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venerdì 12 dicembre 2025

33 anni fa la marcia dei 500 di don Tonino Bello a Sarajevo. Don Sacco: “Scegliere di non essere spettatori è possibile anche oggi”

33 anni fa la marcia dei 500 di don Tonino Bello a Sarajevo. Don Sacco: “Scegliere di non essere spettatori è possibile anche oggi”

Ricorre oggi, 12 dicembre, il 33° anniversario della Marcia per la pace di Sarajevo, guidata da don Tonino Bello, uno degli episodi più significativi e simbolici della sua testimonianza di vescovo e di uomo di pace. Durante l’assedio più lungo della storia contemporanea, quando la città era stretta dal fuoco dei cecchini e dalla paura, don Tonino, allora presidente di Pax Christi, decise di non limitarsi a lanciare appelli da lontano ma volle entrare dentro la città assediata. In 500 marciarono dentro Sarajevo sfidando i tiri dei cecchini. Tra loro anche don Renato Sacco, consigliere nazionale di Pax Christi, che al Sir rievoca quei giorni.

(Foto R. Sacco)

Ricorre oggi, 12 dicembre, il 33° anniversario della Marcia per la pace di Sarajevo, guidata da don Tonino Bello, uno degli episodi più significativi e simbolici della sua testimonianza di vescovo e di uomo di pace. Durante l’assedio più lungo della storia contemporanea, quando la città era stretta dal fuoco dei cecchini e dalla paura, don Tonino, allora presidente di Pax Christi, decise di non limitarsi a lanciare appelli da lontano ma volle entrare dentro la città assediata. Riuscì a organizzare una delegazione di circa 500 pacifisti italiani, fra laici, religiosi, giovani, esponenti di associazioni e semplici cittadini.

Foto Calvarese/SIR
Giunti nei pressi della città a bordo di pullman, i partecipanti completarono l’ultimo tratto a piedi, entrando a Sarajevo sotto la neve e il rischio dei colpi dei cecchini. Portavano con sé solo una grande bandiera arcobaleno della pace, nessuna protezione, nessun altro “scudo” se non la nonviolenza. L’intento era chiaro: rompere l’indifferenza internazionale, mostrare solidarietà concreta alla popolazione bosniaca, e affermare che la pace è possibile solo “stando in mezzo al dolore”, come diceva don Tonino. Quel gesto divenne così un segno di fraternità, un atto di disobbedienza civile e morale che mise in luce la forza della nonviolenza cristiana. Don Tonino, già gravemente malato, parlò ai sarajevesi dicendo: “Voi non siete soli. Condividiamo il vostro calvario”. A ricordare quei giorni è oggi don Renato Sacco, consigliere nazionale di Pax Christi, che di quella marcia fu testimone oculare e partecipante attivo.

Don Renato, qual è il ricordo più vivido di quel 12 dicembre?

I ricordi sono tanti. Dai rappresentanti delle varie religioni monoteiste incontrati, agli abbracci e ai disegni dei bambini. Ma, soprattutto, il tè caldo che ci hanno distribuito. Da mesi sotto le bombe e in condizioni di mancanza d’acqua hanno preparato un tè per 500.

Questi sono i segni del Vangelo, non storie astratte ma testimonianze di speranza viva, incontri concreti, corpi vicini per scaldarsi. La fede non è questione di spiritualismo. Tanti ci hanno criticati ma altrettanti ci hanno supportati, sia materialmente sia con la preghiera.

Mettere fisicamente il proprio corpo senz’armi in mezzo a una guerra, difficile immaginarlo oggi…

Don Tonino Bello che, insieme a noi, va nella capitale bosniaca a dire che la guerra è una follia è la grande attualità di quell’avvenimento insieme al suo improvvisato discorso sulla non violenza. “Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati!” aveva detto. Tradurre in pratica il ‘No’ alla guerra, dentro di essa e durante, è l’unica strada da percorrere per tutti i conflitti odierni.

Scegliere di non essere spettatori è possibile anche oggi.

Anche la guerra più assurda può essere fermata. Il fatto non casuale che quel giorno non sia caduta nessuna granata dimostra che si può sempre discutere e trattare e che la logica per arrestare una guerra non può essere la quantità di morti. In questi 33 anni abbiamo avuto la conferma che la strada della guerra è il suicidio dell’umanità ed è, purtroppo, la logica sempre più attuale scelta dai potenti in un’ottica di interessi e guadagno. Sempre e solo la logica delle armi e la cultura della guerra: nella guerra si entra e si spara, talvolta anche per divertimento. Davanti ai nostri zaini con dentro solo tonno e formaggio, persino i leader religiosi ci domandavano dove fossero le armi.

La vostra risposta?

La nostra risposta? Dire con il nostro corpo che eravamo lì per non lasciare sole le persone e per metterle al centro. Che meriti avevamo noi, in più di loro, per non essere toccati dalla guerra? La Marcia è stata un segno di interposizione che va mantenuto e coltivato. Il cardinale Martini diceva che intercedere non significa chiedere al Signore di intervenire ma metterci noi in gioco in prima persona. È questa l’eredità e la strada concreta della pace e della non violenza. Spendere il nostro tempo al servizio, non militare ma del prossimo. Di fronte al mondo di guerra in cui oggi siamo immersi tutti, chiederci non cosa possiamo guadagnarci ma come possiamo essere autori di passi concreti di pace.
“La guerra è come un treno – mi diceva una persona di Sarajevo anni dopo – quando parte non riesci né a fermarlo né a scendere”. Ecco, io vorrei fare di tutto invece per fermare questo treno sempre più veloce.

Che accadeva al vostro passaggio?

Le persone, nonostante la paura, scendevano in strada e si univano a voi. Prevaleva quindi il coraggio e la volontà di agire. Per loro era un sogno vederci. Ci aspettavano ma, come noi, non avevano scommesso sul nostro arrivo. Scendevano, tra cecchini e granate, magari solo per stringerci la mano e comunicavamo con lo sguardo. È la prova che siamo chiamati a realizzare i sogni, anche quando sembrano irrealizzabili.

Don Tonino Bello (Foto R. Sacco)
Dobbiamo chiedere più coraggio alle nostre comunità e indicare loro una meta più grande.

C’era la consapevolezza di entrare, con quel gesto, nella Storia?

No, noi facevamo quel che andava fatto, valutando insieme giorno per giorno ma con molta serenità e senza presunzioni. Il 10 era la giornata dei Diritti umani e lo scopo era celebrarli; il 12 un altro giorno. Abbiamo semplicemente messo un seme che un giorno fiorirà.

Quel 12 dicembre non va mitizzato ma preso per quello che è. Gente che ha scelto di mettersi in gioco, come don Tonino che, malato terminale di cancro, reggeva la bandiera della pace. “Sarei venuto anche con le flebo nel braccio” aveva detto. Al tempo l’hanno riempito di critiche e cercato di fermare, oggi è in corso la causa di beatificazione.
(fonte: Sir, articolo di Elena Iervoglini 12/12/2025)

La risposta delle donne alla violenza del mondo - Custodi dell’umano

La risposta delle donne alla violenza del mondo

Custodi dell’umano


Di fronte alla difficoltà di trovare nuove reclute, alla riluttanza di molti giovani di andare al fronte per una guerra lunga e logorante, l’Ucraina a un certo punto ha cercato nuove strategie. Una delle ultime, rivelata dal New York Times è la cosiddetta “gamification”: un sistema a punti che premia gli attacchi riusciti. Come in un videogioco, i reggimenti vengono ricompensati per ogni obiettivo raggiunto. Per Kiev uccidere un soldato russo vale 12 punti. Ferirlo 8. Se poi quel russo pilota un drone, il punteggio sale a 15 punti in caso di ferimento e a 25 se muore. Il jackpot – 120 punti – spetta a chi riesce a catturare un militare russo con l’aiuto di un drone.

Non sappiamo se il nuovo “gioco” ha dato “risultati soddisfacenti”. Il governo ucraino, evidentemente, ci ha sperato.

La notizia è particolarmente sinistra. La guerra come un videogioco, la morte di un uomo ridotta a qualche decina di punti. Chi vince un automa privo di sentimenti e valori; chi perde un puntino illuminato che si spegne. Il campo di battaglia uno schermo simile a quello usato da tanti ragazzi.

È vero, in tutte le guerre, anche in quelle più antiche, i soldati sono sempre stati premiati con medaglie, denaro, indennità. Anche l’esercito russo – per dire della parte avversa agli ucraini – paga 2400 dollari a chi abbatte un elicottero e 12000 a chi cattura un carro armato. Ma in questa trasformazione della guerra in un gioco, in cui tramite i droni si può uccidere senza sapere neppure che lo si stia facendo, in cui il nemico è un puntino luminoso e l’arma è un pulsantino, in cui non c’è differenza fra uccidere e giocare, c’è un salto di qualità. O meglio, di disumanità. Il fatto che a compierlo sia un Paese che cerca di difendersi da un’invasione non ne riduce la barbarie. Non attenua la sensazione che oggi insieme alla fine della pace assistiamo alla crisi di ogni sentimento di umanità.

Lo stesso processo di disumanizzazione è evidente a Gaza. Là i corpi diventano una massa indistinta di vittime. Nel linguaggio dei media i morti sono “danni collaterali” o “scudi umani”, parole che cancellano volti, ferite, individualità e ogni empatia.

