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mercoledì 10 dicembre 2025

Ceto medio in affanno: cosa racconta il nuovo Rapporto Censis


Ceto medio in affanno:
cosa racconta il nuovo Rapporto Censis

L’Italia è segnata da un ceto medio sempre più fragile e da una ricchezza concentrata nelle mani di pochi. Tra inflazione, crisi della sanità e crescita del debito, il Paese appare diviso e vulnerabile, con ricadute pesanti sul welfare e sulla fiducia sociale

Foto di Andres Siimon da Unsplash.

Come ogni anno arriva il Rapporto Censis. Me ne occupo da tempo e, ormai da pensionato, leggo i numeri col bisogno di sufficienti diottrie, nel senso che alla fine della fiera è complicato dire dove abita e che fa il “signor“ ceto medio, posto al centro della scena delle statistiche. Potrei sembrare irrispettoso dei sociologi dell’esimio centro di ricerca sociale, tra i più noti e apprezzati d’Italia, ma voleva essere una battuta per evidenziare che occorre un certo esercizio di immedesimazione nelle categorie prese in esame dal Rapporto per poi sentirsi in qualche modo presi in giusta considerazione.

Allora, la prima notizia, che è un grande pugno nella pancia sociale, è sapere che il signor ceto medio, in Italia, vive in uno stato febbrile: nella stagnazione, in una condizione di grave affanno o, peggio ancora, rischia di perdere lo status socio-economico faticosamente conquistato nel tempo. E lì ci starebbe bene una bella esclamazione educata come “capperi“!

E poi aggiungo che, rovistando sempre nei numeri statistici, sembra che la sanità sia in crisi per le troppe liste d’attesa, che causano anche un certo calo di cure che invece dovrebbero essere prese in carico. Quindi, se questo è vero, il signor ceto medio, se ha uno stato febbrile, si curerà. Ci auguriamo di sì.

Ma, uscendo dal tono scherzoso e facendoci molto seri, si scopre che all’inizio del 2025 il 60% della ricchezza nazionale è posseduta da 2,6 milioni di famiglie appartenenti al decimo decile. Di più: il 48% della ricchezza è in mano a 1,3 milioni di famiglie, che costituiscono il 5% delle famiglie più abbienti. La forbice della ricchezza taglia nettamente il Paese in due, se non in tre, dove pochi hanno molto, molti hanno poco e 5,7 milioni di italiani non hanno quasi niente. E si sa: le forbici sono pericolose da usare.

Negli ultimi anni l’inflazione ha condizionato pesantemente i comportamenti di consumo delle famiglie italiane, e credo che tanti, tornando dal supermercato, se ne siano resi conto. Anche nell’ambito dell’abbigliamento la forbice tra spesa e acquisto mantiene un’ampia differenza, nonostante l’Italia sia il Paese della moda.

Ed ora parliamo difficile. Il grande debito inaugura il nuovo secolo delle società post-welfare. La crescita vertiginosa dell’indebitamento delle economie avanzate le rende fatalmente più fragili e vulnerabili. Tra il 2001 e il 2024, nei Paesi del G7, a fronte di una stentata crescita dell’economia, il debito pubblico è lievitato dal 75,1% al 124,0% del Pil. In Italia dal 108,5% al 134,9%, in Francia dal 59,3% al 113,1%, nel Regno Unito dal 35,0% al 101,2%, negli Stati Uniti dal 53,5% al 122,3%. Ci sarebbe da stare contenti perché non siamo più l’unico malato d’Europa. Ma evitiamo di contagiarci di nuovo.

Comunque, qualunque posto occupiamo in classifica, l’ingente debito e la bassa crescita, legata all’invecchiamento demografico e alla riduzione della popolazione attiva, congiurano per un inevitabile ridimensionamento del welfare.

Colpisce che sono diminuite le spese per la cultura, che è una nota molto stonata del concerto Italia. Insomma, le notizie sono un po’ deboli e il Censis, caparbiamente, lo dice da anni. A noi la possibilità di smentirlo.
 (Fonte: Città Nuova, articolo di Paolo De Maina 06/12/2025)



Alex Zanotelli È in atto una guerra contro i migranti. Istigati da Trump anche i vertici UE stanno varando politiche criminali e razziste

Alex Zanotelli
È in atto una guerra contro i migranti.
Istigati da Trump anche i vertici UE
stanno varando politiche criminali e razziste 


Mai come in questo momento è importante continuare con il nostro Digiuno di giustizia in solidarietà con i migranti, diventati oggi, per Trump e per i governi di ultradestra, i nemici dell’Occidente. L’attacco di Trump all’Unione Europea è chiaro: “Le migrazioni di massa, illegali e legali, sono una minaccia esistenziale per la civiltà occidentale e la sicurezza dell’Occidente e del mondo.”

Meloni e Orban sono lodati da Trump come eccezioni nella gestione dei migranti. E qui emerge con chiarezza il pensiero fondamentale su cui vola l’ultradestra mondiale: il suprematismo bianco, la convinzione che la ‘tribù bianca’ è detentrice della civiltà, della cultura e della vera religione.

È questo il pensiero che è stato alla base del colonialismo. Per questo motivo è in atto la guerra contro i migranti, soprattutto se neri o musulmani. Una guerra portata avanti con politiche criminali e razziste sia da parte della UE come del governo Meloni, che hanno causato la morte di decine di migliaia di migranti sepolti nel Mediterraneo. Non solo, la UE ha perseguito la politica dell’“esternalizzazione delle frontiere”, siglando accordi con governi sia del Nord Africa come della Turchia, perché trattengano milioni di migranti nei loro paesi. Per questo la UE ha già dato nove miliardi di euro alla Turchia per trattenere i migranti in paurosi campi di concentramento.

Ora, ritengo che l’attacco durissimo di Trump contro la UE abbia spinto ieri anche il Parlamento europeo ad accettare quello che chiede Trump: tagliare, in maniera ancora più drastica, i diritti dei migranti stabiliti dalle Convenzioni internazionali. Infatti, il Parlamento europeo ha stabilito i seguenti “paesi sicuri” nei quali si potranno deportare le persone che da lì sono fuggite: Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia.

Come si possono etichettare sicuri quei paesi in cui vi sono gravi violazioni dei diritti umani, con numero impressionante di detenuti politici per non parlare di sparizioni, esecuzioni extra
-giudiziarie? La drammatica conseguenza è che la domanda di asilo da parte dei migranti potrà essere considerata inammissibile.

Addio all’articolo 10 della nostra Costituzione. Per di più, il Parlamento europeo ha così benedetto il modello Albania, per cui altri Stati potranno imitarne l’esempio. È il trionfo dei governi di ultradestra in Europa.
Penso che avesse ragione quel grande profeta che è stato Papa Francesco, quando nel suo viaggio a Lampedusa, invocò Dio perché ci conceda “la grazia di piangere sulla nostra indifferenza.”

Come digiuno di giustizia in solidarietà con i migranti ci incontreremo il 10 dicembre dalle ore 16 alle ore 17,30 in via San Nicola de’ Cesarini (Largo argentina), a Roma.

Padre Alex Zanotelli a nome del Digiuno di Giustizia in solidarietà con i migranti

Nella foto: lo scorso 25 marzo la Guardia Costiera libica – finanziata, equipaggiata e addestrata dagli Stati membri dell’Unione Europea – ha minacciato l’equipaggio della Ocean Viking con colpi d’arma da fuoco, prima di intercettare brutalmente circa 80 persone in difficoltà in acque internazionali.

La nave di soccorso Ocean Viking, gestita da SOS MEDITERRANEE, è stata intercettata dalla motovedetta 656 della Guardia Costiera libica che si è avvicinata pericolosamente alla Ocean Viking. Tutti i tentativi del team di comando di contattarla via VHF (radio) sono rimasti senza risposta. L’equipaggio della motovedetta libica ha iniziato a comportarsi in modo aggressivo, minacciando con le armi e sparando colpi di fucile in aria, a poche decine di metri di distanza dalla nostra nave.

