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giovedì 27 novembre 2025

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ LEONE XIV IN TÜRKIYE E IN LIBANO 27/12 - 2/12/2025 - In aereo saluto ai giornalisti

Il Papa in aereo verso la Türkiye:
“Questo viaggio è un messaggio di unità. Promuoviamo la pace”

Leone XIV decollato due minuti prima delle 8 per il suo primo viaggio apostolico in Turchia e Libano. A bordo dell’aereo di Ita Airways, l’immagine della Madre del Buon Consiglio cara agli agostiniani. Il saluto agli 81 giornalisti di media internazionali che lo accompagnano nel suo “pellegrinaggio” in Medio Oriente: “Speriamo di annunciare, trasmettere, proclamare, quanto è importante la pace in tutto il mondo. Al di là di ogni differenza, siamo tutti fratelli e sorelle”


Il Papa all'interno dell'aereo che lo ha portato ad Ankara parla ai giornalisti presenti

«Agli americani qui, buon Thanksgiving! È un bellissimo giorno per celebrarlo e voglio iniziare dicendo grazie ad ognuno di voi per il servizio che offrite al Vaticano, alla Santa Sede e alla mia persona, ma anche a tutto il mondo». Papa Leone sorride mentre parla al microfono, in inglese, con gli 81 giornalisti, cameramen e fotografi di circa venti testate internazionali che lo accompagnano nel suo primo viaggio apostolico. È in piedi davanti alla tendina grigia dell’Airbus 320neo di Ita Airways – decollato alle 7.58 – da cui si intravede al primo posto, quello riservato, la Madre del Buon Consiglio, effigie cara ai figli di Sant’Agostino, la cui icona è custodita nel comune laziale di Genazzano, dove il neoeletto Robert Francis Prevost si recò due giorni dopo la fine del Conclave.

Il tono è sicuro ma dal viso traspare una punta di emozione. Per lui, che da priore generale degli agostiniani ha compiuto oltre 50 viaggi in giro per il mondo, è una prima volta. La prima volta in Turchia (Türkiye) e in Libano; la prima volta che “da Papa” vola oltre la penisola italiana. La direzione è Ankara, poi in serata Istanbul e domani tappa a Iznik per celebrare con patriarchi e rappresentanti delle Chiese cristiane i 1700 anni del Concilio di Nicea. Dal 30 novembre, andrà in Libano a dare conforto a una popolazione ferita da guerre e crisi e implorare una pace quanto mai urgente in Medio Oriente.

Pace, un messaggio per il mondo

«Pace». Il Papa lo ripete più volte nel saluto ai giornalisti, venti minuti dopo il decollo. «Questo viaggio in Turchia e Libano ha, prima di tutto, un significato di unità, celebrando i 1700 anni del Concilio di Nicea. E io ho desiderato tanto questo viaggio per quello che significa per tutti i cristiani, ma è anche un grande messaggio nel mondo intero. E soprattutto, la presenza mia, della Chiesa, dei credenti sia in Turchia sia in Libano, speriamo possa annunciare, trasmettere, proclamare quanto è importante la pace in tutto il mondo». Un viaggio che è dunque un messaggio, oltre che un invito «a camminare insieme per cercare sempre di più l’unità, sempre di più l’armonia e guardare al modo in cui tutti gli uomini e tutte le donne possono realmente essere fratelli e sorelle». Perché, rimarca il Pontefice, «al di là delle differenze, al di là delle differenti religioni, dei differenti credi, siamo tutti fratelli e sorelle e speriamo di promuovere pace e unità in tutto il mondo».

Selfie del Papa con l'equipaggio (@Vatican Media)

Il cuore latino-americano del Papa

«Grazie per essere qui», scandisce ancora Leone, «grazie per il servizio che farete in questi giorni e per essere parte di questo momento storico». «Grazie» insieme a «benvenuto», lo ha detto poco prima al Papa Valentina Alazraki, giornalista messicana, decana di tutti i vaticanisti con all’attivo 163 viaggi papali, sin dal primo nel 1979 in Messico con Giovanni Paolo II. «Al suo predecessore Francesco, che a Buenos Aires sembrava non amare i giornalisti, ho detto al primo viaggio: "Benvenuto nella gabbia dei leoni! Ora il leone è lei!". Quindi benvenuto!». Al Pontefice la giornalista ha regalato un’icona in stile bizantino della Vergine di Guadalupe: «Per un Papa del Nord America ma dal cuore latino-americano».