Le guerre di oggi, quindi, non si limitano a colpire i corpi, ad uccidere uomini, donne e bambini, a contravvenire alle regole che le istituzioni internazionali hanno ritenuto opportuno porre alla crudeltà della guerra, ma erodono l’essenza stessa dell’essere umano. Distruggono anche ogni capacità di comprensione, annientano la dignità di ciascuno. Mettono in atto un processo in cui l’altro è percepito meno che umano: un puntino luminoso sul computer, un bersaglio da colpire, un corpo confuso col terreno.

Il processo di disumanizzazione è stato già molte volte denunciato dagli organismi internazionali. Il termine “disumano” è stato usato esplicitamente soprattutto da Onu, Unrwa e Ong oltre che da molti rappresentanti religiosi. Fin dall’inizio della guerra in Palestina, ad esempio, Le Monde affermava: «Dal 7 ottobre del 2023 - la retorica disumanizzante riguardo i palestinesi è diventata luogo comune nella sfera politica e mediatica in Israele». Questo processo di disumanizzazione cui danno voce giuristi, esperti militari e figure pubbliche, è stato usato -spiegava il quotidiano francese - per giustificare le uccisioni di massa di civili palestinesi, specialmente donne e bambini, la distruzione di intere città.

Come esempio di linguaggio disumanizzante Le Monde ricordava quello di Yoaw Gallant, ministro della Difesa prima delle sue dimissioni dal governo Netanyahu nel 2024, che giustificò l’inizio dell’assedio di Gaza dichiarando «stiamo combattendo animali umani e agiamo di conseguenza».

Le guerre hanno fatto un salto di qualità: la tecnica ha sostituito la coscienza, l’efficienza ha preso il posto del sentimento. Mentre i droni colpiscono nemici invisibili, l’umanità perde contatto con se stessa, sostituendo l’esperienza con l’automazione, il corpo con l’interfaccia. È questo un mondo senza ritorno? Possiamo ancora porre un argine alla disumanizzazione? E quale cultura può restituire valore alla vita, alla cura, alla dignità?

Oggi solo la cultura femminile sembra in grado di riproporre, come diceva Einstein, «ciò che conta anche se non può essere contato». E quando parliamo di cultura femminile non ci riferiamo al femminismo (che pure è stato importante per farla emergere quando era oscura e negletta ed ha consentito a molte donne del pianeta di uscire dall’oscurità). E neppure alla lotta perché le donne acquistino posizioni di potere nel mondo. Quando l’hanno fatto – e si potrebbero fare molti esempi del passato e del presente – la cultura maschile è sostanzialmente rimasta tale. Le donne si son spesso limitate a rappresentarla in un corpo diverso.

Quando parliamo di cultura femminile ci riferiamo ad un paradigma che ha al centro l’attenzione, la relazione, la cura. La vita.

«Tra il combattere e morire c’è una terza via: vivere» diceva Christa Woolf. Ed è una via che richiede la guida del secondo sesso.

Viviamo tempi di tecnocrazia, di intelligenza artificiale senza etica, di derive post-umane, con l’ossessione del superamento dei limiti. Mentre la tecnologia, gli algoritmi, rischiano di sostituire il corpo, l’esperienza, il sentimento, le donne ripropongono – nella vita quotidiana , nei gesti più comuni - la concretezza della relazione, la vicinanza dei corpi, «l’attenzione» che, come affermava Simone Weil, «è la forma più pura di preghiera».

Ne sono esempio figure come Bebe Vio, atleta paralimpica che, superando con tenacia e gioia i limiti che sembravano imporle la sua condizione fisica, ha dimostrato come il corpo possa essere ferito ma non sconfitto, e come la forza e l’umanità possano convivere in una stessa persona. Oppure le grandi scienziate umaniste Ursula Franklin, fisica e pacifista che ha riflettuto sulla responsabilità etica della scienza; Sherry Turkle, psicologa e studiosa delle tecnologie digitali che da decenni indaga il rapporto tra l’umano e la macchina, difendendo la necessità dell’empatia nell’era dei social e dei robot; e Jane Goodall, etologa e attivista, che ha dedicato la vita allo studio e alla protezione dei primati, ricordandoci che non c’è distanza tra uomo e natura, ma continuità e rispetto reciproco. E ancora, l’artista ucraina Yona Tukuser, che ha scelto la pittura come linguaggio per dare voce a chi non l’ha più; l’attivista Ghadir Hani, una vita dedicata al dialogo tra israeliani e palestinesi; Eliane Brum, la giornalista brasiliana che sottolinea la necessità urgente di adottare misure che invertano le politiche di sfruttamento incontrollato dell’Amazzonia e di deportazione delle sue popolazioni, per salvaguardare sia la regione che il futuro del pianeta.

Solo donne così, e tutte quelle che ogni giorno custodiscono la vita con gesti invisibili, possono realizzare un ribaltamento tanto più necessario di fronte ad una corsa verso la catastrofe che può coinvolgere l’intero pianeta. Non perché siano nate «migliori», ma perché storicamente estranee alla cultura finora dominante. Lontane da quell’insieme di valori, modelli simbolici e strutture sociali storicamente associati al dominio, alla competizione e alla conquista.

La cultura maschile – lo dimostra la storia del mondo - si fonda sulla gerarchia (chi comanda e chi obbedisce), sulla forza fisica economica e politica, sul controllo della natura del corpo delle persone, sulla guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti.

La cultura femminile, nella lettura simbolica, rappresenta invece un sistema di valori orientato alla cura, alla relazione, alla cooperazione e alla conservazione della vita. Sono in molte ad essersene accorte. Sono molte ormai nel mondo che questa cultura cercano di farla vivere. E non solo le donne che, nella quotidianità e nel silenzio, producono cura, sentimenti, nuove relazioni. Donne che sono attorno a noi e che silenziosamente portano avanti una strategia di nuova umanizzazione. Ma anche quello che vanno oltre. Che costruiscono associazioni, pratiche politiche, realizzano progetti al cui centro c’è di nuovo «l’umano».

Sono loro che seguono la strada che già altre avevano indicato ma che erano rimaste – seppur importanti nel mondo dell’arte e della letteratura ai margini di una storia e di un progetto voluto da uomini la cui forza procedeva inesorabile. Aveva ben compreso l’attualità di un paradigma femminile Virginia Woolf quando ne Le tre Ghinee definiva la guerra come «un atto puramente maschile» che «nasce dal desiderio di possedere, di comandare, di dominare». O la filosofa femminista Luce Irigaray che in Etica della differenza sessuale affermava: «L’ordine simbolico maschile si fonda sulla guerra e sulla morte; quello femminile sulla nascita e sulla relazione». O, ancora, la sociologa scrittrice e attivista Riane Eisler, che nel suo bestseller Il calice e la spada afferma: «Le società dominate dal principio maschile hanno esaltato la spada, simbolo del potere e della violenza; le società orientate al principio femminile hanno venerato il calice, simbolo della vita e della condivisione».

Qualche decennio fa erano voci isolate. Oggi invece sono in molte ad avere già compreso che la guerra – nella cultura maschile e dominante - non è solo un evento militare, ma una mentalità, un modo di concepire la vita come lotta per il potere e per la supremazia. Oggi le donne – tutte - hanno il compito di bloccare quei processi che ci portano a distruggere noi stessi. Non solo il nostro corpo, ma quella fiammella fragile e luminosa che chiamiamo anima. Certamente la voce che ci richiama all’umanità è una voce di donna.
Ritanna Armeni

  • La poesia
Salute a te umanità ferita
umanità uscita dalla pietra
e arrivata fin qui.
A te che sei capace
di prendere il dolore e trasformarlo
e martellarlo fino alla pietà scolpita
domare le sue punte
nel pentagramma di note
o fra le righe rotte del poema.
Animale più strano, respiro tuo
scassato ora. Salute!
Tutta la terra è in attesa
di una promessa da te.
Dilla. Dilla. Dai la tua parola.

Mariangela Gualtieri
      da Ruvido Umano (Einaudi 2024)

(fonte: DONNE CHIESA MONDO 06/12/2025)

La Sacra famiglia. La sosta nella fuga di Tommaso Montanari

La Sacra famiglia. 
La sosta nella fuga 
di Tommaso Montanari



Mi sono chiesto a lungo perché papa Francesco ogni giorno chiamasse Gaza. Certo: per essere li, per confortare, per condividere la prova, per portare nel modo più visibile la presenza della Chiesa. Ma nel vecchio Papa che, in punto di morte, parla ogni giorno con questo enorme campo di sterminio, dove è in corso un genocidio — un genocidio “perpetrato” anche dagli Stati occidentali che si dicono cristiani, anche dall’Italia — c’è qualcosa di più. E io credo che fosse questo: papa Francesco sentiva che Dio è a Gaza. Non solo nella parrocchia di Gaza, sia chiaro. In tutto quel popolo, senza distinzioni di fede o appartenenza.