Dato che l’incolumità dell’equipaggio era minacciata, la Ocean Viking non ha avuto altra scelta che allontanarsi dalla scena, mentre la Guardia Costiera libica continuava a sparare colpi di arma da fuoco. L’aereo civile di sorveglianza Seabird 2, gestito dalla ONG Sea Watch, ha monitorato la scena. Seabird 2 ha in seguito confermato di aver avvistato persone cadute in mare dal gommone e poi recuperate. Circa 80 persone sono state dunque bloccate in mare e riportate forzatamente in Libia
(fonte: Faro di Roma 09/12/2025)



martedì 9 dicembre 2025

DA CUORE A CUORE: IL PRESBITERO TRA FRAGILITÀ E SLANCI - Meditazione di don Mimmo Battaglia Arcivescovo di Napoli

DA CUORE A CUORE: 
IL PRESBITERO TRA FRAGILITÀ E SLANCI 
Meditazione di don Mimmo Battaglia,
Cardinale - Arcivescovo di Napoli


Venerdì 28 novembre 2025, a Pompei, i presbiteri delle diocesi della Campania si sono ritrovati per l’incontro regionale «Da cuore a cuore: il presbitero tra fragilità e slanci», promosso dalla Conferenza Episcopale Campana e pensato come primo appuntamento di un cammino annuale di fraternità e formazione.

Al centro della mattinata è stata la meditazione di S.Em. il Cardinale Domenico Battaglia, Arcivescovo di Napoli, che ha scelto di parlare al “cuore credente” dei presbiteri, partendo dalle parole del Vangelo di Giovanni: «Li amò sino alla fine». Il cuore trafitto di Cristo, ha ricordato, è la sorgente di ogni vocazione: non chiede preti perfetti o invulnerabili, ma «cuori aperti» che si lasciano raggiungere dalla sua misericordia.



        Carissimi Presbiteri, 
con gioia profonda sono qui, insieme a voi e ai nostri fratelli vescovi — che saluto con affetto — e al caro amico Erri. Oggi il mio desiderio è parlare al vostro cuore, non al cuore stanco e ferito, né a quello che si agita nel timore, ma a quel cuore ardente che ancora crede e cerca, quel cuore che, nonostante le tempeste, continua a danzare con la vita. È proprio lì, in quel pulsare tenace, che si nasconde il mistero sublime della nostra vocazione, il segreto sacro che ci sostiene quando tutto intorno pare svanire. È in quel battito, forte e vero, che Dio si fa vicino, perché l’amore primo e eterno, colui che ci chiama e ci sostiene, è sempre Lui! 

Dilexit eos usque ad finem (Gv 13,1): «Li amò sino alla fine». Non solo li amò, ma li amò fino a consumarsi. Fino a lasciare che il proprio cuore si aprisse, diventando sorgente di misericordia. Questo è il punto di partenza di ogni servizio, di ogni vocazione: un cuore aperto. Non un cuore perfetto, non un cuore forte, ma un cuore disponibile a lasciarsi attraversare. Papa Francesco, nella sua lettera Dilexit nos (29 giugno 2024), ci ha ricordato che l’amore di Cristo non si stanca, non si arrende, non pretende nulla in cambio: ci raggiunge e ci abbraccia persino nelle nostre fragilità. È un amore che non si misura, ma si dona. Non si ferma di fronte al peccato, ma lo trasforma in spazio di grazia. E noi, fratelli, siamo chiamati a questo: a non avere paura delle nostre fragilità, ma a farne il luogo dell’incontro con Dio. Perché la fragilità non è il contrario della fede: è invece il terreno in cui la fede fiorisce. Ognuno di noi conosce, come tutti gli uomini e le donne, la fatica di vivere. Le nostre giornate scorrono tra mille impegni, voci, attese, volti. E spesso, quando la sera chiudiamo la porta della canonica, ci resta addosso il silenzio di chi non sa più a chi raccontarsi. Quella solitudine che pesa e che, se non è abbracciata, rischia di diventare amara. Eppure proprio lì, nel vuoto che fa male, Dio ci attende. Non per rimproverarci, ma per ricordarci che la nostra vita è stata scelta, amata, custodita.

      Fratelli, noi non siamo chiamati a essere eroi, ma a essere segni. Segni di un Dio che non si vergogna di noi. Segni di un amore che non chiede di essere capito, ma accolto. Segni di un Cuore che continua a battere nel silenzio delle nostre vite. 

     Ecco, se c’è una cosa che il mondo oggi chiede ai preti è proprio questa: autenticità. Mani che tremano, cuori che si lasciano toccare, parole che nascono dal dolore e dalla speranza. Non si tratta di apparire forti, ma di restare veri. Di imparare a dire: “Ho bisogno anch’io.” Di saperci inginocchiare non solo davanti al tabernacolo, ma davanti alla nostra umanità, riconciliandoci con essa. Perché Dio non si scandalizza delle nostre stanchezze. Le prende sulle sue spalle e le trasforma in luogo di incontro. Perché tutto può diventare spazio di Dio, se lo lasciamo entrare. Per questo dobbiamo sempre ricordare che non siamo chiamati ad essere impeccabili, ma trasparenti. Non siamo votati al successo, ma alla fedeltà. Non siamo destinati al potere, ma al servizio umile e disinteressato. Il mondo non ha bisogno di preti che parlano dall’alto, ma di fratelli che camminano accanto, con la stessa polvere sulle scarpe, lo stesso dolore nel cuore e lo stesso sogno che risplende sul volto. Di uomini che insegnano con la parola e con la vita che ogni ferita può diventare un ponte. Ogni caduta, una nuova possibilità di comunione. Ogni fragilità, una porta spalancata sulla misericordia. Siamo stati amati per amare, e amati nella fragilità per poter accogliere la fragilità degli altri. Alda Merini scriveva: «Sono nata fragile, ma la mia fragilità mi ha insegnato a reggere il mondo» (Vuoto d’amore, Einaudi, 1991, p. 14). 

         Amici miei, vorrei che quest’oggi ci lasciassimo condurre dentro una delle pagine più luminose e disarmanti del Vangelo: la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,25-37). La conosciamo bene, l’abbiamo meditata tante volte, ma forse non abbiamo ancora lasciato che essa ci leggesse nel profondo. Perché ogni volta che ci mettiamo davanti a questo racconto, il rischio è quello di identificarci subito con il Samaritano: quello che scende da cavallo, che si china, che versa olio e vino, che cura e accompagna. È bello pensarsi così: uomini del servizio, ministri della misericordia. Ma forse, fratelli, la parabola ci chiede un passo ulteriore, o meglio, un capovolgimento. «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico» (Lc 10,30): è l’inizio. Un uomo qualsiasi, senza nome, scende dalla città santa alla valle più bassa del deserto. È un cammino reale, ma anche simbolico: la discesa da Gerusalemme a Gerico è la discesa del cuore nella propria umanità, là dove la vita si mostra senza difese. E su quella strada l’uomo viene aggredito, spogliato, lasciato mezzo morto. Fratelli, quell’uomo siamo noi. Noi, preti che scendiamo ogni giorno per incontrare la vita della gente, e che spesso torniamo feriti, stanchi, spogliati. A volte dai giudizi, a volte dalle nostre stesse incoerenze, a volte dal senso di impotenza che ci abita. Quell’uomo è il volto del ministero quando si fa fragile, quando non riesce più a reggere la distanza tra il Vangelo annunciato e la vita vissuta. Il sacerdote e il levita che passano oltre non sono semplicemente esempi negativi; sono lo specchio delle nostre difese. Quante volte, per paura di guardare in faccia la ferita, passiamo oltre? Quante volte, davanti al dolore, cerchiamo di essere efficienti invece che presenti? Quante volte ci nascondiamo dietro il dovere pastorale per non sentire la nostra stanchezza più profonda? Ma ecco, nella polvere di quella strada, «un Samaritano che era in viaggio, vedendolo, ebbe compassione» (Lc 10,33). È la frase centrale. Il verbo greco usato da Luca in greco significa “essere toccato nelle viscere”. È il verbo stesso della compassione di Dio, lo stesso usato per Gesù davanti al dolore dell’uomo (cfr. Lc 7,13; 15,20). Il Samaritano, figura dello straniero, del non appartenente, diventa immagine del Cristo che si fa vicino a ogni creatura ferita.