L'icona della Vergine di Guadalupe donata a Papa Leone (@Vatican Media)

León de Perú e Leo from Chicago

Da lì, il giro di saluti sedile per sedile. Tradizione inaugurata dal predecessore Francesco e divenuta momento di battute, dichiarazioni e commenti fugaci, selfie, foto, richieste di benedizioni per sé o per amici e familiari. E soprattutto momento di scambio di regali. Anche con Papa Leone accade lo stesso. Tanti i doni consegnati dai cronisti. Il primo è un doppio collage delle foto più significative dei documentari León de Perú e Leo from Chicago, realizzati nei mesi scorsi da Radio Vaticana – Vatican News. In uno dei due anche la foto, divenuta virale sui social, del giovanissimo Prevost vestito negli anni ’80 da Blues Brothers, in occasione dell’uscita del film cult di John Landis girato proprio a Chicago. Il Papa la indica e si lancia in una sonora risata: «Ah, bello!». Nelle sue mani anche una medaglia di Sant’Agostino - proveniente questa volta da Dolton, luogo della sua infanzia - perché lo protegga durante il viaggio.

Il collage di foto donate al Papa (@Vatican Media)

Torte e ancora torte sono state poi offerte al Papa, in primis la pumpkin pie, il dolce alla zucca pietanza tipica del Thanskgiving. Ad omaggiare il primo Papa statunitense della storia anche due gadget firmati White Sox, la squadra di baseball preferita dal “ragazzo” del South side divenuto Pontefice della Chiesa universale: una mazza, cimelio di famiglia, appartenente al noto giocatore degli anni ’50, Nellie Fox («Come ha passato la sicurezza?», scherza Leone), e un paio di ciabatte e calzini neri con il logo bianco del team sportivo. «Le può usare a Castel Gandolfo!», dice la fotografa Lola Goméz. Leone XIV mostra divertito il regalo, conservato in una scatola azzurra.

La torta pumpkin pie (@Vatican Media)

Il pensiero ad Ignacio

Cambia espressione, invece, quando la corrispondente di Radio Cope, Eva Fernández, gli porge la lettera di Ignacio Gonzálvez, l’adolescente spagnolo ricoverato dalla scorsa estate - nel pieno del Giubileo dei Giovani - al Bambino Gesù per un grave linfoma che lo stava per portare alla morte. Una storia che ha fatto il giro del mondo dopo che il Papa stesso aveva chiesto preghiere per il ragazzo dal palco di Tor Vergata, recandosi, poi, egli stesso nel reparto di terapia intensiva del Bambino Gesù per abbracciare i genitori Pedro Pablo e Carmen Gloria, il fratello Pedro Pablo jr e la sorella Adela. Leone XIV fa intuire di essere aggiornato sulle condizioni di Ignacio, ancora degente nel nosocomio vaticano e che lì ‘festeggerà’ martedì il suo compleanno.

Lo stemma araldico degli antenati del Pontefice (@Vatican Media)

Ancora Eva Fernández - nota per i doni sempre curiosi ai Papi - regala a Leone XIV lo stemma araldico dei suoi antenati spagnoli. Una ricerca condotta dal Centro de Estudios Montañeses ha confermato, infatti, che gli antenati per linea materna del Pontefice provengono dalla località cantabrica di Isla, nel comune di Arnuero. Più specificatamente si tratta di quattro dei suoi trisavoli di undicesima generazione, hidalgos a Isla, nel XVI secolo. Il Papa prende lo stemma con un campo d’argento, un peperone verde e un’aragosta rossa (caratteristici della Isla), il timbro e il simbolo della corona reale spagnola. È un regalo, sì, ma soprattutto un “pretesto” per domandare: «Santo Padre, quando visiterà la Spagna?». «Vediamo!».

La scatola di ciabatte e calzini White Sox (@Vatican Media)

Il desiderio di andare in Algeria

A una giornalista di origine algerina, ha confidato invece: «Spero di andare in Algeria». Molto apprezzata anche la pergamena realizzata dalla Chiesa greco-cattolica ucraina di Kharkiv in ringraziamento per gli aiuti inviati alla gente al fronte. Infine, nelle mani del Papa i rappresentanti della stampa italiana hanno dato una lettera in cui spiegano le ragioni per cui domani, 28 novembre, aderiranno a uno sciopero. E cioè il mancato rinnovo del contratto giornalistico, scaduto nel 2016, a fronte anche dei diversi tagli e dei pericoli dell’Intelligenza Artificiale per questa professione.

