venuto “dalla fine del mondo”. Alla Villa 21, a Barracas è cambiato poco da quando “Jorge” se n’è andato, sono case di una periferia di Buenos Aires, alla cui mensa dei poveri si recava a mangiare tutti i venerdì, dopo aver detto messa alla vergine di Caacupé, per poi immergersi nelle strade e nelle case della gente. Diceva sempre una frase: voleva una “Chiesa di strada, non chiusa nei templi ma che esce per le strade”. Lucas Schaerer racconta: “mi ha insegnato ad organizzare la speranza. Ha lavorato molto nelle periferie di Buenos Aires, sia quelle dei quartieri, sia quelle sia quelle esistenziali. Combatteva contro la tratta degli esseri umani, denunciava la schiavitù dell’industria della moda e dello sfruttamento della prostituzione. Tanto lavoro con i migranti. Era incredibile vedere un cardinale che usciva dalla cattedrale e andava a battezzare in una mensa per i poveri in periferia o a celebrare per la strada davanti ad un laboratorio clandestino che aveva preso fuoco. È stato il primo Papa ad organizzare un convegno sulla tratta degli esseri umani nel 2013 a Roma”.

Il suo popolo: Antonella Capeto racconta come nel maggio del 2016 Papa Francesco si è presentato “portando le pastarelle” e condividendo la merenda con gli ospiti disabili attivi nel laboratorio di ceramica dell’Arca – Comunità il Chicco, a Ciampino. Nel 2015 per il Giubileo della Misericordia Papa Francesco aprì la prima Porta Santa al di fuori di una basilica, scelse l’ostello della Caritas alla Stazione Termini di Roma. “Nessuno si salva da solo”. “Goccia di marsala” è il mensile dei senzatetto: tutti hanno incontrato Francesco e vogliono ricordarlo. Giustino Trincia, direttore della Caritas di Roma, ricorda come fu lui, durante la pandemia, a disporre una donazione di 500mila euro, per assicurare dei sussidi a persone tagliate fuori da ogni forma di reddito, lanciò un appello ad aprire le case, le parrocchie e gli istituti religiosi per accogliere i senzatetto. A Corviale, periferia est di Roma, “periferia esistenziale”, Francesco nell’aprile 2018 risponde al piccolo Emanuele Balderi di 8 anni: “tuo padre non è all’inferno, anche se non credente, Dio è un padre, non un giudice”.

Tra gli ultimi: 16 volte Papa Francesco è entrato in carcere. A Casal del Marmo già pochi giorni dopo le elezioni per lavare i piedi ai ragazzi il Giovedì Santo. Il suo primo viaggio apostolico è a Lampedusa: “la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere”. “Perché loro e non io? Il rischio di sbagliare è di tutti”: ogni Giovedì Santo tornerà in carcere, ad inginocchiarsi e a denunciare storture ed ingiustizie. Bisogna dare giustizia alla vittima, non giustiziare l’aggressore. Don Mattia Ferrari, cappellano della nave Mediterranea Saving Humans, dirà: “La crisi migratoria è una conseguenza della crisi globale e chiama in causa una fraternità che si è rotta. Il suo magistero ha aperto una strada da percorrere con le sue parole e i suoi gesti”. Tra i tanti viaggi apostolici due volte visitò i campi profughi a Lesbo. La prima volta ha voluto portare indietro con sé sull’aereo come ricordano Wafa Eid e Susanna Pompei della Comunità di Sant’Egidio tanti rifugiati quanti ne permetteva l’aereo, grazie all’apertura dei Corridori Umanitari. Una delle Porte Sante aperte nel Natale 2024 per questo Giubileo è stata spalancata nel Carcere di Rebibbia, per dimostrare plasticamente l’apertura delle porte del cuore alla speranza. Ancora qui, nel carcere, a Regina Coeli, si è recato l’ultimo Giovedì Santo, poco prima di morire. Lo ricorda Claudia Clementi, direttore della Casa Circondariale.