In quella terra che ha conosciuto i piedi della Sacra Famiglia che fuggiva in Egitto: incalzata, anche allora, da un massacro di bambini. Dio — lo sappiamo — è in ogni luogo, ogni singolo corpo umano è tempio di Dio. Ma mentre l’Occidente ricco e potente attraversa una lunga notte di Dio, mentre Dio sembra non farsi trovare nemmeno nelle nostre chiese, a Gaza, con ogni evidenza, Dio c’è. Nella passione e morte di Gaza, c’è il Dio dei vivi. Il sole di giustizia. Il principe della pace. «Spanderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme, lo spirito di grazia e di supplicazione; essi guarderanno a me, a colui che essi hanno trafitto, e ne faranno cordoglio come si fa cordoglio per un figlio unico, e lo piangeranno amaramente come si piange amaramente un primogenito».

Le parole dell’Eterno in Zaccaria 12, le parole che Giovanni riferisce al Cristo sulla croce, sembrano la più profonda spiegazione dello sguardo di papa Francesco, e del nostro sguardo, che non riusciamo a distogliere da Gaza, che noi stiamo massacrando: «poseranno lo sguardo su Colui che hanno trafitto». «Non ti affliggere, ché certo il tuo Signore ha posto un ruscello ai tuoi piedi; scuoti il tronco della palma: lascerà cadere su di te datteri freschi e maturi. Mangia, bevi e rinfrancati». A parlare è la Vergine Maria, e siamo nella diciannovesima sura del Corano. Il ruscello e la palma non fanno parte del racconto evangelico, ma abitano tutta l’iconografia cristiana di un episodio inconfondibile della vita di Gesù, il “riposo nella fuga in Egitto”, dipinto da generazioni e generazioni di pittori.

Quando, scorrendo l’elenco infinito dei bambini assassinati da Israele a Gaza, troviamo il nome Issa, ebbene quel nome in italiano suona così: Gesù. E non è un nome cristiano, ma islamico: perché le nostre culture, le nostre religioni, i nostri libri sacri, si intrecciano, nei secoli dei secoli. Un’antichissima tradizione, che affonda le sue radici nei vangeli apocrifi, identifica in Egitto una serie di tappe della fuga della Sacra Famiglia.

Ma oggi brucia ricordare la via attraverso la quale raggiunsero quel Paese, partendo da Betlemme: con ogni probabilità, la Via Maris, la via antichissima che si snodava (e ancora si snoderebbe) lungo la costa. Una via che passava per la città di Gaza, e per l’attuale Striscia: fino, appunto, ai confini con l’Egitto. Più di tutti, gli artisti figurativi hanno amato il tema della fuga in Egitto, perché permetteva loro di declinare la storia sacra in senso aneddotico: inventando, più che rappresentando. E perché le figure si univano a un paesaggio: anch’esso liberamente inventato, vista la scarsissima conoscenza diretta della Terra Santa. E proprio queste invenzioni, molto più tardi, fecero da modello alla ridefinizione coloniale di quella terra, popolata di specie arboree europee per farla assomigliare alla sua rappresentazione artistica appunto europea.

Ma nel Seicento, sull’onda di Caravaggio, la fuga in Egitto si carica di ansie, contrasti, paure. Non solo il riposo in un’oasi, con le palme che si piegano a servire Maria, ma tutta la cruda realtà di una famiglia di profughi in fuga dalla guerra. Orazio Gentileschi replicò con varianti una sua strepitosa invenzione almeno cinque volte. Giuseppe, vinto dalla stanchezza è riverso sul proprio bagaglio, sprofondato in un sonno senza grazia e senza decoro. La Vergine Maria, anch’essa stesa in terra fuor d’ogni consuetudine, allatta un Gesù ormai grandicello, che, tutto nudo, guarda fisso in camera, verso di noi: come se ci avesse sorpreso a turbare la sua intimità familiare. E poi c’è il muro: il vero protagonista del quadro. Un muro cadente, che sta perdendo il suo intonaco: un rudere senza alcuna nobiltà, non certo una rovina classica. Un muro in cui si risolve tutto il paesaggio, giacché solo la testa lanosa dell’asino e un bellissimo cielo pieno di soffici nuvole suggeriscono che il mondo non finisce proprio li.

E oggi come possiamo non immaginare che questo “riposo tra le macerie” rappresenti la sosta a Gaza, lungo la strada per l’Egitto? La Sacra Famiglia a Gaza, ecco un titolo adatto per questo quadro vertiginoso. La Gaza di oggi, ovviamente: ridotta dal genocidio israeliano a un cumulo di macerie. Una Gaza in cui la Sacra Famiglia apparirebbe non come vittima, ma come privilegiata: perché Gesù non pare uno scheletro, e Maria ha ancora il latte. Perché hanno un bagaglio, qualcosa. Abbiamo fatto peggio di Erode: abbiamo devastato una delle città della Bibbia.

Ai sedicenti cristiani che governano il mondo occidentale bisognerebbe ricordare che dove oggi Israele bombarda, uccide, affama, un giorno hanno posto il piede Maria, Giuseppe e Gesù. Tengono in non cale la vita umana dei palestinesi, si indignano solo quando un proiettile colpisce una croce e una parrocchia: ma Gaza è tutta santa. Tutta terra santa. Una santità sopraffatta dalle tenebre, come se Gesù fosse stato raggiunto e ucciso dai soldati di Erode. E così fu, e così è: perché «tutte le volte che lo avrete fatto a uno di questi piccoli, lo avrete fatto a me».

La notte domina la Fuga in Egitto dipinta nel 1609 a Roma dal tedesco Adam Elsheimer: qui il primato della natura, caro alla tradizione artistica nordica, si sposa perfettamente con una nuova capacità di osservarla e di leggerne la luce, qualcosa che l’artista tedesco doveva invece alla conoscenza dell’opera di Caravaggio. Ma, proprio come per Caravaggio, questa rinnovata attenzione per la natura non si risolve in una pittura “scientifica”, bensì in un’altissima meditazione pittorica sulla perdita di centralità dell’uomo, letteralmente inghiottito in una notte esistenziale in cui è possibile procedere solo a tentoni. Quella in cui siamo sprofondati tutti: senza possibilità di raggiungere l’Egitto. 
Che per gli abitanti di Gaza rappresenta la sopravvivenza fisica. Per noi, quella morale.


(Fonte: Vita pastorale - dicembre 2025)

giovedì 11 dicembre 2025

Le donne di Iran - Mosaico dei giorni di Tonio Dell'Olio

Le donne di Iran 
Mosaico dei giorni 
di Tonio Dell'Olio


Le donne iraniane sono donne senza paura. Oppure – chissà – sono donne abituate (ma mai rassegnate) a convivere con la paura come si convive con una malattia cronica.

Solo che le donne di Iran non hanno perso la speranza di debellare il male e trovare la cura giusta per guarire. E questo perché il male ha un nome e si chiama fondamentalismo, ha degli agenti che sono quelli che si riconoscono nel regime degli Ayatollah e ha una cura che ha il suo principio attivo nel rispetto: dei diritti umani, ovvero della dignità delle persone. Dall’inizio dell’anno in Iran ci sono state 1.878 esecuzioni di condanne a morte: 6 al giorno! È il segno evidente delle difficoltà in cui si trova il regime che ha bisogno di ricorrere alla repressione violenta del dissenso. È un regime che si regge sulla violenza e viene contrastato nonviolentemente dalle donne che ci mettono il corpo. 
A cominciare dai capelli al vento. Esposti anche a Kish dove erano ben 2.000 a correre la maratona con in capelli liberi dal velo. Se solo nel mondo ci fossero governi pronti a dare priorità a quella sete di libertà rispetto agli interessi economici che li tengono vincolati al regime dei Mullah, la storia avrebbe un altro corso. E a questo riguardo un grazie grande quanto un maxischermo a Jafar Panahi che ha posto magistralmente la sua genialità al servizio della denuncia di quelle violazioni con un film-capolavoro come “Un semplice incidente”.

(Fonte: Mosaico dei giorni dell'11.12.2025)

UDIENZA GENERALE 10/12/2025 - Leone XIV "La morte non sia un tabù ma il passaggio verso un’eternità felice" (testo e video)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 10 dicembre 2025

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Leone XIV prosegue le riflessioni giubilari su «Cristo nostra speranza»

La morte non sia un tabù
ma il passaggio
verso un’eternità felice


Il segreto di una vita autentica è nella preghiera
e nel lasciare andare il superfluo e l’effimero

Nella «luce nuova della Risurrezione» e «solo in essa, diventa vero quello che il nostro cuore desidera e spera: che cioè la morte non sia la fine, ma il passaggio verso la luce piena, verso un’eternità felice». Lo ha detto Leone XIV all’udienza generale di oggi, mercoledì 10 dicembre, memoria della Beata Vergine Maria di Loreto, in piazza San Pietro. Proseguendo il ciclo di catechesi sul tema giubilare «Gesù nostra speranza», ha ancora approfondito il legame tra «la Risurrezione di Cristo e le sfide del mondo attuale» e si è soffermato in particolare sulla Pasqua come «risposta ultima alla domanda sulla nostra morte». Ecco la sua riflessione.
(fonte: L'Osservatore Romano10/12/2025)

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CATECHESI DI LEONE XIV

Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. IV. La Risurrezione di Cristo e le sfide del mondo attuale. 7. La Pasqua di Gesù Cristo: risposta ultima alla domanda sulla nostra morte


Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Benvenuti tutti!