Cristo è il Samaritano che si china su di noi. È Lui che versa olio e vino sulle nostre piaghe: l’olio della consolazione, il vino dell’alleanza. È Lui che ci solleva e ci conduce alla “locanda” — che i Padri della Chiesa, da Origene ad Agostino, hanno sempre letto come simbolo della Chiesa, il luogo della cura, del tempo e della misericordia: «La locanda è la Chiesa — scrive Agostino — dove Cristo fa condurre i feriti perché siano guariti, e affida il loro custode al locandiere, cioè al pastore» (Sermone 171, 2, PL 38, 933). Sì, fratelli, prima di essere pastori, noi siamo uomini feriti condotti alla locanda. Siamo quelli che Cristo ha raccolto sulla strada, medicato e affidato. E questo non è un’umiliazione: è la verità del ministero. Essere preti non significa non avere ferite, ma imparare a lasciarsi curare. Significa saper dire con umiltà: «Anch’io ho bisogno di essere preso in braccio». Perché solo chi si lascia salvare può diventare segno di salvezza. Solo chi si lascia curare può curare gli altri! Solo chi è fedele alla propria fragilità può essere fedele alla fragilità degli altri, accogliendola senza banalizzare, senza giudicare! Amici cari, In questo tempo, prendersi cura della propria fragilità, “maneggiarla con cura” – come è scritto sui pacchi che contengono cose fragili e preziose - richiede tre fedeltà semplici e essenziali: la fedeltà al corpo, la fedeltà alla fraternità e la fedeltà alla realtà. Tre fedeltà radicate nell’unica fedeltà al Signore!

Fedeltà al corpo. Fratelli miei, non si può servire Dio disprezzando la propria carne. Troppi di noi portano una stanchezza che non nasce solo dal lavoro… ma dall’incuria. Dal non dormire per troppi pensieri. Dal non mangiare per troppa fretta. Dal non concedersi mai un tempo umano… perché imprigionati nel “fare”. Ma il corpo, fratelli, non è un ostacolo. È il primo altare che ci è stato consegnato! Dio abita nei battiti, nei respiri, nei limiti. Non ci ha scelti come angeli, ma come uomini: fatti di polvere e di luce, di stanchezza e di desiderio. 

E il corpo parla anche quando si affaccia la demotivazione, quella stanchezza più profonda che non viene dalle ore di attività, ma dal senso di inutilità che a volte ci raggiunge come un’ombra. La riconoscete: è quel fiato corto dell’anima in cui tutto sembra pesante, e persino il bene diventa un dovere privo di colore. Il corpo la registra prima della mente: ci si sveglia più lenti, si perde slancio, si attenua il gusto delle cose. E spesso questo accade perché viviamo in un mondo che sembra correre senza di noi, un mondo che non ci domanda nulla e ci fa credere di non servire più a niente… come se non avesse bisogno delle nostre mani, delle nostre parole, della nostra presenza. Ma non è così: questo mondo, proprio mentre appare autosufficiente, porta dentro una sete immensa di senso, di giustizia, di tenerezza… una sete di Dio. E quando noi ci sentiamo demotivati, è spesso perché abbiamo smesso di percepire questa sete, o perché nessuno ci ha più ricordato che siamo necessari non per ciò che facciamo, ma per ciò che siamo. Il corpo ci ricorda che non siamo padroni di nulla, neppure di noi stessi. E che anche il servizio a Dio e ai fratelli ha bisogno di misura, di respiro, di umanità. Non si può annunciare il Dio della vita trascurando la propria! La fragilità del corpo è maestra di umiltà: ci insegna che non siamo dèi, ma uomini visitati dalla grazia. Per questo vi ricordo che riposare non è peccato: è atto di fede. È dire a Dio: “Tu puoi portare avanti il mondo anche senza di me.” Mangiare con calma. Camminare. Respirare. Guardare un tramonto. Sono gesti teologici! Ci riconsegnano alla verità del limite, ci liberano dall’ansia di dover sempre fare di più. Il corpo, quando è ascoltato, diventa profeta: ci avverte quando stiamo perdendo la rotta. Perché il corpo, fratelli miei, è il primo strumento dell’amore!

Fedeltà alla fraternità. Nessuno regge da solo il peso della vita. Fin dagli albori il Signore ci ha sempre ripetuto che è bene che l’uomo non sia solo. E questo non vale solo per l’amore coniugale ma anche per l’amicizia, la compagnia, e la fraternità: tutte cose indispensabili. Anche per il nostro ministero. L’individualismo clericale è la malattia più sottile del nostro tempo: ti isola, ti fa credere che la solitudine sia segno di forza, ti convince che chiedere aiuto sia una debolezza.

Ma il Vangelo ci mostra un’altra logica: Gesù manda i discepoli a due a due (Mc 6,7), perché sa che la fede non resiste da sola. Non basta celebrare insieme: bisogna camminare insieme. La fraternità è la casa dove si impara la tenerezza, dove il confronto non umilia ma genera, dove la differenza non divide ma completa. Un confratello che sa restare, che ascolta senza correggere, che non pretende di aggiustare ma di accompagnare, è un dono raro e prezioso. È come un balsamo: non guarisce tutto, ma allevia e sostiene. E noi, fratelli, abbiamo un disperato bisogno di balsami più che di ricette. Abbiamo bisogno di uno sguardo che ci dica: “Non sei solo.” Perché l’isolamento, quando si allunga, diventa deserto interiore, e nel deserto il cuore si inaridisce. 

Coltivare la fraternità significa scegliere di non giudicare, di non competere, di non confrontare i frutti. Significa imparare a vedere il bene dell’altro senza sentirlo come una minaccia. Significa custodire la  speranza del fratello come fosse la propria. La fraternità non è solo convivere, è con-credere: credere insieme, anche quando uno dei due non ce la fa. È reggere il peso della fede a turno. Oggi tocca a me sorreggerti, domani toccherà a te. Così si salva la vocazione: non da soli, ma a due a due, come i discepoli di Emmaus che si tengono compagnia nella notte. E ricordiamolo: l’amicizia tra preti non è tempo perso, è tempo di grazia. È ciò che preserva dal cinismo, che riaccende la fiducia, che ci riporta al cuore della chiamata. Nessuno diventa santo da solo, perché la santità è comunione. Chi vive relazioni autentiche è più resiliente, più capace di accogliere le proprie fragilità senza vergogna. La fraternità è un luogo privilegiato della grazia. Non sostituisce la preghiera, la rende incarnata. E allora, fratelli, impariamo a “perdere tempo” insieme. A cenare senza fretta, a passeggiare, a raccontarci la vita. Il tempo condiviso non è sottratto al Vangelo: è Vangelo vissuto. La Chiesa respira solo se i suoi preti respirano insieme. 

Fedeltà alla realtà. Fratelli miei, questa fedeltà è preziosa perché la tentazione più sottile, quando ci si sente fragili, è fuggire. Rifugiarsi in mondi spiritualistici, nelle devozioni come anestesia, nei ruoli come difesa. Ma il prete non è chiamato a scappare: è chiamato a restare nella realtà, anche quando punge, anche quando smentisce le nostre attese. Il Vangelo non è un’evasione: è un’immersione. Dio non si manifesta nei cieli limpidi, ma nella polvere delle strade. Gesù non ha predicato da lontano, ha toccato, ha ascoltato, ha pianto. La fedeltà alla realtà è una forma alta di amore. È scegliere di non girarsi dall’altra parte, di non rimuovere il dolore della gente, di non spiritualizzare ciò che chiede carne e presenza. 

Non c’è Vangelo senza incarnazione: ogni volta che evitiamo la realtà, evitiamo Cristo. Ogni volta che ci lasciamo ferire dal mondo senza disperarci, portiamo Dio dentro la storia. A volte ci rifugiamo nel pensiero per non sentire, nelle parole per non toccare, nella teologia per non piangere. Ma il ministero non può diventare difesa contro la vita. La realtà, con le sue contraddizioni, è il luogo dove Dio ci parla con verità. Lì ci insegna la compassione, lì ci plasma, lì ci converte. La vera preghiera nasce sempre dal contatto con la terra: non si può amare in astratto. Si ama con mani sporche, con scarpe impolverate, con cuore vivo. Restare fedeli alla realtà significa non perdere contatto con la vita della gente. Significa ascoltare le loro parole, visitare le loro case, respirare il loro mondo. È lì che si gioca la credibilità della Chiesa. Non nelle dichiarazioni, ma nei gesti concreti: un prete che resta, che accompagna, che non fugge davanti al dolore, annuncia il Dio che resta. È la forma più alta di teologia: la teologia dei piedi che camminano, delle mani che curano, degli occhi che vedono. E c’è anche una realtà più piccola, più silenziosa, quella di sé stessi.

