Giuseppe Savagnone
Due storie parallele e una disparità inquietante
L’assurda prigionia di Cecilia Sala
In prima pagina, su tutti i quotidiani, è apparsa la notizia del commosso incontro tra due madri, quella di Cecilia Sala, e la nostra premier, Giorgia Meloni, che le ha assicurato l’impegno concreto del governo italiano per la pronta liberazione della giovane giornalista, arrestata il 19 dicembre dalle autorità iraniane «per aver violato la legge della Repubblica islamica dell’Iran».
Un’accusa che, per la sua stessa genericità, evidenzia il carattere arbitrario della misura detentiva a cui la nostra connazionale è stata sottoposta, e giustifica pienamente l’unanime condanna da parte delle forze politiche e dell’opinione pubblica italiane.
Da qui la convocazione urgente di un vertice tra la presidente del consiglio, il ministro degli Esteri Tajani e quello della Giustizia Nordio e la convocazione alla Farnesina dell’ambasciatrice italiana a Teheran. «Immediata liberazione» e «trattamento rispettoso della dignità umana», è la perentoria richiesta rinnovata ieri dal nostro governo alla Repubblica iraniana.
E, sulla stampa, i commenti sono unanimi nel sottolineare la gravità di ciò che sta accadendo e la sua rilevanza, non solo per una questione prestigio dell’Italia sul piano internazionale, ma soprattutto perché il comportamento del governo iraniano evidenzia lo scontro tra due concezioni della persona e della vita associata.
Una vicenda parallela stranamente dimenticata
In questo coro di giustissime proteste colpisce, tuttavia, lo strano silenzio sull’evidente parallelismo tra la vicenda giudiziaria di Cecilia Sala e quella di Ilaria Salis, un’altra italiana arrestata e detenuta all’estero, in Ungheria, il cui caso è stato fino a poco tempo fa anch’esso al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e che sì è risolto solo con l’elezione della Salis al Parlamento europeo nel giugno scorso.
Nessuno sembra ricordare che molte delle cose che si stanno verificando in questi giorni corrispondono in modo impressionante a ciò che è accaduto allora.
Entrambi gli arresti sono stati motivati da argomenti molto discutibili. Nel caso di Cecilia Sala, la sola ragione plausibile dell’accusa di «aver violato la legge» può essere stata la sua attività di giornalista. Era in Iran per un servizio, in cui tra l’altro non sembra avesse avuto contatti con ambienti dell’opposizione al regime. Ma forse è la semplice verità che fa paura ai regimi dittatoriali. Perciò sono tanti, in questi giorni, a manifestare in suo favore al grido: «Il giornalismo non è reato».
Più articolata, ma non meno paradossale, la vicenda che ha portato all’incriminazione della Salis in Ungheria. In febbraio, a Budapest, si celebra tutti gli anni il Giorno dell’Onore: neonazisti di tutto il mondo, soprattutto dalla Germania, dall’Austria e dall’Ungheria, si riuniscono per celebrare i caduti di un battaglione nazista che nel 1945 tentò di impedire l’accerchiamento dell’Armata Rossa. Nella sfilata commemorativa i partecipanti marciano vestiti da nazisti.
Ilaria Salis, battagliera insegnante antifascista, il 10 febbraio 2023 era lì a protestare contro questa manifestazione, e il giorno dopo è stata arrestata, con l’accusa di avere aggredito e picchiato due militanti neonazisti (due uomini), arrecando loro «lesioni potenzialmente mortali», un reato per cui è prevista una pena massima di ventiquattro anni.
Anche se in realtà, stando ai referti dei medici ungheresi, quelle effettivamente riscontrate in ospedale alle due vittime sono state giudicate guaribili in un caso in otto giorni e nell’altro in cinque.
Ovviamente diversi sono i tempi della detenzione delle due donne in attesa del processo. Per Cecilia Sala dura da meno di venti giorni; quella di Ilaria Salis è stata di quindici mesi. Anche solo per l’inizio del processo che doveva accertare la sua eventuale colpevolezza, l’insegnante italiana ha dovuto attendere il 29 gennaio 2024, quasi un anno dall’arresto.