Il mistero della morte ha sempre suscitato nell’essere umano profondi interrogativi. Essa infatti appare come l’evento più naturale e allo stesso tempo più innaturale che esista. È naturale, perché ogni essere vivente, sulla terra, muore. È innaturale, perché il desiderio di vita e di eternità che noi sentiamo per noi stessi e per le persone che amiamo ci fa vedere la morte come una condanna, come un “contro-senso”.

Molti popoli antichi hanno sviluppato riti e usanze legate al culto dei morti, per accompagnare e ricordare chi si incamminava verso il mistero supremo. Oggi, invece, si registra una tendenza diversa. La morte appare una specie di tabù, un evento da tenere lontano; qualcosa di cui parlare sottovoce, per evitare di turbare la nostra sensibilità e tranquillità. Spesso per questo si evita anche di visitare i cimiteri, dove chi ci ha preceduto riposa in attesa della risurrezione.

Che cosa è dunque la morte? È davvero l’ultima parola sulla nostra vita? Solo l’essere umano si pone questa domanda, perché lui solo sa di dover morire. Ma l’esserne consapevole non lo salva dalla morte, anzi, in un certo senso lo “appesantisce” rispetto a tutte le altre creature viventi. Gli animali soffrono, certamente, e si rendono conto che la morte è prossima, ma non sanno che la morte fa parte del loro destino. Non si interrogano sul senso, sul fine, sull’esito della vita.

Nel constatare questo aspetto, si dovrebbe allora pensare che siamo creature paradossali, infelici, non solo perché moriamo, ma anche perché abbiamo la certezza che questo evento accadrà, sebbene ne ignoriamo il come e il quando. Ci scopriamo consapevoli e allo stesso tempo impotenti. Probabilmente da qui provengono le frequenti rimozioni, le fughe esistenziali davanti alla questione della morte.

Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, nel suo celebre scritto intitolato Apparecchio alla morte, riflette sul valore pedagogico della morte, evidenziando come essa sia una grande maestra di vita. Sapere che esiste e soprattutto meditare su di essa ci insegna a scegliere cosa davvero fare della nostra esistenza. Pregare, per comprendere ciò che giova in vista del regno dei cieli, e lasciare andare il superfluo che invece ci lega alle cose effimere, è il segreto per vivere in modo autentico, nella consapevolezza che il passaggio sulla terra ci prepara all’eternità.

Eppure molte visioni antropologiche attuali promettono immortalità immanenti, teorizzano il prolungamento della vita terrena mediante la tecnologia. È lo scenario del transumano, che si fa strada nell’orizzonte delle sfide del nostro tempo. La morte potrebbe essere davvero sconfitta con la scienza? Ma poi, la stessa scienza potrebbe garantirci che una vita senza morire sia anche una vita felice?

L’evento della Risurrezione di Cristo ci rivela che la morte non si oppone alla vita, ma ne è parte costitutiva come passaggio alla vita eterna. La Pasqua di Gesù ci fa pre-gustare, in questo tempo colmo ancora di sofferenze e di prove, la pienezza di ciò che accadrà dopo la morte.

L’evangelista Luca sembra cogliere questo presagio di luce nel buio quando, alla fine di quel pomeriggio in cui le tenebre avevano avvolto il Calvario, scrive: «Era il giorno della Parasceve e già risplendevano le luci del sabato» (Lc 23,54). Questa luce, che anticipa il mattino di Pasqua, già brilla nelle oscurità del cielo che appare ancora chiuso e muto. Le luci del sabato, per la prima ed unica volta, preannunciano l’alba del giorno dopo il sabato: la luce nuova della Risurrezione. Solo questo evento è capace di illuminare fino in fondo il mistero della morte. In questa luce, e solo in essa, diventa vero quello che il nostro cuore desidera e spera: che cioè la morte non sia la fine, ma il passaggio verso la luce piena, verso un’eternità felice.

Il Risorto ci ha preceduto nella grande prova della morte, uscendone vittorioso grazie alla potenza dell’Amore divino. Così ci ha preparato il luogo del ristoro eterno, la casa in cui siamo attesi; ci ha donato la pienezza della vita in cui non vi sono più ombre e contraddizioni.

Grazie a Lui, morto e risorto per amore, con San Francesco possiamo chiamare la morte “sorella”. Attenderla con la speranza certa della Risurrezione ci preserva dalla paura di scomparire per sempre e ci prepara alla gioia della vita senza fine.

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Saluti

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APPELLO

Sono profondamente rattristato dalla notizia del riacceso conflitto lungo il confine tra Thailandia e Cambogia, ci sono state vittime anche tra i civili e migliaia di persone hanno dovuto abbandonare le proprie case. Esprimo la mia vicinanza nella preghiera a queste care popolazioni e chiedo alle parti di cessare immediatamente il fuoco e di riprendere il dialogo.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai fedeli di lingua italiana. In particolare...

Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Oggi celebriamo la memoria della Beata Vergine Maria di Loreto. Cari giovani, alla scuola di Maria imparate ad amare e a sperare; cari ammalati, la Santa Vergine vi sia compagna e conforto nella sofferenza; e voi, cari sposi novelli, affidate alla Madre di Gesù il vostro cammino coniugale.

A tutti la mia benedizione!


Guardo il video integrale

#parola e silenzio - Breviario di Gianfranco Ravasi

#parola e silenzio 
Breviario di Gianfranco Ravasi 


La parola è un sintomo d’affetto / e il silenzio un altro. / La più perfetta comunicazione / non è udita da nessuno, / esiste e la sua conferma / la si ha dentro.

Come sempre, la grande poetessa ottocentesca americana Emily Dickinson riesce in modo folgorante a intrecciare parola e silenzio, proprio come accade nelle autentiche poesie che esigono spazi bianchi dopo ogni verso. Il primato è, però, assegnato al silenzio “bianco”, che raccoglie in sé i colori di tutte le parole, come accade ai veri innamorati che, esaurito il repertorio delle frasi, tacciono e si guardano negli occhi. Anche nella fede, come nell’amore, i silenzi sono più eloquenti delle parole. Chi non ricorda «i sovrani silenzi… la profondissima quiete… dell’infinito silenzio» che avvolge Leopardi nel suo «ermo colle», e come per questa via «gli sovvien l’eterno e le morte stagioni, e la presente e viva»?

Certo, spesso questo silenzio – soprattutto ai nostri giorni così rumorosi e chiacchieroni – non è colmo di parole ineffabili e preziose, ma è squarciato e sporcato esteriormente dal fracasso, da parole vane e insignificanti. Etty Hillesum, ebrea olandese vittima del nazismo ad Auschwitz a 29 anni, annotava nel suo diario: «In me c’è un silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono tante parole che stancano perché non riescono ad esprimere nulla». Certo, se il silenzio che vivi è “nero”, cioè vuoto, cerchi di sopraffarlo col suono frenetico: forse un emblema sono talvolta i decibel altissimi della discoteca. Per ascoltare veramente l’altro è necessario sostare non con un semplice tacere esteriore e fisico, ma con un silenzio interiore, un atteggiamento rivolto ad accogliere la parola dell’altro. In finale ecco la sintesi ancora di Emily Dickinson: «Silenzio è quanto temiamo. / C’è riscatto in una voce. / Ma silenzio è infinità».

(Fonte: “Il Sole 24 Ore - Domenica” - 7 dicembre 2025) 

mercoledì 10 dicembre 2025

Tonio Dell'Olio - Il campionario delle violazioni

Tonio Dell'Olio
 
Il campionario delle violazioni




PUBBLICATO IN MOSAICO DEI GIORNI  10 DICEMBRE 2025

Nella giornata dei diritti umani che si celebra a distanza di 77 anni da quel 10 dicembre 1948 in cui la dichiarazione venne proclamata dalle Nazioni Unite, non abbiamo altro pensiero che quello di violazioni estese, continue e dolorose.

Si piangono lacrime di sangue a pensare alla condizione delle donne nel mondo e ai loro legittimi diritti violati sempre, dappertutto, in ogni guerra, sui marciapiedi, nelle case che da rifugi si trasformano in prigioni e torture, negli angoli bui in cui si nascondono codardi i figli del patriarcato più violento, nel mondo in cui i bambini cercano un seno e lo trovano silente o laddove la scuola, la sanità, il divertimento e gli abbracci vengono negati a un corpo segregato nel burqa e a un’anima che niente e nessuno possono velare. 

Penso alle galere in cui la dignità è calpestata come uno zerbino, lontano dalla vista dei benpensanti e dove la tortura diventa sistema tollerato dalla maggioranza come protesi del disprezzo verso chi ha sbagliato o sul corpo di chi dissente, obietta o semplicemente protesta. 

E sarebbe un tradimento della dichiarazione se oggi non volgessimo un pensiero a coloro cui viene negato il diritto a salvarsi dalla guerra o dalla fame e viene respinto, rimigrato, deportato secondo gli aggiornamenti della dottrina “umanitaria”. 
Quanti dormono il sonno esterno nel fondo del Mediterraneo, ai confini del Messico, nei cammini disperati tra l’Afghanistan e la salvezza? E non sono che uno scampolo del campionario fitto.