Essere fedeli alla realtà significa anche guardarsi dentro senza paura, non negare la propria stanchezza, non coprire i vuoti con l’attivismo. Chi non accoglie la propria realtà interiore finirà per vivere di apparenze. Ma Dio non benedice le apparenze, benedice la verità. E la verità, anche quando è dura, è sempre salvifica. 

      Fratelli miei, prendiamo sul serio queste forme di fedeltà. Non lasciate che il vento delle cose di ogni giorno porti via la fedeltà al corpo, alla fraternità, alla realtà. Custoditele. Con l’aiuto del Signore Gesù, vostro amico, compagno, fratello. E permettetemi, nel concludere, di offrirvi una sorta di decalogo della cura. Perché la cura è la compagna insostituibile della fedeltà: ne è il respiro concreto, il modo in cui ciò che crediamo si traduce in gesti, tempi, attenzioni. Dopo aver guardato in profondità 
dentro la nostra carne, dentro i legami e dentro la realtà che ci abita, la cura diventa il passo quotidiano che tiene insieme tutto: è la forma incarnata della fedeltà. 

Prendetele come parole semplici, consigli fraterni che nascono dal desiderio di restituire alla nostra vita un ritmo più umano, più evangelico, più vero. Capace di prendersi cura della fragilità e di restituirla come benedizione a coloro che ci sono affidati: 

1. Coltivare la semplicità. La semplicità non è povertà di pensiero, ma purezza di cuore. È la libertà di chi non deve dimostrare nulla, di chi non ha più paura di essere sé stesso. Viviamo tra parole complesse e cuori confusi, ma Dio continua a scegliere la via dell’essenziale. Restare semplici significa lasciare che la luce passi attraverso la trasparenza della vita. Il semplice non è ingenuo: è chi ha attraversato il buio e ha scelto la chiarezza. Siate preti semplici, fratelli: capaci di stupore e di pane condiviso. 

2. Imparare a chiedere aiuto. Chiedere aiuto è un atto di coraggio, non di debolezza. È imparare a dire: “Non ce la faccio da solo, ma credo che l’amore dell’altro possa sostenermi.” Siamo abituati a essere pastori, a sostenere, ad ascoltare; ma spesso dimentichiamo che anche noi abbiamo bisogno di essere accompagnati. Nessuno può reggere a lungo senza una spalla su cui appoggiarsi, senza una voce che accolga, senza uno sguardo che contenga. Chiedere aiuto a un confratello, al vescovo, a una persona esperta nello spirito, a un padre che conosce le vie del cuore — non è segno di fragilità, ma di fiducia. È riconoscere che lo Spirito parla anche attraverso l’altro, che la grazia ha voce plurale. Osate la richiesta, fratelli. Non aspettate che il peso diventi troppo grande. Nessuna solitudine è evangelica, nessuna stanchezza va nascosta. La Chiesa non è fatta di eroi, ma di fratelli che si sostengono a vicenda. Un prete che sa chiedere aiuto diventa un testimone credibile dell’umiltà, un maestro di umanità. Perché solo chi accetta di essere custodito può davvero custodire.

3. Coltivare la gratitudine. Anche un solo “grazie” al giorno può cambiare la direzione del cuore. La gratitudine è la lingua dei figli, non dei padroni. È la preghiera silenziosa di chi riconosce che tutto è dono, anche ciò che non ha scelto. Ringraziare non cancella la fatica, ma le restituisce un senso; non nega il dolore, ma lo trasfigura. Il Vangelo ci insegna che la gratitudine è il primo segno della fede autentica: solo uno dei dieci lebbrosi torna indietro a ringraziare, e Gesù gli dice: «La tua fede ti ha salvato» (Lc 17,19). Dire “grazie” ci libera dal mormorio, dalla pretesa, dall’amarezza che chiude il cuore. È il modo più semplice e più vero per riconoscere la presenza di Dio nella nostra storia. La gratitudine ci riporta alla sorgente, ci fa tornare bambini tra le mani del Padre, ci ricorda che non siamo autori della grazia, ma destinatari: «In ogni cosa rendete grazie: questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.» (1Ts 5,18). 

4. Custodire l’amicizia. L’amicizia vera è una relazione che non chiede spiegazioni, ma accoglie; è quella presenza discreta che ti ricorda chi sei quando non lo ricordi più. È una comunione che non giudica ma sostiene, che ti salva dall’illusione di bastarti. Gesù stesso ha voluto vivere l’amicizia: ha chiamato i suoi discepoli non servi, ma amici. «Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Abbiate accanto qualcuno che vi ami più per la vostra verità che per la vostra efficienza. Non cercate amicizie perfette, ma vere: amicizie che resistano al tempo, alla distanza, alle stagioni del cuore. Un amico nello Spirito è come un pozzo nel deserto: non lo incontri ogni giorno, ma quando ci arrivi ritrovi la freschezza della vita. 

5. Pregare senza stancarsi. La preghiera non è un compito da assolvere, ma un respiro in cui dimorare. È il luogo in cui la vita si lascia raggiungere da Dio e torna a pulsare secondo il suo ritmo. Non servono parole perfette, ma parole vere; non formule, ma disponibilità del cuore. Pregate come chi si confida,
come chi torna a casa dopo un lungo cammino. Pregate parlando al Signore come un amico parla all’amico, perché «il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (Mt 6,8). E quando le parole finiscono, lasciate che il silenzio prenda voce: anche il silenzio può essere preghiera, se è abitato dall’attesa e dall’amore. «Lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). Non pregate per “fare qualcosa”, ma per “lasciarvi fare”: perché la preghiera non cambia Dio, cambia noi, e ci restituisce la verità di essere figli amati. 

6. Non forzare i tempi. Non tutto deve accadere subito. La grazia ha il passo del lievito e il tempo del seme. Nella lentezza si custodisce la profondità, si impara la fedeltà, si purifica l’intenzione. La fretta è la tentazione di chi non si fida del tempo di Dio. Coltivate la pazienza del tempo e dei processi come una insostituibile pedagogia del cuore. «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme sul terreno: dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa.» (Mc 4,26- 27).

7. Custodire il sorriso. Provate ad immaginare il sorriso del nostro compagno e Signore Gesù: quando benediceva i bambini, quando condivideva il pane con gli amici, quando guardava il giovane ricco. Il sorriso di Dio è il primo perdono che raggiunge il cuore. Il sorriso è un atto di fede nella bontà di Dio. E può aiutarci a vivere quell’ironia che blocca tutti i deliri di onnipotenza: ridere di sé non è mancanza di serietà, ma riconoscimento che la nostra vita è custodita da una misericordia più grande di ogni errore. Chi sa sorridere delle proprie fragilità testimonia che la grazia non umilia, ma rialza; non giudica, ma abbraccia. Forse il mondo ha bisogno di preti che sorridano con Dio, non di uomini che si giudichino senza misericordia. Perché il Vangelo non è una cronaca di dolori, ma una storia di gioia e come afferma la Scrittura «Un cuore allegro è una buona medicina, uno spirito abbattuto inaridisce le ossa» (Pr 17,22).

8. Imparare a riposare. Solo chi sa riposare sa anche ripartire. Il ritmo dell’anima non è quello frenetico del mondo, e chi vive di frenesia continua finisce per perdere la direzione del cuore. Fermarsi non è un lusso, ma un atto di fiducia: è dire “non tutto dipende da me”, e lasciare che Dio torni a essere il Signore del tempo. Nel silenzio, quando smettiamo di correre, si risente il battito di Dio dentro di noi. E la grazia può raggiungerci senza essere soffocata dall’urgenza. Riposare significa rispondere all’invito del Signore: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’.» (Mc 6,31) Ricordate che anche il settimo giorno Dio si fermò, e benedisse il riposo (Gen 2,2-3): fermarsi è dunque entrare nel ritmo stesso della creazione, imparare a guardare la vita con lo sguardo di Dio, che non misura il valore dal fare ma dall’essere.