La guerra dei bambini: Palestina, Ucraina, Siria, Sudan, Myanmar, Siria. Francesco ricorda tutte le guerre. Non è guerra, è crudeltà bombardare i bambini. È Gaza il cuore del Pontificato di Francesco, qui avrebbe desiderato fare il suo ultimo viaggio, per stare vicino al suo popolo; ogni sera telefonava alla parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza.

Casa, lavoro, terra: esiste un vero e proprio diritto dell’ambiente. L’uomo può sopravvivere solo se l’ambiente è favorevole. Ogni danno all’ambiente è un danno all’intera umanità. Con questo discorso il 27 settembre 2015 davanti all’ONU, la difesa del Creato, della “Casa comune” sarà al centro di tutto il suo operato. Per la prima volta nella storia della Chiesa è convocato nel 2019 un Sinodo per l’Amazzonia, al centro del disastro ecologico con la deforestazione, l’estrazione del petrolio e lo sfruttamento dell’industria agroalimentare, per far sentire la voce dei popoli che la abitano. La condanna di Papa Francesco è senza appello: quando senza amore e senza rispetto si divorano popoli e culture non è il fuoco di Dio ma il fuoco del mondo, appiccato da interessi che distruggono. Anche in Campania, nella storica visita nella Terra dei fuochi denuncerà. La Laudato si’ la sua grande eredità. La Laudate Deum 8 anni dopo, un rinnovato appello ai governi che ancora non si muovono. I suoi viaggi, accanto alle popolazioni vittime dei disastri climatici: l’abbraccio in Mozambico dopo il ciclone che aveva inondato intere città e alle isole Mauritius colpite dal disastro della petroliera. L’appello ai giovani a farsi coscienza critica della società per la questione climatica.

Ponti e muri. “Lo sportivista”: don Luigi Portaruolo, dal Vaticano alla comunità italiana di New York, testimonia la vicinanza paterna di Papa Francesco. La sua idea di una “Chiesa in uscita” che va incontro alla gente è stata a volte ostacolata. L’attenzione ai migranti, l’apertura alle persone LGBTQ+, sono state criticate da chi ha visto le sue indicazioni come una direzione verso una Chiesa interessata al sociale a discapito della dimensione spirituale. Lui ha affermato che chi vuole costruire muri invece di ponti non è cristiano. La cultura dello scarto è stata da lui denunciata. Questo lo ha portato in contrasto con Trump e la sua linea dura con i migranti.

Dialogo globale: il dialogo con le religioni, come nel cuore dell’Asia a Giacarta in Indonesia. Il “tunnel dell’amicizia” un simbolo che passa sotto la strada per unire la Moschea alla Cattedrale cattolica. In Mongolia, grande cinque volte l’Italia, i cattolici sono lo 0,4%, Francesco è arrivato anche qui, tra i Buddisti tibetani, incontro interreligioso. Francesco: le nostre tradizioni religiose sono vie per combattere individualismo, esclusione, indifferenza e violenza. La preghiera al Muro del Pianto il 2014, chiedendo la grazia della pace. Nessuno strumentalizzi per la violenza il nome di Dio. Lavoriamo insieme per costruire la giustizia e la pace.

Il grido dell’Africa: nel febbraio del 2023 a Kinshasa in Congo Francesco denuncia il dramma dello sfruttamento per i diamanti insanguinati. Nessuno aveva usato parole tanto forti come lui e nessuno era stato tanto vicino a queste popolazioni. Avrebbe voluto andare a Goma ma per motivi di sicurezza non era stato possibile. Nel 2015 aveva aperto la Porta Santa nel Giubileo della Misericordia nella Repubblica Centrafricana. Ha visitato 7 paesi in 4 viaggi in Africa. Indimenticabile il suo gesto in Vaticano quando baciò i piedi ai responsabili delle fazioni del Sud Sudan per chiedere la pace e la riconciliazione.