Ceto medio in affanno: cosa racconta il nuovo Rapporto Censis


Ceto medio in affanno:
cosa racconta il nuovo Rapporto Censis

L’Italia è segnata da un ceto medio sempre più fragile e da una ricchezza concentrata nelle mani di pochi. Tra inflazione, crisi della sanità e crescita del debito, il Paese appare diviso e vulnerabile, con ricadute pesanti sul welfare e sulla fiducia sociale

Foto di Andres Siimon da Unsplash.

Come ogni anno arriva il Rapporto Censis. Me ne occupo da tempo e, ormai da pensionato, leggo i numeri col bisogno di sufficienti diottrie, nel senso che alla fine della fiera è complicato dire dove abita e che fa il “signor“ ceto medio, posto al centro della scena delle statistiche. Potrei sembrare irrispettoso dei sociologi dell’esimio centro di ricerca sociale, tra i più noti e apprezzati d’Italia, ma voleva essere una battuta per evidenziare che occorre un certo esercizio di immedesimazione nelle categorie prese in esame dal Rapporto per poi sentirsi in qualche modo presi in giusta considerazione.

Allora, la prima notizia, che è un grande pugno nella pancia sociale, è sapere che il signor ceto medio, in Italia, vive in uno stato febbrile: nella stagnazione, in una condizione di grave affanno o, peggio ancora, rischia di perdere lo status socio-economico faticosamente conquistato nel tempo. E lì ci starebbe bene una bella esclamazione educata come “capperi“!

E poi aggiungo che, rovistando sempre nei numeri statistici, sembra che la sanità sia in crisi per le troppe liste d’attesa, che causano anche un certo calo di cure che invece dovrebbero essere prese in carico. Quindi, se questo è vero, il signor ceto medio, se ha uno stato febbrile, si curerà. Ci auguriamo di sì.

Ma, uscendo dal tono scherzoso e facendoci molto seri, si scopre che all’inizio del 2025 il 60% della ricchezza nazionale è posseduta da 2,6 milioni di famiglie appartenenti al decimo decile. Di più: il 48% della ricchezza è in mano a 1,3 milioni di famiglie, che costituiscono il 5% delle famiglie più abbienti. La forbice della ricchezza taglia nettamente il Paese in due, se non in tre, dove pochi hanno molto, molti hanno poco e 5,7 milioni di italiani non hanno quasi niente. E si sa: le forbici sono pericolose da usare.

Negli ultimi anni l’inflazione ha condizionato pesantemente i comportamenti di consumo delle famiglie italiane, e credo che tanti, tornando dal supermercato, se ne siano resi conto. Anche nell’ambito dell’abbigliamento la forbice tra spesa e acquisto mantiene un’ampia differenza, nonostante l’Italia sia il Paese della moda.

Ed ora parliamo difficile. Il grande debito inaugura il nuovo secolo delle società post-welfare. La crescita vertiginosa dell’indebitamento delle economie avanzate le rende fatalmente più fragili e vulnerabili. Tra il 2001 e il 2024, nei Paesi del G7, a fronte di una stentata crescita dell’economia, il debito pubblico è lievitato dal 75,1% al 124,0% del Pil. In Italia dal 108,5% al 134,9%, in Francia dal 59,3% al 113,1%, nel Regno Unito dal 35,0% al 101,2%, negli Stati Uniti dal 53,5% al 122,3%. Ci sarebbe da stare contenti perché non siamo più l’unico malato d’Europa. Ma evitiamo di contagiarci di nuovo.

Comunque, qualunque posto occupiamo in classifica, l’ingente debito e la bassa crescita, legata all’invecchiamento demografico e alla riduzione della popolazione attiva, congiurano per un inevitabile ridimensionamento del welfare.

Colpisce che sono diminuite le spese per la cultura, che è una nota molto stonata del concerto Italia. Insomma, le notizie sono un po’ deboli e il Censis, caparbiamente, lo dice da anni. A noi la possibilità di smentirlo.
 (Fonte: Città Nuova, articolo di Paolo De Maina 06/12/2025)



Alex Zanotelli È in atto una guerra contro i migranti. Istigati da Trump anche i vertici UE stanno varando politiche criminali e razziste

Alex Zanotelli
È in atto una guerra contro i migranti.
Istigati da Trump anche i vertici UE
stanno varando politiche criminali e razziste 


Mai come in questo momento è importante continuare con il nostro Digiuno di giustizia in solidarietà con i migranti, diventati oggi, per Trump e per i governi di ultradestra, i nemici dell’Occidente. L’attacco di Trump all’Unione Europea è chiaro: “Le migrazioni di massa, illegali e legali, sono una minaccia esistenziale per la civiltà occidentale e la sicurezza dell’Occidente e del mondo.”

Meloni e Orban sono lodati da Trump come eccezioni nella gestione dei migranti. E qui emerge con chiarezza il pensiero fondamentale su cui vola l’ultradestra mondiale: il suprematismo bianco, la convinzione che la ‘tribù bianca’ è detentrice della civiltà, della cultura e della vera religione.

È questo il pensiero che è stato alla base del colonialismo. Per questo motivo è in atto la guerra contro i migranti, soprattutto se neri o musulmani. Una guerra portata avanti con politiche criminali e razziste sia da parte della UE come del governo Meloni, che hanno causato la morte di decine di migliaia di migranti sepolti nel Mediterraneo. Non solo, la UE ha perseguito la politica dell’“esternalizzazione delle frontiere”, siglando accordi con governi sia del Nord Africa come della Turchia, perché trattengano milioni di migranti nei loro paesi. Per questo la UE ha già dato nove miliardi di euro alla Turchia per trattenere i migranti in paurosi campi di concentramento.

Ora, ritengo che l’attacco durissimo di Trump contro la UE abbia spinto ieri anche il Parlamento europeo ad accettare quello che chiede Trump: tagliare, in maniera ancora più drastica, i diritti dei migranti stabiliti dalle Convenzioni internazionali. Infatti, il Parlamento europeo ha stabilito i seguenti “paesi sicuri” nei quali si potranno deportare le persone che da lì sono fuggite: Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia.

Come si possono etichettare sicuri quei paesi in cui vi sono gravi violazioni dei diritti umani, con numero impressionante di detenuti politici per non parlare di sparizioni, esecuzioni extra
-giudiziarie? La drammatica conseguenza è che la domanda di asilo da parte dei migranti potrà essere considerata inammissibile.

Addio all’articolo 10 della nostra Costituzione. Per di più, il Parlamento europeo ha così benedetto il modello Albania, per cui altri Stati potranno imitarne l’esempio. È il trionfo dei governi di ultradestra in Europa.
Penso che avesse ragione quel grande profeta che è stato Papa Francesco, quando nel suo viaggio a Lampedusa, invocò Dio perché ci conceda “la grazia di piangere sulla nostra indifferenza.”

Come digiuno di giustizia in solidarietà con i migranti ci incontreremo il 10 dicembre dalle ore 16 alle ore 17,30 in via San Nicola de’ Cesarini (Largo argentina), a Roma.

Padre Alex Zanotelli a nome del Digiuno di Giustizia in solidarietà con i migranti

Nella foto: lo scorso 25 marzo la Guardia Costiera libica – finanziata, equipaggiata e addestrata dagli Stati membri dell’Unione Europea – ha minacciato l’equipaggio della Ocean Viking con colpi d’arma da fuoco, prima di intercettare brutalmente circa 80 persone in difficoltà in acque internazionali.

La nave di soccorso Ocean Viking, gestita da SOS MEDITERRANEE, è stata intercettata dalla motovedetta 656 della Guardia Costiera libica che si è avvicinata pericolosamente alla Ocean Viking. Tutti i tentativi del team di comando di contattarla via VHF (radio) sono rimasti senza risposta. L’equipaggio della motovedetta libica ha iniziato a comportarsi in modo aggressivo, minacciando con le armi e sparando colpi di fucile in aria, a poche decine di metri di distanza dalla nostra nave.

Dato che l’incolumità dell’equipaggio era minacciata, la Ocean Viking non ha avuto altra scelta che allontanarsi dalla scena, mentre la Guardia Costiera libica continuava a sparare colpi di arma da fuoco. L’aereo civile di sorveglianza Seabird 2, gestito dalla ONG Sea Watch, ha monitorato la scena. Seabird 2 ha in seguito confermato di aver avvistato persone cadute in mare dal gommone e poi recuperate. Circa 80 persone sono state dunque bloccate in mare e riportate forzatamente in Libia
(fonte: Faro di Roma 09/12/2025)



martedì 9 dicembre 2025

DA CUORE A CUORE: IL PRESBITERO TRA FRAGILITÀ E SLANCI - Meditazione di don Mimmo Battaglia Arcivescovo di Napoli

DA CUORE A CUORE: 
IL PRESBITERO TRA FRAGILITÀ E SLANCI 
Meditazione di don Mimmo Battaglia,
Cardinale - Arcivescovo di Napoli


Venerdì 28 novembre 2025, a Pompei, i presbiteri delle diocesi della Campania si sono ritrovati per l’incontro regionale «Da cuore a cuore: il presbitero tra fragilità e slanci», promosso dalla Conferenza Episcopale Campana e pensato come primo appuntamento di un cammino annuale di fraternità e formazione.