Le era stato offerto un patteggiamento per cui, se si fosse dichiarata colpevole, la pena sarebbe stata solo di undici anni, ma lei ha rifiutato, dichiarandosi sempre estranea ai fatti che le erano contestati.
Molto simili, invece, le condizioni dell’assurda prigionia delle due donne. La giornalista italiana ha potuto telefonare alla sua famiglia solo il 1 gennaio. Si sapeva della sua detenzione in un famigerato penitenziario, destinato ai dissidenti e dove è abituale il regime carcerario più duro. Il suo racconto lo ha confermato. Si trova in una cella di isolamento, freddissima, dove deve dormire senza un materasso o una brandina, sul pavimento, con le luci sempre accese. È stata privata anche dei suoi occhiali da vista. Non le è stato neppure dato il pacco consegnato sabato dall’ambasciata alle autorità del carcere iraniano, che conteneva alcuni articoli per l’igiene, quattro libri, sigarette, un panettone e una mascherina per coprire gli occhi.
Anche la Salis è stata trattenuta in un carcere di massima sicurezza, in condizioni disumane. Era richiusa in una cella non areata assieme ad altre sette persone e non tutte donne. «Sono trattata come una bestia al guinzaglio, da tre mesi sono tormentata dalle punture delle cimici nel letto, l’aria è poca, solo quella che filtra dallo spioncino», ha fatto sapere, appena ha potuto, ai suoi familiari e ai suoi amici. «Nei primi tempi, in carcere» – ha raccontato Gianluca Tizi, del Comitato “Liberiamo Ilaria Salis”, nato su iniziativa di compagni e compagne di università della donna – , Ilaria davvero è stata «trattata come un animale: vestiti maleodoranti tenuti per giorni senza possibilità di cambiare nemmeno la biancheria intima. Non aveva nemmeno il necessario per lavarsi. Aveva le mestruazioni ma non aveva gli assorbenti e nemmeno la carta igienica».
Per non parlare del suo isolamento. Il primo colloquio con la famiglia è avvenuto a settembre, sette mesi dopo l’arresto.
Infine, ha fatto il giro del mondo l’immagine dell’imputata, portata finalmente in aula, il 29 gennaio, con le manette ai polsi e i piedi legati da ceppi di cuoio con lucchetti, mentre una donna delle forze di sicurezza la trascinava con una catena. E questo prima ancora di stabilire se fosse o no colpevole.
Sono evidenti i punti di contatto tra i due percorsi. In entrambi i casi siamo davanti a una totale violazione dei diritti umani e della dignità personale. Violazione resa più grave dalla insussistenza o dalla relativa futilità delle imputazioni.
Due reazioni politiche molto diverse
Alla luce di queste evidenti corrispondenze, appare stupefacente la diversità delle reazioni del nostro governo e di parte della stampa. Nel caso di Cecilia Sala, come abbiamo visto, c’è – giustamente – una unanime mobilitazione e una fermissima presa di posizione.
Fin dall’inizio, in una nota verbale che la Farnesina, attraverso l’ambasciatrice Paola Amadei, ha consegnato al governo iraniano, sono state richieste al governo di Teheran «garanzie totali sulle condizioni di detenzione di Cecilia Sala» e la sua «liberazione immediata».
Le cose sono andate molto diversamente nel caso della Salis. Rispondendo a voci di protesta per quello che appariva un disinteresse delle autorità italiane, il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva spiegato, a inizio gennaio, che l’ambasciata aveva sempre lavorato accanto alla famiglia, dando tutto il supporto necessario per la soluzione del caso.
Si parlava soprattutto dell’ipotesi di ottenere dall’Ungheria che la Salis scontasse gli arresti domiciliari in Italia, pur con tutte le garanzie necessarie per evitarne la eventuale fuga.
E tutto lasciava sperare che questa soluzione fosse possibile, dati i rapporti di amicizia che da sempre legano i partiti del nostro governo, e in particolare la Meloni, ad Orbán, il presidente ungherese.