9. Andare oltre le delusioni. Le delusioni fanno parte della vita e del ministero: arrivano quando le attese non coincidono con la realtà, quando il bene non sembra dare frutto, quando la fiducia non è ricambiata. Ma la delusione, se attraversata nella fede, può diventare una soglia: libera dal bisogno di essere perfetti e restituisce alla verità dell’amore gratuito. Gesù stesso ha probabilmente conosciuto la delusione - dei discepoli addormentati, dell’amico che lo tradisce, della folla che si disperde - ma non si è chiuso: ha trasformato il dolore in offerta, la perdita in dono. Andare oltre le delusioni significa imparare a credere ancora, a seminare anche quando la terra sembra arida, a restare fedeli al bene senza pretendere risultati. Chi attraversa la delusione fidandosi del Vangelo scopre che la fedeltà di Dio non viene mai meno, e che ogni sconfitta, se consegnata, diventa seme di resurrezione.

10. Curare le ferite. Non per dimenticarle, ma per imparare a benedire attraverso di esse. Le ferite, se curate, diventano porte: luoghi dove la grazia entra, dove la compassione si fa più profonda, dove la vita si apre all’amore. Solo chi ha sofferto può accogliere senza giudicare, perché conosce la lingua della misericordia. Gesù risorto non ha nascosto le sue piaghe. Le ha mostrate. Le ha offerte come segni di pace: «E mostrò loro le mani e il fianco.» (Gv 20,20) Le sue ferite non gridano più dolore, ma raccontano fedeltà. Sono trofei d’amore, sorgenti di fede e di riconciliazione. Così anche le nostre ferite, quando vengono consegnate, diventano Vangelo: non cicatrici di vergogna, ma segni di grazia. E allora possiamo comprendere quanto scriveva Georges Bernanos: «La grazia delle grazie sarebbe di amarsi umilmente come una delle piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo.» Amarsi così, con le proprie ferite, è entrare nella Pasqua di Dio: dove il dolore diventa luce, e la fragilità si trasforma in sorgente di vita. 
          Fratelli miei, affido a voi queste parole semplici, nate dal cammino e dall’ascolto, dal condividere le vostre notti e le vostre albe, le vostre domande e i vostri “eccomi”. Dentro le fatiche, le fedeltà quotidiane, le stanchezze e le ferite, Dio continua a passare! Passa e rialza. Passa e guarisce. Passa e ricrea. Là dove noi vediamo la fine, Lui sta già preparando un inizio. Là dove sentiamo il limite, Lui scava una sorgente. Là dove diciamo “non ce la faccio più”, Lui sussurra: “Insieme ce la faremo.” Non lasciamo che la tristezza diventi abitudine, che la paura spenga il desiderio, che la rassegnazione prenda il posto della speranza! Il Signore è fedele: non smette mai di credere in noi, anche quando noi smettiamo di credere in noi stessi. Fratelli miei, lasciamoci sorprendere dalla grazia. Lasciamoci riabbracciare da quella tenerezza che non giudica ma rialza. Fidiamoci di Dio, che non chiede eroi ma cuori aperti. Non serve essere forti: basta restare disponibili. È la disponibilità che diventa miracolo, è la fiducia che spalanca le porte chiuse. 

     E allora forza cari presbiteri! Camminiamo con entusiasmo, con gioia, con il coraggio dei piccoli passi. Non smettiamo di credere che la vita può rifiorire anche dopo il gelo, che Dio può far nascere un canto anche dalle crepe della terra. La grazia non finisce, non scade, non delude. È una linfa che torna, sempre, ogni volta che ci arrendiamo all’Amore. Affido ciascuno di voi alle mani della Vergine Maria, Madre della tenerezza, Regina della Pace, Donna del Sì. A Lei che ha saputo custodire la Parola senza volerla possedere. A Lei che ha creduto anche quando non capiva, che nel riconoscersi fragile e semplice si è chiesta: “Come può lo sguardo di Dio posarsi proprio su di me?” Forse, fratelli, lo chiediamo anche noi. Io stesso, tante volte, me lo chiedo. E ogni volta che la guardo, sento la sua voce che m’invita: “Abbi fiducia e non temere perché ‘quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi’ (Is 40,31). Preparano, perfino nella loro notte, l’alba di un mondo nuovo”. 

Grazie per l’ascolto!
   
                                                                                    † don Mimmo Battaglia

 (Fonte: sito conferenza episcopale campana)

SOLENNITÀ DELL'IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA 08/12/2025 - Leone XIV ai piedi dell'Immacolata: l'umanità è provata, fioriscano dignità e pace (cronaca/commento, testo e video)

SOLENNITÀ DELL'IMMACOLATA CONCEZIONE
DELLA BEATA VERGINE MARIA

LEONE XIV
ATTO DI VENERAZIONE ALL’IMMACOLATA
Piazza di Spagna
Lunedì, 8 dicembre 2025


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Leone XIV ai piedi dell'Immacolata:
l'umanità è provata, fioriscano dignità e pace

Il Papa in Piazza di Spagna per il tradizionale atto di devozione alla statua della Vergine Maria nella Solennità dell’Immacolata. Circondato da 30 mila fedeli, il Pontefice prega perché “fiorisca la speranza giubilare a Roma e in ogni angolo della terra” ed esprime l'augurio che dopo le Porte Sante aperte per il Giubileo, si aprano altre porte "di case" e di "oasi di pace in cui rifiorisca la dignità, si educhi alla non violenza, si impari l’arte della riconciliazione"

L'arrivo del Papa in Piazza Mignanelli (@Vatican Media)

Leone XIV alza lo sguardo verso la statua della Immacolata in Piazza Mignanelli. Alla base in marmo del monumento, che con i suoi 27 metri di altezza veglia sull’Urbe, il Papa – con l’ausilio di due gentiluomini di Sua Santità - depone una corona di rose bianche e, al contempo, pone ai piedi della Madonna le speranze per questa “umanità provata, talvolta schiacciata” con la preghiera che dopo le Porte Sante aperte per il Giubileo, “si aprano ora altre porte di case e oasi di pace"

“Rifiorisca la dignità, si educhi alla non violenza, si impari l’arte della riconciliazione”

Una tradizione mai interrotta

Anche in questo 2025 messo a dura prova da guerre e crisi si rinnova l’atto di devozione del Papa alla statua della Vergine in Piazza di Spagna, centro nevralgico del lusso capitolino. Un momento di popolo, un appuntamento che suggella il legame tra Roma e il suo vescovo. Leone XIV prosegue la tradizione avviata da Giovanni XXIII nel 1958 e mai interrotta. Mai, neppure durante gli anni della pandemia di Covid-19, quando Papa Francesco volle ugualmente compiere “privatamente”, al mattino presto, l’atto di venerazione al monumento mariano realizzato dall’architetto Luigi Poletti e dallo scultore Giuseppe Obici in onore del dogma dell’Immacolata Concezione.

Migliaia in piazza

Il Papa arriva poco prima delle 16 in Piazza Mignanelli, poco dopo aver fatto una breve sosta nella Chiesa della Trinità per ricevere l’omaggio dell’Associazione Commercianti Via Condotti. L’arrivo è a bordo della papamobile scoperta, accolto da un applauso fragoroso che, partito dalla piazza, si incrocia con quello che riverbera dalle vie limitrofe, piene fino all’inverosimile. Le grida di "Viva il Papa" e "Papa Leone" sovrastano gli inni mariani intonati dal coro. Circa 30 mila i fedeli che hanno atteso il Pontefice disposti in semicerchio, dietro le transenne, intorno alla piazza. In prima fila, come sempre, i malati con plaid e copertine sulle gambe, accompagnati dai volontari di Unitalsi. Poi romani, tanti romani e anche alcuni gruppi venuti da fuori regione, migrati dall’Angelus in Piazza San Pietro. E ancora forze dell’ordine, membri di associazioni, famiglie, anziani, bambini da ore e ore in piedi in attesa, ambasciatori e sacerdoti affacciati dalle balconate della sede dell’Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede. Non mancano alcuni ignari turisti che domandano: “Cosa succede?”. “Arriva il Papa!”. “Pope Leo!!! Really?”.