Al centro della mattinata è stata la meditazione di S.Em. il Cardinale Domenico Battaglia, Arcivescovo di Napoli, che ha scelto di parlare al “cuore credente” dei presbiteri, partendo dalle parole del Vangelo di Giovanni: «Li amò sino alla fine». Il cuore trafitto di Cristo, ha ricordato, è la sorgente di ogni vocazione: non chiede preti perfetti o invulnerabili, ma «cuori aperti» che si lasciano raggiungere dalla sua misericordia.



        Carissimi Presbiteri, 
con gioia profonda sono qui, insieme a voi e ai nostri fratelli vescovi — che saluto con affetto — e al caro amico Erri. Oggi il mio desiderio è parlare al vostro cuore, non al cuore stanco e ferito, né a quello che si agita nel timore, ma a quel cuore ardente che ancora crede e cerca, quel cuore che, nonostante le tempeste, continua a danzare con la vita. È proprio lì, in quel pulsare tenace, che si nasconde il mistero sublime della nostra vocazione, il segreto sacro che ci sostiene quando tutto intorno pare svanire. È in quel battito, forte e vero, che Dio si fa vicino, perché l’amore primo e eterno, colui che ci chiama e ci sostiene, è sempre Lui! 

Dilexit eos usque ad finem (Gv 13,1): «Li amò sino alla fine». Non solo li amò, ma li amò fino a consumarsi. Fino a lasciare che il proprio cuore si aprisse, diventando sorgente di misericordia. Questo è il punto di partenza di ogni servizio, di ogni vocazione: un cuore aperto. Non un cuore perfetto, non un cuore forte, ma un cuore disponibile a lasciarsi attraversare. Papa Francesco, nella sua lettera Dilexit nos (29 giugno 2024), ci ha ricordato che l’amore di Cristo non si stanca, non si arrende, non pretende nulla in cambio: ci raggiunge e ci abbraccia persino nelle nostre fragilità. È un amore che non si misura, ma si dona. Non si ferma di fronte al peccato, ma lo trasforma in spazio di grazia. E noi, fratelli, siamo chiamati a questo: a non avere paura delle nostre fragilità, ma a farne il luogo dell’incontro con Dio. Perché la fragilità non è il contrario della fede: è invece il terreno in cui la fede fiorisce. Ognuno di noi conosce, come tutti gli uomini e le donne, la fatica di vivere. Le nostre giornate scorrono tra mille impegni, voci, attese, volti. E spesso, quando la sera chiudiamo la porta della canonica, ci resta addosso il silenzio di chi non sa più a chi raccontarsi. Quella solitudine che pesa e che, se non è abbracciata, rischia di diventare amara. Eppure proprio lì, nel vuoto che fa male, Dio ci attende. Non per rimproverarci, ma per ricordarci che la nostra vita è stata scelta, amata, custodita.

      Fratelli, noi non siamo chiamati a essere eroi, ma a essere segni. Segni di un Dio che non si vergogna di noi. Segni di un amore che non chiede di essere capito, ma accolto. Segni di un Cuore che continua a battere nel silenzio delle nostre vite. 

     Ecco, se c’è una cosa che il mondo oggi chiede ai preti è proprio questa: autenticità. Mani che tremano, cuori che si lasciano toccare, parole che nascono dal dolore e dalla speranza. Non si tratta di apparire forti, ma di restare veri. Di imparare a dire: “Ho bisogno anch’io.” Di saperci inginocchiare non solo davanti al tabernacolo, ma davanti alla nostra umanità, riconciliandoci con essa. Perché Dio non si scandalizza delle nostre stanchezze. Le prende sulle sue spalle e le trasforma in luogo di incontro. Perché tutto può diventare spazio di Dio, se lo lasciamo entrare. Per questo dobbiamo sempre ricordare che non siamo chiamati ad essere impeccabili, ma trasparenti. Non siamo votati al successo, ma alla fedeltà. Non siamo destinati al potere, ma al servizio umile e disinteressato. Il mondo non ha bisogno di preti che parlano dall’alto, ma di fratelli che camminano accanto, con la stessa polvere sulle scarpe, lo stesso dolore nel cuore e lo stesso sogno che risplende sul volto. Di uomini che insegnano con la parola e con la vita che ogni ferita può diventare un ponte. Ogni caduta, una nuova possibilità di comunione. Ogni fragilità, una porta spalancata sulla misericordia. Siamo stati amati per amare, e amati nella fragilità per poter accogliere la fragilità degli altri. Alda Merini scriveva: «Sono nata fragile, ma la mia fragilità mi ha insegnato a reggere il mondo» (Vuoto d’amore, Einaudi, 1991, p. 14). 

         Amici miei, vorrei che quest’oggi ci lasciassimo condurre dentro una delle pagine più luminose e disarmanti del Vangelo: la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,25-37). La conosciamo bene, l’abbiamo meditata tante volte, ma forse non abbiamo ancora lasciato che essa ci leggesse nel profondo. Perché ogni volta che ci mettiamo davanti a questo racconto, il rischio è quello di identificarci subito con il Samaritano: quello che scende da cavallo, che si china, che versa olio e vino, che cura e accompagna. È bello pensarsi così: uomini del servizio, ministri della misericordia. Ma forse, fratelli, la parabola ci chiede un passo ulteriore, o meglio, un capovolgimento. «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico» (Lc 10,30): è l’inizio. Un uomo qualsiasi, senza nome, scende dalla città santa alla valle più bassa del deserto. È un cammino reale, ma anche simbolico: la discesa da Gerusalemme a Gerico è la discesa del cuore nella propria umanità, là dove la vita si mostra senza difese. E su quella strada l’uomo viene aggredito, spogliato, lasciato mezzo morto. Fratelli, quell’uomo siamo noi. Noi, preti che scendiamo ogni giorno per incontrare la vita della gente, e che spesso torniamo feriti, stanchi, spogliati. A volte dai giudizi, a volte dalle nostre stesse incoerenze, a volte dal senso di impotenza che ci abita. Quell’uomo è il volto del ministero quando si fa fragile, quando non riesce più a reggere la distanza tra il Vangelo annunciato e la vita vissuta. Il sacerdote e il levita che passano oltre non sono semplicemente esempi negativi; sono lo specchio delle nostre difese. Quante volte, per paura di guardare in faccia la ferita, passiamo oltre? Quante volte, davanti al dolore, cerchiamo di essere efficienti invece che presenti? Quante volte ci nascondiamo dietro il dovere pastorale per non sentire la nostra stanchezza più profonda? Ma ecco, nella polvere di quella strada, «un Samaritano che era in viaggio, vedendolo, ebbe compassione» (Lc 10,33). È la frase centrale. Il verbo greco usato da Luca in greco significa “essere toccato nelle viscere”. È il verbo stesso della compassione di Dio, lo stesso usato per Gesù davanti al dolore dell’uomo (cfr. Lc 7,13; 15,20). Il Samaritano, figura dello straniero, del non appartenente, diventa immagine del Cristo che si fa vicino a ogni creatura ferita.

Cristo è il Samaritano che si china su di noi. È Lui che versa olio e vino sulle nostre piaghe: l’olio della consolazione, il vino dell’alleanza. È Lui che ci solleva e ci conduce alla “locanda” — che i Padri della Chiesa, da Origene ad Agostino, hanno sempre letto come simbolo della Chiesa, il luogo della cura, del tempo e della misericordia: «La locanda è la Chiesa — scrive Agostino — dove Cristo fa condurre i feriti perché siano guariti, e affida il loro custode al locandiere, cioè al pastore» (Sermone 171, 2, PL 38, 933). Sì, fratelli, prima di essere pastori, noi siamo uomini feriti condotti alla locanda. Siamo quelli che Cristo ha raccolto sulla strada, medicato e affidato. E questo non è un’umiliazione: è la verità del ministero. Essere preti non significa non avere ferite, ma imparare a lasciarsi curare. Significa saper dire con umiltà: «Anch’io ho bisogno di essere preso in braccio». Perché solo chi si lascia salvare può diventare segno di salvezza. Solo chi si lascia curare può curare gli altri! Solo chi è fedele alla propria fragilità può essere fedele alla fragilità degli altri, accogliendola senza banalizzare, senza giudicare! Amici cari, In questo tempo, prendersi cura della propria fragilità, “maneggiarla con cura” – come è scritto sui pacchi che contengono cose fragili e preziose - richiede tre fedeltà semplici e essenziali: la fedeltà al corpo, la fedeltà alla fraternità e la fedeltà alla realtà. Tre fedeltà radicate nell’unica fedeltà al Signore!

Fedeltà al corpo. Fratelli miei, non si può servire Dio disprezzando la propria carne. Troppi di noi portano una stanchezza che non nasce solo dal lavoro… ma dall’incuria. Dal non dormire per troppi pensieri. Dal non mangiare per troppa fretta. Dal non concedersi mai un tempo umano… perché imprigionati nel “fare”. Ma il corpo, fratelli, non è un ostacolo. È il primo altare che ci è stato consegnato! Dio abita nei battiti, nei respiri, nei limiti. Non ci ha scelti come angeli, ma come uomini: fatti di polvere e di luce, di stanchezza e di desiderio. 