Tanto più che in Ungheria, dopo la riforma costituzionale 2012, la magistratura dipende strettamente dal potere politico, attraverso un organo – l’Ufficio giudiziario nazionale (OBH) – il cui vertice è di nomina parlamentare e quindi controllato da Fidesz, il partito del premier.
E invece, a febbraio, è uscito un comunicato, congiunto di Tajani e del ministro della Giustizia Nordio, dove si diceva che «i principi di sovranità giurisdizionale di uno Stato impediscono qualsiasi interferenza sia nella conduzione del processo sia nel mutamento dello status libertatis dell’indagato».
Inoltre, aggiungeva la nota, «una interlocuzione epistolare tra un dicastero italiano e l’organo giurisdizionale straniero sarebbe irrituale e irricevibile», lasciando capire che ogni iniziativa del governo avrebbe avuto come solo effetto quello di irritare la controparte e peggiorare le cose.
Su questa linea è stata anche la posizione del nostro ministro degli Esteri nel corso dell’informativa sul caso Salis alla Camera: «Evitiamo di trasformare una questione giudiziaria, regolata da norme nazionali ed europee, in un caso politico che regala sicuramente grandi titoli sui giornali, ma non fa il bene della signora Salis».
La famiglia della detenuta non l’ha presa bene. «Sono furibondo» – ha commentato Roberto Salis, padre di Ilaria -. «Ci hanno preso in giro: mia figlia è stata torturata e dal nostro governo non è arrivata nemmeno una nota. Adesso dobbiamo continuare a fare da soli perché non abbiamo alcun supporto dal nostro Stato».
Anche la stampa di destra, pur condannando il trattamento disumano della Salis, si è prodigata per evidenziare le ragioni che motivavano l’arresto e la detenzione. «Il Giornale» ha ospitato una lunga lettera dell’ambasciatore ungherese, che difendeva la linea del suo paese. E su «Il Tempo» Vittorio Feltri rispondeva polemicamente all’indignazione di molti per le drammatiche condizioni in cui si trovava la prigioniera: «Noi italiani non possiamo di sicuro giudicare i sistemi penitenziari degli altri Stati del continente europeo. Le nostre prigioni sono tra le peggiori in Europa».
Verissimo. Ma è strano che in questi giorni, a proposito della violenza subìta da Cecilia Sala, nessuno (per fortuna!) ripeta questi argomenti, così come è strano che il governo in questo caso non parli della necessità di «evitare ogni interferenza», per rispetto dei «principi di sovranità giurisdizionale di uno Stato». Anche l’Iran è uno Stato sovrano. E se la sua magistratura è inaffidabile, dipendendo dal potere politico, lo è anche quella ungherese. E non si dica che in questo caso non c’è il rischio di politicizzare la vicenda giudiziaria, aggravando la situazione dell’imputata!
Siamo davanti a un inquietante doppio standard, spiegabile solo con le posizioni politiche del nostro governo e di quella stampa che lo sostiene. E davanti a questo diffuso silenzio che lo copre, vengono in mente le parole dette in questi giorni da qualcuno: «Del giornalismo forte e indipendente di Cecilia abbiamo tutti disperato bisogno». A quanto pare è proprio vero.
(fonte: Tuttavia 03/01/2025)
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I genitori di Cecilia Sala hanno chiesto il silenzio stampa per evitare di complicare l'evoluzione della vicenda. «La fase a cui siamo arrivati - si legge nel messaggio dei genitori della giovane giornalista - è molto delicata e la sensazione è che il grande dibattito mediatico su ciò che si può o si dovrebbe fare rischi di allungare i tempi e di rendere più complicata e lontana una soluzione. Per questo abbiamo deciso di astenerci da commenti e dichiarazioni e ci appelliamo agli organi di informazione chiedendo il silenzio stampa. Saremo grati per il senso di responsabilità che ognuno vorrà mostrare nell'evitare di divulgare notizie sensibili e delicate».