Papa Leone XIV saluta il sindaco Gualtieri (@Vatican Media)

I saluti e la preghiera del Papa

Il cardinale vicario Baldo Reina e il sindaco Roberto Gualtieri vanno incontro al Pontefice, che saluta la folla circostante. Gualtieri gli stringe le mani e gli porta il saluto della città di Roma. Presenti anche i cardinali Luis Antonio Tagle, pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione; Mauro Piacenza, penitenziere maggiore emerito; Rolandas Makrickas, arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore. Si vede pure, come ogni anno, l’ambasciatrice della Spagna presso la Santa Sede, María Isabel Celaá Diéguez, che saluta il Papa al termine della preghiera.

Luce gentile

Al centro della piazza, davanti alla statua adornata da corone di fiori, composizioni, fogli con dediche e preghiere, Leone XIV indossa la stola liturgica. Si sistema lo zucchetto e poi alza il capo verso l’estremità del monumento, con la sagoma della Vergine che si staglia nel cielo di questa giornata quasi primaverile. Sul braccio destro il vento muove la ghirlanda di fiori posta, come tradizione, all’alba dal caporeparto più anziano in servizio presso il Comando di Roma dei Vigili del Fuoco. Il segno della croce poi la voce del Papa risuona dagli altoparlanti nel cuore della Capitale:

Vergine Immacolata, Madre, Ave, o Maria! Rallegrati, piena di grazia, di quella grazia che, come luce gentile, rende radiosi coloro su cui riverbera la presenza di Dio

La preghiera del Papa (@Vatican Media)

Un'umanità provata

All'Immacolata, “Madre di un popolo fedele” la cui “trasparenza illumina Roma di luce eterna” e il cui “cammino profuma le sue strade” più dei fiori oggi a Lei offerti, Papa Leone affida i “pellegrini dal mondo intero” che “hanno percorso le strade di questa città nel corso della storia e in questo anno giubilare”.

Un’umanità provata, talvolta schiacciata, umile come la terra da cui Dio l’ha plasmata e in cui non cessa di soffiare il suo Spirito di vita

Il Pontefice in Piazza Mignanelli (@Vatican Media)

“Guarda, o Maria, a tanti figli e figlie nei quali non si è spenta la speranza”, prega il Vescovo di Roma. Ed esprime un auspicio per questo Giubileo che si concluderà tra meno di un mese: “Fiorisca la speranza giubilare a Roma e in ogni angolo della terra, speranza nel mondo nuovo che Dio prepara e di cui tu, o Vergine, sei come la gemma e l’aurora”.

Dopo le porte sante, si aprano ora altre porte di case e oasi di pace in cui rifiorisca la dignità, si educhi alla non violenza, si impari l’arte della riconciliazione

Nuove intuizioni per la Chiesa di Roma e le chiese particolari

“Venga il regno di Dio”, recita ancora il Papa. “Ispira nuove intuizioni alla Chiesa che in Roma cammina e alle Chiese particolari che in ogni contesto raccolgono le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei nostri contemporanei, dei poveri soprattutto, e di tutti coloro che soffrono”. “Riconcilia e trasforma la città terrena in cui si prepara la Città di Dio”, è ancora l’invocazione del Pontefice alla madre di Dio che chiede di intercedere per tutti coloro che sono “alle prese con cambiamenti che sembrano trovarci impreparati e impotenti”.

Ispira sogni, visioni e coraggio, tu che sai più di chiunque altro che nulla è impossibile a Dio, e insieme che Dio non fa nulla da solo.

Le ultime battute dell'accorata preghiera, recitata in italiano, sono una richiesta di aiuto. Aiuto “ad essere sempre Chiesa con e tra la gente, lievito nella pasta di un’umanità che invoca giustizia e speranza”.

I saluti del Papa ai malati (@Vatican Media)

Le voci dei fedeli

Papa Leone XIV benedice infine la piazza quando l’ombra del sole calante si estende dalla scalinata di Trinità dei Monti fino al pavimento di sampietrini. Il giro di saluti ai malati dura quasi mezz’ora. Leone stringe le mani, poggia le sue sul capo di anziani coperti da fasce e cappellini, accarezza una ragazza in sedia a rotelle. Si chiama Francesca: “Mi ha detto che sono bella e brava”, scandisce lei emozionata dopo il passaggio del Pontefice. Luisa, “per tutti Lisa”, avvolta nel suo sciarpone racconta di venire in Piazza Mignanelli da almeno vent’anni: “Ci siamo detti ‘buonasera’ l’uno con l’altro. Se non fossi venuta a salutare il Papa, mi sarebbe mancato tanto”.

Dietro c’è Giovanna che sorride: “È un’emozione d’oro!”. Al Pontefice ha chiesto: “Prega per me, per tutti, per la pace nel mondo”. E lui ha risposto: “Pregherò per voi”. Dai marciapiedi transennati Alfonso, insieme alla moglie, grida: “Posso dire una cosa?”. Ha percorso chilometri e chilometri dalla Calabria per festeggiare con la moglie l’anniversario di matrimonio proprio oggi, 8 dicembre, insieme al Papa: "Mi ha stretto la mano e gli ho detto di aver fatto un sogno e cioè che lui farà finire la guerra. Sono sicuro che succederà, lui porterà la pace”.

Il Papa lascia la piazza (@Vatican Media)

(fonte: Vatican News, articolo di Salvatore Cernuzio 08/12/2025)

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PREGHIERA DI LEONE XIV 
A MARIA IMMACOLATA


Ave, o Maria!
Rallegrati, piena di grazia,
di quella grazia che, come luce gentile, rende radiosi
coloro su cui riverbera la presenza di Dio.

Il Mistero ti ha avvolta dal principio,
dal grembo di tua madre ha iniziato a fare in te grandi cose,
che presto richiesero il tuo consenso,
quel “Sì” che ha ispirato molti altri “sì”.

Immacolata, Madre di un popolo fedele,
la tua trasparenza illumina Roma di luce eterna,
il tuo cammino profuma le sue strade più dei fiori che oggi ti offriamo.
Molti pellegrini dal mondo intero, o Immacolata,
hanno percorso le strade di questa città
nel corso della storia e in questo anno giubilare.
Un’umanità provata, talvolta schiacciata,
umile come la terra da cui Dio l’ha plasmata
e in cui non cessa di soffiare il suo Spirito di vita.

Guarda, o Maria, a tanti figli e figlie nei quali non si è spenta la speranza:
germogli in loro ciò che il tuo Figlio ha seminato,
Lui, Parola viva che in ciascuno domanda di crescere ancora,
di prendere carne, volto e voce.
Fiorisca la speranza giubilare a Roma e in ogni angolo della terra,
speranza nel mondo nuovo che Dio prepara
e di cui tu, o Vergine, sei come la gemma e l’aurora.
Dopo le porte sante, si aprano ora altre porte
di case e oasi di pace in cui rifiorisca la dignità,
si educhi alla non violenza, si impari l’arte della riconciliazione.

Venga il regno di Dio,
novità che tanto sperasti e a cui apristi integralmente te stessa,
da bambina, da giovane donna e da madre della Chiesa nascente.
Ispira nuove intuizioni alla Chiesa che in Roma cammina
e alle Chiese particolari che in ogni contesto raccolgono
le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce
dei nostri contemporanei, dei poveri soprattutto,
e di tutti coloro che soffrono.
Il battesimo generi ancora uomini e donne santi e immacolati,
chiamati a diventare membra vive del Corpo di Cristo,
un Corpo che agisce, consola, riconcilia e trasforma
la città terrena in cui si prepara la Città di Dio.
Intercedi per noi, alle prese con cambiamenti
che sembrano trovarci impreparati e impotenti.
Ispira sogni, visioni e coraggio,
tu che sai più di chiunque altro che nulla è impossibile a Dio,
e insieme che Dio non fa nulla da solo.