E il corpo parla anche quando si affaccia la demotivazione, quella stanchezza più profonda che non viene dalle ore di attività, ma dal senso di inutilità che a volte ci raggiunge come un’ombra. La riconoscete: è quel fiato corto dell’anima in cui tutto sembra pesante, e persino il bene diventa un dovere privo di colore. Il corpo la registra prima della mente: ci si sveglia più lenti, si perde slancio, si attenua il gusto delle cose. E spesso questo accade perché viviamo in un mondo che sembra correre senza di noi, un mondo che non ci domanda nulla e ci fa credere di non servire più a niente… come se non avesse bisogno delle nostre mani, delle nostre parole, della nostra presenza. Ma non è così: questo mondo, proprio mentre appare autosufficiente, porta dentro una sete immensa di senso, di giustizia, di tenerezza… una sete di Dio. E quando noi ci sentiamo demotivati, è spesso perché abbiamo smesso di percepire questa sete, o perché nessuno ci ha più ricordato che siamo necessari non per ciò che facciamo, ma per ciò che siamo. Il corpo ci ricorda che non siamo padroni di nulla, neppure di noi stessi. E che anche il servizio a Dio e ai fratelli ha bisogno di misura, di respiro, di umanità. Non si può annunciare il Dio della vita trascurando la propria! La fragilità del corpo è maestra di umiltà: ci insegna che non siamo dèi, ma uomini visitati dalla grazia. Per questo vi ricordo che riposare non è peccato: è atto di fede. È dire a Dio: “Tu puoi portare avanti il mondo anche senza di me.” Mangiare con calma. Camminare. Respirare. Guardare un tramonto. Sono gesti teologici! Ci riconsegnano alla verità del limite, ci liberano dall’ansia di dover sempre fare di più. Il corpo, quando è ascoltato, diventa profeta: ci avverte quando stiamo perdendo la rotta. Perché il corpo, fratelli miei, è il primo strumento dell’amore!

Fedeltà alla fraternità. Nessuno regge da solo il peso della vita. Fin dagli albori il Signore ci ha sempre ripetuto che è bene che l’uomo non sia solo. E questo non vale solo per l’amore coniugale ma anche per l’amicizia, la compagnia, e la fraternità: tutte cose indispensabili. Anche per il nostro ministero. L’individualismo clericale è la malattia più sottile del nostro tempo: ti isola, ti fa credere che la solitudine sia segno di forza, ti convince che chiedere aiuto sia una debolezza.

Ma il Vangelo ci mostra un’altra logica: Gesù manda i discepoli a due a due (Mc 6,7), perché sa che la fede non resiste da sola. Non basta celebrare insieme: bisogna camminare insieme. La fraternità è la casa dove si impara la tenerezza, dove il confronto non umilia ma genera, dove la differenza non divide ma completa. Un confratello che sa restare, che ascolta senza correggere, che non pretende di aggiustare ma di accompagnare, è un dono raro e prezioso. È come un balsamo: non guarisce tutto, ma allevia e sostiene. E noi, fratelli, abbiamo un disperato bisogno di balsami più che di ricette. Abbiamo bisogno di uno sguardo che ci dica: “Non sei solo.” Perché l’isolamento, quando si allunga, diventa deserto interiore, e nel deserto il cuore si inaridisce. 

Coltivare la fraternità significa scegliere di non giudicare, di non competere, di non confrontare i frutti. Significa imparare a vedere il bene dell’altro senza sentirlo come una minaccia. Significa custodire la  speranza del fratello come fosse la propria. La fraternità non è solo convivere, è con-credere: credere insieme, anche quando uno dei due non ce la fa. È reggere il peso della fede a turno. Oggi tocca a me sorreggerti, domani toccherà a te. Così si salva la vocazione: non da soli, ma a due a due, come i discepoli di Emmaus che si tengono compagnia nella notte. E ricordiamolo: l’amicizia tra preti non è tempo perso, è tempo di grazia. È ciò che preserva dal cinismo, che riaccende la fiducia, che ci riporta al cuore della chiamata. Nessuno diventa santo da solo, perché la santità è comunione. Chi vive relazioni autentiche è più resiliente, più capace di accogliere le proprie fragilità senza vergogna. La fraternità è un luogo privilegiato della grazia. Non sostituisce la preghiera, la rende incarnata. E allora, fratelli, impariamo a “perdere tempo” insieme. A cenare senza fretta, a passeggiare, a raccontarci la vita. Il tempo condiviso non è sottratto al Vangelo: è Vangelo vissuto. La Chiesa respira solo se i suoi preti respirano insieme. 

Fedeltà alla realtà. Fratelli miei, questa fedeltà è preziosa perché la tentazione più sottile, quando ci si sente fragili, è fuggire. Rifugiarsi in mondi spiritualistici, nelle devozioni come anestesia, nei ruoli come difesa. Ma il prete non è chiamato a scappare: è chiamato a restare nella realtà, anche quando punge, anche quando smentisce le nostre attese. Il Vangelo non è un’evasione: è un’immersione. Dio non si manifesta nei cieli limpidi, ma nella polvere delle strade. Gesù non ha predicato da lontano, ha toccato, ha ascoltato, ha pianto. La fedeltà alla realtà è una forma alta di amore. È scegliere di non girarsi dall’altra parte, di non rimuovere il dolore della gente, di non spiritualizzare ciò che chiede carne e presenza. 

Non c’è Vangelo senza incarnazione: ogni volta che evitiamo la realtà, evitiamo Cristo. Ogni volta che ci lasciamo ferire dal mondo senza disperarci, portiamo Dio dentro la storia. A volte ci rifugiamo nel pensiero per non sentire, nelle parole per non toccare, nella teologia per non piangere. Ma il ministero non può diventare difesa contro la vita. La realtà, con le sue contraddizioni, è il luogo dove Dio ci parla con verità. Lì ci insegna la compassione, lì ci plasma, lì ci converte. La vera preghiera nasce sempre dal contatto con la terra: non si può amare in astratto. Si ama con mani sporche, con scarpe impolverate, con cuore vivo. Restare fedeli alla realtà significa non perdere contatto con la vita della gente. Significa ascoltare le loro parole, visitare le loro case, respirare il loro mondo. È lì che si gioca la credibilità della Chiesa. Non nelle dichiarazioni, ma nei gesti concreti: un prete che resta, che accompagna, che non fugge davanti al dolore, annuncia il Dio che resta. È la forma più alta di teologia: la teologia dei piedi che camminano, delle mani che curano, degli occhi che vedono. E c’è anche una realtà più piccola, più silenziosa, quella di sé stessi.

Essere fedeli alla realtà significa anche guardarsi dentro senza paura, non negare la propria stanchezza, non coprire i vuoti con l’attivismo. Chi non accoglie la propria realtà interiore finirà per vivere di apparenze. Ma Dio non benedice le apparenze, benedice la verità. E la verità, anche quando è dura, è sempre salvifica. 

      Fratelli miei, prendiamo sul serio queste forme di fedeltà. Non lasciate che il vento delle cose di ogni giorno porti via la fedeltà al corpo, alla fraternità, alla realtà. Custoditele. Con l’aiuto del Signore Gesù, vostro amico, compagno, fratello. E permettetemi, nel concludere, di offrirvi una sorta di decalogo della cura. Perché la cura è la compagna insostituibile della fedeltà: ne è il respiro concreto, il modo in cui ciò che crediamo si traduce in gesti, tempi, attenzioni. Dopo aver guardato in profondità 
dentro la nostra carne, dentro i legami e dentro la realtà che ci abita, la cura diventa il passo quotidiano che tiene insieme tutto: è la forma incarnata della fedeltà. 

Prendetele come parole semplici, consigli fraterni che nascono dal desiderio di restituire alla nostra vita un ritmo più umano, più evangelico, più vero. Capace di prendersi cura della fragilità e di restituirla come benedizione a coloro che ci sono affidati: 

1. Coltivare la semplicità. La semplicità non è povertà di pensiero, ma purezza di cuore. È la libertà di chi non deve dimostrare nulla, di chi non ha più paura di essere sé stesso. Viviamo tra parole complesse e cuori confusi, ma Dio continua a scegliere la via dell’essenziale. Restare semplici significa lasciare che la luce passi attraverso la trasparenza della vita. Il semplice non è ingenuo: è chi ha attraversato il buio e ha scelto la chiarezza. Siate preti semplici, fratelli: capaci di stupore e di pane condiviso. 

2. Imparare a chiedere aiuto. Chiedere aiuto è un atto di coraggio, non di debolezza. È imparare a dire: “Non ce la faccio da solo, ma credo che l’amore dell’altro possa sostenermi.” Siamo abituati a essere pastori, a sostenere, ad ascoltare; ma spesso dimentichiamo che anche noi abbiamo bisogno di essere accompagnati. Nessuno può reggere a lungo senza una spalla su cui appoggiarsi, senza una voce che accolga, senza uno sguardo che contenga. Chiedere aiuto a un confratello, al vescovo, a una persona esperta nello spirito, a un padre che conosce le vie del cuore — non è segno di fragilità, ma di fiducia. È riconoscere che lo Spirito parla anche attraverso l’altro, che la grazia ha voce plurale. Osate la richiesta, fratelli. Non aspettate che il peso diventi troppo grande. Nessuna solitudine è evangelica, nessuna stanchezza va nascosta. La Chiesa non è fatta di eroi, ma di fratelli che si sostengono a vicenda. Un prete che sa chiedere aiuto diventa un testimone credibile dell’umiltà, un maestro di umanità. Perché solo chi accetta di essere custodito può davvero custodire.