La Chiesa è donna: ogni società ha il bisogno di accogliere il dono della donna, di rispettarla, custodirla, valorizzarla, sapendo che chi ferisce una sola donna profana Dio nato da donna. Piaga di questo tempo: la donna è usata, sul lavoro e non solo. Uno sguardo sul mondo femminile che Francesco trasforma in denuncia della violenza di genere in tutte le sue forme e declinazioni: dalla quelle in famiglia a quelle sul mondo di lavoro; da quelle di chi scappa dai luoghi più poveri del mondo a quelle nei confronti delle religiose, ai femminicidi. La Chiesa è donna, è madre, le prime testimoni della Resurrezione sono le donne; uno dei peccati che abbiamo commesso è stato quello di “maschilinizzare” la Chiesa. Non c’è Chiesa senza pensiero femminile. Marinella Perroni, teologa, ne parla. Alle donne Francesco ha riconosciuto di gestire le cose in situazioni difficili meglio degli uomini. Per suor Raffaella Perrini si sono aperte le porte del Governatorato dello Stato Pontificio, suor Simona Brambilla è la prima Prefetta donna, suor Natalie Becquart sottosegretaria del Sinodo dei Vescovi, Barbara Iatta, storica dell’arte, alla guida dei musei Vaticani. Sul diaconato e sul sacerdozio femminile nessuna apertura. Più volte è tornato sulla formazione delle suore.

L’eredità. Per Vito Mancuso Papa Francesco è il “teologo della teopatia”: non ha pensato Dio, lo ha patito. Quale eredità lascia Papa Bergoglio? L’amore per la gente, l’amore per il mondo. Non è stato un uomo di Chiesa ma del mondo, non in senso mondano ma con la passione di voler abbracciare la gente. La sua immediatezza dava fastidio a qualcuno. Le ultime sue parole sono state: “grazie per avermi portato in piazza”. Uno “sperimentatore della socialità”. Bellissima l’immagine della Chiesa non come maestra ma come “ospedale da campo”. Quando diceva: “i preti devono avere l’odore delle pecore” voleva dire: i preti devono farsi vicini alla gente”. Francesco ci lascia la passione, l’essere appassionato.

Intenet dono di Dio: è stato lui il Pontefice della transizione al nuovo mondo dell’intelligenza artificiale. Nel 2019 pronuncia per la prima volta la parola “algoretica”. L’intelligenza artificiale potrebbe portare con sé una più grande differenza tra le popolazioni favorendo la cultura dello scarto rispetto alla cultura dell’incontro. Per padre Paolo Benati il suo richiamo profondo alla giustizia sociale e a non scordare il richiamo al sud del mondo deve guidare il discernimento nelle singole situazioni. Si è messo nel mondo multimediale con autoironia. Al G7 di Borgo Egnazia parla a tutto il mondo dando il messaggio in cui separa la scelta delle macchine dalla decisione dell’umano e in cui esprime un monito nei confronti delle armi autonome.

L’addio. Alle ore 7:35 del 21 aprile 2025 Papa Francesco è tornato alla Casa del Padre. Papa Francesco ha scelto di essere posto nella Basilica di Santa Maria Maggiore nella nuda terra, con una semplice scritta: “Franciscus”.

El Papa Divertido. Siete alleati del sogno di Dio. Francesco amava il tango. In mezzo alla società, agli attori, ai musicisti, ai cantanti. Non dimenticatevi dei poveri, voi potete farvi interpreti del loro grido silenzioso. Alla Biennale di Venezia, la prima volta per un Papa, l’idea di allestire il padiglione della Santa Sede nel carcere della Giudecca. Ridere e far ridere, un dono di cui mai essere avari, una battaglia culturale, l’ironia è una grazia straordinaria. Grazie. Addio Papa Francesco. Continueremo a sentirti vicino, tu che sei stato “un Papa fatto popolo”.
(fonte: Vino Nuovo, aricolo di Alessandro Manfridi 21/10/2025)