Mettici in strada, con la fretta che un giorno mosse i tuoi passi
verso la cugina Elisabetta
e la trepidazione con cui ti facesti esule e pellegrina,
per essere benedetta, sì, ma fra tutte le donne,
prima discepola del tuo Figlio,
madre del Dio con noi.
Aiutaci ad essere sempre Chiesa con e tra la gente,
lievito nella pasta di un’umanità che invoca giustizia e speranza.
Immacolata, donna di infinita bellezza,
abbi cura di questa città, di questa umanità.
Indicale Gesù, portala a Gesù, presentala a Gesù.
Madre, Regina della pace, prega per noi!

Guarda il video integrale

SOLENNITÀ DELL'IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA 08/12/2025 - ANGELUS Leone XIV: «È meraviglioso il “sì” della Madre del Signore, ma può esserlo anche il nostro, rinnovato ogni giorno fedelmente, con gratitudine, umiltà e perseveranza» (testo e video)


SOLENNITÀ DELL'IMMACOLATA CONCEZIONE
DELLA BEATA VERGINE MARIA

LEONE XIV

ANGELUS

Piazza San Pietro
Lunedì, 8 dicembre 2025



Cari fratelli e sorelle, buona festa!

Oggi celebriamo la Solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria. Esprimiamo la nostra gioia perché il Padre dei Cieli l’ha voluta «immune interamente dalla macchia del peccato originale» (cfr B. Pio IX, Cost. ap. Ineffabilis Deus, 8 dicembre 1854), piena di innocenza e di santità per poterle affidare, per la nostra salvezza, «l’unigenito suo Figlio […] amato come se stesso».

Il Signore ha concesso a Maria la grazia straordinaria di un cuore totalmente puro, in vista di un miracolo ancora più grande: la venuta nel mondo, come uomo, del Cristo salvatore (cfr Lc 1,31-33). La Vergine lo ha appreso, con lo stupore tipico degli umili, dal saluto dell’Angelo: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (v. 28) e con fede ha risposto il suo “sì”: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (v. 38).

Commentando queste parole, Sant’Agostino dice che «Maria credette e in lei quel che credette si avverò» (Sermo 215, 4). Il dono della pienezza di grazia, nella fanciulla di Nazaret, ha potuto portare frutto perché lei, nella sua libertà, lo ha accolto abbracciando il progetto di Dio. Il Signore agisce sempre così: ci fa grandi doni, ma ci lascia liberi di accettarli o meno. Per questo Agostino aggiunge: «Crediamo anche noi, perché quel che si avverò [in lei] possa giovare anche a noi» (ibid.). Così questa festa, che ci fa gioire per la bellezza senza macchia della Madre di Dio, ci invita anche a credere come lei ha creduto, dando il nostro assenso generoso alla missione a cui il Signore ci chiama.

Il miracolo che per Maria è avvenuto al suo concepimento, per noi si è rinnovato nel Battesimo: lavati dal peccato originale, siamo diventati figli di Dio, sua dimora e tempio dello Spirito Santo. E come Maria, per grazia speciale, ha potuto accogliere in sé Gesù e donarlo agli uomini, così «il Battesimo permette a Cristo di vivere in noi e a noi di vivere uniti a Lui, per collaborare nella Chiesa, ciascuno secondo la propria condizione, alla trasformazione del mondo» (Francesco, Catechesi, 11 aprile 2018).

Carissimi, è grande il dono dell’Immacolata Concezione, ma lo è anche il dono del Battesimo che abbiamo ricevuto! È meraviglioso il “sì” della Madre del Signore, ma può esserlo anche il nostro, rinnovato ogni giorno fedelmente, con gratitudine, umiltà e perseveranza, nella preghiera e nelle opere concrete dell’amore, dai gesti più straordinari agli impegni e ai servizi più feriali e quotidiani, così che ovunque Gesù possa essere conosciuto, accolto e amato e a tutti giunga la sua salvezza.

Chiediamo questo oggi al Padre, per intercessione dell’Immacolata, mentre insieme preghiamo con le parole a cui Lei stessa per prima ha creduto.

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Saluto con affetto tutti voi, romani e pellegrini dell’Italia e di altre parti del mondo, in particolare i fedeli di Molina de Segura, in Spagna, l’Associazione culturale “Firenze in Armonia” e i “ragazzi dell’Immacolata”. Benedico volentieri il gruppo di Rocca di Papa e la fiaccola con cui accenderanno la Stella natalizia sulla Fortezza di quella bella cittadina.

Rivolgo un saluto speciale ai soci dell’Azione Cattolica Italiana, che oggi, nelle comunità parrocchiali, celebrano la Giornata dell’adesione. Auguro a tutti una fruttuosa attività formativa e apostolica, per essere testimoni credibili del Vangelo.

A voi, cari romani e pellegrini, do appuntamento per oggi pomeriggio a Piazza di Spagna, dove mi recherò per il tradizionale omaggio alla Madonna Immacolata. Alla sua intercessione affidiamo la nostra costante preghiera per la pace.

Auguro a tutti una serena festa nella luce della nostra Madre celeste. Arrivederci!

Guarda il video

lunedì 8 dicembre 2025

ANGELUS 07/12/2025 Papa Leone XIV: facciamo spazio a Gesù nella nostra vita (cronaca/commento, testo e video)

ANGELUS

Piazza San Pietro
II Domenica di Avvento, 7 dicembre 2025

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Papa Leone XIV: facciamo spazio a Gesù nella nostra vita

Il palazzo apostolico vaticano al momento dell'Angelus 

Seconda domenica del tempo di Avvento. E' il primo Natale di papa prevost, questo. Il sole, timido, riscalda la piazza. Solo qualche nuovala, leggera, velata, invernale. E' il momento dell'Angelus. Mezzogiorno, l'annuncio a Maria. E nella meditazione di oggi papa Leone XIV si concentra sulla venuta del Regno di Dio: "Prima di Gesù, confronta sulla scena il suo Precursore, Giovanni il Battista. Egli predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!»" così comincia papa Leone XIV.

E continua: "Nella preghiera del “Padre nostro”, noi chiediamo ogni giorno: «Venga il tuo regno». Gesù stesso ce l'ha insegnato. E con questa invocazione ci orientiamo al Nuovo che Dio ha in serbo per noi, riconosciamo che il corso della storia non è già scritto dai potenti di questo mondo. Mettiamo pensieri ed energie a servizio di un Dio che viene a regnare non per dominarci, ma per liberarci" continua papa Prevost. Le parole del Battista sono severe, certo, ma il popolo le ascolta perché dentro sente “risuonare l'appello di Dio a non scherzare con la vita, ad approfittare del momento presente per prepararsi all'incontro con Colui che giudica in base alle opere e alle intenzioni del cuore, e non secondo le apparenze”.

Ricorda le parole, poi, del profeta Isaia: il rimando a Cristo, che diviene “germoglio”: immagine di nascita e di novità. Cita, papa Leone XIV, il Concilio Vaticano II, "che si concludeva proprio sessant'anni fa: un'esperienza che si rinnova quando camminiamo insieme verso il Regno di Dio, tutti protesi ad accoglierlo ea servirlo. Allora non soltanto germogliano realtà che parevano deboli o marginali, ma si realizza ciò che umanamente si sarebbe detto impossibile" continua papa Leone XIV.

Infine l'esortazione per tutti: "Prepariamoci al suo Regno, facciamogli spazio. Il “più piccolo”, Gesù di Nazaret, ci guiderà! Lui che si è messo nelle nostre mani, dalla notte della sua nascita all'ora oscura della morte in croce, risplende sulla nostra storia come Sole che sorge. Un giorno nuovo è iniziato: svegliamoci e camminiamo nella sua luce!".

E dopo la preghiera dell’Angelus ricorda il recente viaggio apostolico in Turchia: “Ci siamo incontrati per pregare insieme ad Iznik, l'antica Nicea, dove 1700 anni fa si tenne il primo concilio ecumenico. Proprio oggi ricorre il sessantesimo anniversario della dichiarazione comune tra Paolo VI e il Patriarca Atenagora che poneva fine alle reciproche scomuniche. Rendiamo grazie a Dio e rinnoviamo l'impegno nel cammino verso la piena unità visibile di tutti i cristiani”. E, sempre sul recente viaggio, dice: “In Turchia ho avuto la gioia di incontrare la comunità cattolica. Attraverso il dialogo paziente e il servizio a chi soffre, essa testimonia il Vangelo dell'amore e la logica di Dio che si manifesta nella piccolezza. Il Libano continua a essere un mosaico di convivenza e mi ha confortato ascoltare tante testimonianze in questo senso”.