3. Coltivare la gratitudine. Anche un solo “grazie” al giorno può cambiare la direzione del cuore. La gratitudine è la lingua dei figli, non dei padroni. È la preghiera silenziosa di chi riconosce che tutto è dono, anche ciò che non ha scelto. Ringraziare non cancella la fatica, ma le restituisce un senso; non nega il dolore, ma lo trasfigura. Il Vangelo ci insegna che la gratitudine è il primo segno della fede autentica: solo uno dei dieci lebbrosi torna indietro a ringraziare, e Gesù gli dice: «La tua fede ti ha salvato» (Lc 17,19). Dire “grazie” ci libera dal mormorio, dalla pretesa, dall’amarezza che chiude il cuore. È il modo più semplice e più vero per riconoscere la presenza di Dio nella nostra storia. La gratitudine ci riporta alla sorgente, ci fa tornare bambini tra le mani del Padre, ci ricorda che non siamo autori della grazia, ma destinatari: «In ogni cosa rendete grazie: questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.» (1Ts 5,18). 

4. Custodire l’amicizia. L’amicizia vera è una relazione che non chiede spiegazioni, ma accoglie; è quella presenza discreta che ti ricorda chi sei quando non lo ricordi più. È una comunione che non giudica ma sostiene, che ti salva dall’illusione di bastarti. Gesù stesso ha voluto vivere l’amicizia: ha chiamato i suoi discepoli non servi, ma amici. «Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Abbiate accanto qualcuno che vi ami più per la vostra verità che per la vostra efficienza. Non cercate amicizie perfette, ma vere: amicizie che resistano al tempo, alla distanza, alle stagioni del cuore. Un amico nello Spirito è come un pozzo nel deserto: non lo incontri ogni giorno, ma quando ci arrivi ritrovi la freschezza della vita. 

5. Pregare senza stancarsi. La preghiera non è un compito da assolvere, ma un respiro in cui dimorare. È il luogo in cui la vita si lascia raggiungere da Dio e torna a pulsare secondo il suo ritmo. Non servono parole perfette, ma parole vere; non formule, ma disponibilità del cuore. Pregate come chi si confida,
come chi torna a casa dopo un lungo cammino. Pregate parlando al Signore come un amico parla all’amico, perché «il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (Mt 6,8). E quando le parole finiscono, lasciate che il silenzio prenda voce: anche il silenzio può essere preghiera, se è abitato dall’attesa e dall’amore. «Lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). Non pregate per “fare qualcosa”, ma per “lasciarvi fare”: perché la preghiera non cambia Dio, cambia noi, e ci restituisce la verità di essere figli amati. 

6. Non forzare i tempi. Non tutto deve accadere subito. La grazia ha il passo del lievito e il tempo del seme. Nella lentezza si custodisce la profondità, si impara la fedeltà, si purifica l’intenzione. La fretta è la tentazione di chi non si fida del tempo di Dio. Coltivate la pazienza del tempo e dei processi come una insostituibile pedagogia del cuore. «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme sul terreno: dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa.» (Mc 4,26- 27).

7. Custodire il sorriso. Provate ad immaginare il sorriso del nostro compagno e Signore Gesù: quando benediceva i bambini, quando condivideva il pane con gli amici, quando guardava il giovane ricco. Il sorriso di Dio è il primo perdono che raggiunge il cuore. Il sorriso è un atto di fede nella bontà di Dio. E può aiutarci a vivere quell’ironia che blocca tutti i deliri di onnipotenza: ridere di sé non è mancanza di serietà, ma riconoscimento che la nostra vita è custodita da una misericordia più grande di ogni errore. Chi sa sorridere delle proprie fragilità testimonia che la grazia non umilia, ma rialza; non giudica, ma abbraccia. Forse il mondo ha bisogno di preti che sorridano con Dio, non di uomini che si giudichino senza misericordia. Perché il Vangelo non è una cronaca di dolori, ma una storia di gioia e come afferma la Scrittura «Un cuore allegro è una buona medicina, uno spirito abbattuto inaridisce le ossa» (Pr 17,22).

8. Imparare a riposare. Solo chi sa riposare sa anche ripartire. Il ritmo dell’anima non è quello frenetico del mondo, e chi vive di frenesia continua finisce per perdere la direzione del cuore. Fermarsi non è un lusso, ma un atto di fiducia: è dire “non tutto dipende da me”, e lasciare che Dio torni a essere il Signore del tempo. Nel silenzio, quando smettiamo di correre, si risente il battito di Dio dentro di noi. E la grazia può raggiungerci senza essere soffocata dall’urgenza. Riposare significa rispondere all’invito del Signore: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’.» (Mc 6,31) Ricordate che anche il settimo giorno Dio si fermò, e benedisse il riposo (Gen 2,2-3): fermarsi è dunque entrare nel ritmo stesso della creazione, imparare a guardare la vita con lo sguardo di Dio, che non misura il valore dal fare ma dall’essere.

9. Andare oltre le delusioni. Le delusioni fanno parte della vita e del ministero: arrivano quando le attese non coincidono con la realtà, quando il bene non sembra dare frutto, quando la fiducia non è ricambiata. Ma la delusione, se attraversata nella fede, può diventare una soglia: libera dal bisogno di essere perfetti e restituisce alla verità dell’amore gratuito. Gesù stesso ha probabilmente conosciuto la delusione - dei discepoli addormentati, dell’amico che lo tradisce, della folla che si disperde - ma non si è chiuso: ha trasformato il dolore in offerta, la perdita in dono. Andare oltre le delusioni significa imparare a credere ancora, a seminare anche quando la terra sembra arida, a restare fedeli al bene senza pretendere risultati. Chi attraversa la delusione fidandosi del Vangelo scopre che la fedeltà di Dio non viene mai meno, e che ogni sconfitta, se consegnata, diventa seme di resurrezione.

10. Curare le ferite. Non per dimenticarle, ma per imparare a benedire attraverso di esse. Le ferite, se curate, diventano porte: luoghi dove la grazia entra, dove la compassione si fa più profonda, dove la vita si apre all’amore. Solo chi ha sofferto può accogliere senza giudicare, perché conosce la lingua della misericordia. Gesù risorto non ha nascosto le sue piaghe. Le ha mostrate. Le ha offerte come segni di pace: «E mostrò loro le mani e il fianco.» (Gv 20,20) Le sue ferite non gridano più dolore, ma raccontano fedeltà. Sono trofei d’amore, sorgenti di fede e di riconciliazione. Così anche le nostre ferite, quando vengono consegnate, diventano Vangelo: non cicatrici di vergogna, ma segni di grazia. E allora possiamo comprendere quanto scriveva Georges Bernanos: «La grazia delle grazie sarebbe di amarsi umilmente come una delle piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo.» Amarsi così, con le proprie ferite, è entrare nella Pasqua di Dio: dove il dolore diventa luce, e la fragilità si trasforma in sorgente di vita. 
          Fratelli miei, affido a voi queste parole semplici, nate dal cammino e dall’ascolto, dal condividere le vostre notti e le vostre albe, le vostre domande e i vostri “eccomi”. Dentro le fatiche, le fedeltà quotidiane, le stanchezze e le ferite, Dio continua a passare! Passa e rialza. Passa e guarisce. Passa e ricrea. Là dove noi vediamo la fine, Lui sta già preparando un inizio. Là dove sentiamo il limite, Lui scava una sorgente. Là dove diciamo “non ce la faccio più”, Lui sussurra: “Insieme ce la faremo.” Non lasciamo che la tristezza diventi abitudine, che la paura spenga il desiderio, che la rassegnazione prenda il posto della speranza! Il Signore è fedele: non smette mai di credere in noi, anche quando noi smettiamo di credere in noi stessi. Fratelli miei, lasciamoci sorprendere dalla grazia. Lasciamoci riabbracciare da quella tenerezza che non giudica ma rialza. Fidiamoci di Dio, che non chiede eroi ma cuori aperti. Non serve essere forti: basta restare disponibili. È la disponibilità che diventa miracolo, è la fiducia che spalanca le porte chiuse. 

     E allora forza cari presbiteri! Camminiamo con entusiasmo, con gioia, con il coraggio dei piccoli passi. Non smettiamo di credere che la vita può rifiorire anche dopo il gelo, che Dio può far nascere un canto anche dalle crepe della terra. La grazia non finisce, non scade, non delude. È una linfa che torna, sempre, ogni volta che ci arrendiamo all’Amore. Affido ciascuno di voi alle mani della Vergine Maria, Madre della tenerezza, Regina della Pace, Donna del Sì. A Lei che ha saputo custodire la Parola senza volerla possedere. A Lei che ha creduto anche quando non capiva, che nel riconoscersi fragile e semplice si è chiesta: “Come può lo sguardo di Dio posarsi proprio su di me?” Forse, fratelli, lo chiediamo anche noi. Io stesso, tante volte, me lo chiedo. E ogni volta che la guardo, sento la sua voce che m’invita: “Abbi fiducia e non temere perché ‘quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi’ (Is 40,31). Preparano, perfino nella loro notte, l’alba di un mondo nuovo”. 

Grazie per l’ascolto!
   
                                                                                    † don Mimmo Battaglia

 (Fonte: sito conferenza episcopale campana)