Il pensiero corre, poi, alla pace: “Quanto è avvenuto nei giorni scorsi in Turchia e Libano ci insegna che la pace è possibile e che i cristiani in dialogo con gli uomini e le donne di altre fedi e culture possono contribuire a costruirla. Non lo dimentichiamo, la pace è possibile!”.

Infine, un riferimento ai recenti disastri del sud-est asiatico duramente provati dai disastri naturali come le innodanzioni di questi giorni: “Prego per le vittime, per le famiglie che piangono i loro cari e per quanti portano soccorso. Esorto la comunità internazionale e tutte le persone di buona volontà a sostenere con gesti di solidarietà i fratelli e le sorelle di quelle regioni”.
(ACI Stampa, articolo di Antonio Tarallo 07/12/2025).

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Leone XIV


Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Il Vangelo di questa seconda domenica di Avvento ci annuncia la venuta del Regno di Dio (cfr Mt 3,1-12). Prima di Gesù, compare sulla scena il suo Precursore, Giovanni il Battista. Egli predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (Mt 3,1).

Nella preghiera del “Padre nostro”, noi chiediamo ogni giorno: «Venga il tuo regno». Gesù stesso ce l’ha insegnato. E con questa invocazione ci orientiamo al Nuovo che Dio ha in serbo per noi, riconosciamo che il corso della storia non è già scritto dai potenti di questo mondo. Mettiamo pensieri ed energie a servizio di un Dio che viene a regnare non per dominarci, ma per liberarci. È un “vangelo”: una vera buona notizia, che ci motiva e ci coinvolge.

Certo, il tono del Battista è severo, ma il popolo lo ascolta perché nelle sue parole sente risuonare l’appello di Dio a non scherzare con la vita, ad approfittare del momento presente per prepararsi all’incontro con Colui che giudica in base alle opere e alle intenzioni del cuore, e non secondo le apparenze.

Lo stesso Giovanni sarà sorpreso dal modo in cui il Regno di Dio si manifesterà in Gesù Cristo, nella mitezza e nella misericordia. Il profeta Isaia lo paragona a un germoglio: un’immagine non di potenza o di distruzione, ma di nascita e di novità. Sul germoglio che spunta da un tronco apparentemente morto, inizia a soffiare lo Spirito Santo con i suoi doni (cfr Is 11,1-10). Ognuno di noi può pensare a una sorpresa simile che gli è capitata nella vita.

È l’esperienza che la Chiesa ha vissuto con il Concilio Vaticano II, che si concludeva proprio sessant’anni fa: un’esperienza che si rinnova quando camminiamo insieme verso il Regno di Dio, tutti protesi ad accoglierlo e a servirlo. Allora non soltanto germogliano realtà che parevano deboli o marginali, ma si realizza ciò che umanamente si sarebbe detto impossibile. Con le immagini del profeta: «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà» (Is 11,6).

Sorelle e fratelli, come ha bisogno il mondo di questa speranza! Nulla è impossibile a Dio. Prepariamoci al suo Regno, facciamogli spazio. Il “più piccolo”, Gesù di Nazaret, ci guiderà! Lui che si è messo nelle nostre mani, dalla notte della sua nascita all’ora oscura della morte in croce, risplende sulla nostra storia come Sole che sorge. Un giorno nuovo è iniziato: svegliamoci e camminiamo nella sua luce!

Ecco la spiritualità dell’Avvento, tanto luminosa e concreta. Le luminarie lungo le strade ci ricordino che ognuno di noi può essere una piccola luce, se accoglie Gesù, germoglio di un mondo nuovo. Impariamo a farlo da Maria, nostra Madre, donna dell’attesa fiduciosa e della speranza.

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Da pochi giorni sono rientrato dal mio primo viaggio apostolico, in Türkiye e in Libano. Con l’amato fratello Bartolomeo, Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, e i Rappresentanti di altre confessioni cristiane, ci siamo incontrati per pregare insieme a İznik, l’antica Nicea, dove 1700 anni fa si tenne il primo Concilio ecumenico. Proprio oggi ricorre il 60° anniversario della Dichiarazione comune tra Paolo VI e il Patriarca Atenagora, che poneva fine alle reciproche scomuniche. Rendiamo grazie a Dio e rinnoviamo l’impegno nel cammino verso la piena unità visibile di tutti i cristiani. In Türkiye ho avuto la gioia di incontrare la comunità cattolica: attraverso il dialogo paziente e il servizio a chi soffre, essa testimonia il Vangelo dell’amore e la logica di Dio che si manifesta nella piccolezza.

Il Libano continua a essere un mosaico di convivenza e mi ha confortato ascoltare tante testimonianze in questo senso. Ho incontrato persone che annunciano il Vangelo accogliendo gli sfollati, visitando i carcerati, condividendo il pane con chi si trova nel bisogno. Sono stato confortato dal vedere tanta gente per strada a salutarmi e mi ha commosso l’incontro con i parenti delle vittime dell’esplosione nel porto di Beirut. I libanesi attendevano una parola e una presenza di consolazione, ma sono stati loro a confortare me con la loro fede e il loro entusiasmo! Ringrazio tutti coloro che mi hanno accompagnato con la preghiera. Cari fratelli e sorelle, quanto è avvenuto nei giorni scorsi in Türkiye e Libano ci insegna che la pace è possibile e che i cristiani in dialogo con gli uomini e le donne di altre fedi e culture possono contribuire a costruirla. Non lo dimentichiamo: la pace è possibile!

Sono vicino ai popoli del Sud e del Sud-Est asiatico, duramente provati dai recenti disastri naturali. Prego per le vittime, per le famiglie che piangono i loro cari e per quanti portano soccorso. Esorto la comunità internazionale e tutte le persone di buona volontà a sostenere con gesti di solidarietà i fratelli e le sorelle di quelle regioni.

Saluto con affetto tutti voi, romani e pellegrini. Saluto tutti quelli che sono venuti da altre parti del mondo, in particolare i fedeli peruviani di Pisco, Cusco e Lima; i polacchi, ricordando anche la Giornata di preghiera e aiuto materiale alla Chiesa dell’Est; e anche il gruppo di studenti portoghesi.

Saluto poi i gruppi parrocchiali di Lentiai, Manerbio, Santa Cesarea Terme, Cerfignano, Roverchiara e Roverchiaretta; i ragazzi di Marostica e Pianezze, i cresimandi di Cavaion Veronese, i giovani dell’Oratorio di Mezzocorona, il gruppo di ministranti di Bologna e i soci della Mutua Madonna del Granato.

Auguro a tutti una buona domenica e un buon cammino di Avvento.

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"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 3 - 2025/2026 - IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

Vangelo:

Il Mistero/Progetto dell'incarnazione, sogno d'amore del Padre per l'uomo è l'incontro tanto atteso tra Dio e l'umanità voluto «fin dal principio», l'evento in vista del quale ogni realtà è stata creata, la Simchat Khatan, la gioia dello Sposo che finalmente trova la sua sposa, il coronamento del suo sogno d'amore che mai avrà fine. Dio ha finalmente reso stabile la sua Dimora e l'ineffabile Parola ora può essere pronunciata. Il Logos increato lascia i Cieli dei Cieli e si rende visibile nella fragile carne di un bimbo senza più abbandonarci. Attraverso il sì di Maria non è più l'uomo che edifica una dimora per Dio, ma è Dio che diventa Dimora per coloro che lo accolgono; la nostra umanità diviene dimora per Dio e Dio la nostra Dimora. Maria è figura di ogni creatura umana che, nella fede, concepisce e accoglie la salvezza umanamente inconcepibile: Gesù Messia, l'Emmanu'El, il Dio-con-noi. Come Maria, allora, anche noi siamo chiamati ad accogliere nella nostra vita questo Mistero d'Amore per raggiungere insieme a lei «gli estremi confini della terra» affinché ciò che in lei si è compiuto possa finalmente compiersi in ciascuno di noi.