Ancora doni per Papa Leone XIV (@Vatican Media)
(fonte: Vatican News, articolo di Salvatore Cernuzio 27/11/2025)

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Vedi anche il post precedente:



Leone XIV in volo verso Ankara, inizia il suo primo viaggio apostolico

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ LEONE XIV
IN TÜRKIYE E IN LIBANO
CON PELLEGRINAGGIO A İZNIK (TÜRKIYE)
IN OCCASIONE DEL 1700° ANNIVERSARIO DEL PRIMO CONCILIO DI NICEA
27 NOVEMBRE - 2 DICEMBRE 2025
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Leone XIV in volo verso Ankara,
inizia il suo primo viaggio apostolico

Il Papa è decollato dall’aeroporto di Fiumicino per giungere in Turchia (Türkiye), prima tappa del suo viaggio che poi toccherà il Libano da domenica 30 novembre fino a martedì 2 dicembre


È iniziato il primo viaggio apostolico di Papa Leone che lo porterà prima in Turchia (Türkiye) con la tappa a Iznik, in occasione del 1700.mo anniversario del primo Concilio di Nicea, mentre il secondo Paese che visiterà sarà il Libano a partire da domenica 30 novembre.

Il Pontefice all'interno dell'aereo, ad accompagnarlo anche l'immagine di Maria, Madre del Buon Consiglio

Il volo di Ita Airways con a bordo il Pontefice, il seguito e numerosi giornalisti, è decollato alle ore 7.58 dalla pista dell’aeroporto di Fiumicino. Alle 12.30 è previsto l’arrivo ad Ankara, in Turchia, da dove poi ripartirà in serata per giungere ad Istanbul. Sul volo papale c'è anche l'immagine di Maria, Madre del Buon Consiglio, custodita nel Santuario a lei dedicato a Genazzano e retto dai religiosi dell’Ordine di Sant’Agostino. Papa Leone, il 10 maggio 2025 a pochi giorni dalla sua elezione, visitò a sorpresa il Santuario non lontano da Roma. Dopo la preghiera davanti all'immagine della Vergine, salutando i suoi confratelli aveva detto che era suo desiderio essere lì nei primi giorni del nuovo Ministero "che la Chiesa - aggiunse - mi ha consegnato, per portare avanti la missione come Successore di Pietro".

Leone XIV a bordo dell'aereo per il suo primo viaggio apostolico , prima tappa la Turchia

Il Papa ha lasciato il Vaticano intorno alle 7 trasferendosi in auto verso lo scalo romano. Leone XIV è il quinto Pontefice a visitare la Turchia, motto del suo viaggio nel Paese è “Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo”. Il Pontefice ha portato avanti il desiderio di Francesco che intendeva tornare in Turchia a maggio 2025, dopo la visita del 2014, proprio per il 1700.mo anniversario del Concilio di Nicea. Momento clou sarà infatti a Iznik, presso gli scavi archeologici dell’antica Basilica di San Neofito, dove il Papa con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo pregherà insieme ad una ventina di patriarchi e rappresentanti delle chiese cristiane davanti alle icone di Cristo e del Concilio. L'aereo papale ha toccato il suolo intorno alle 10.30.

Il telegramma all'Italia

Durante il volo, il Papa ha inviato un telegramma al presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, nel quale sottolinea che il suo viaggio è per "incontrare quelle popolazioni, in particolare fratelli e sorelle nella fede, incoraggiando percorsi di pace e di fraternità". Leone XIV invia i suoi saluti all'Italia che accompagna "con fervidi auspici per il progresso spirituale, civile e sociale" del Paese. Dal canto suo il capo dello Stato italiano ha ringraziato inviando un messaggio nel quale ha evidenziato che gli incontri del Pontefice in programma "suscitano sentimenti di speranza e di fiducia in tutti coloro che condividono l’impegno a favore del rispetto della dignità umana e del diritto fondamentale alla libertà religiosa. Su tali presupposti dell’ecumenismo e del dialogo tra le fedi trovano solide fondamenta anche le prospettive di una pacifica convivenza tra le genti". Mattarella si dice convinto che la presenza di Papa Leone "conforterà le donne e gli uomini di buona volontà, che ripudiano violenze e sopraffazioni, adoperandosi ogni giorno affinché tacciano le armi e prevalgano le ragioni del dialogo, della ricerca del bene comune". "È tempo che l’anelito alla pace e alla stabilità, proprio di tutti i popoli, si traduca - scrive il presidente della Repubblica - in iniziative concrete. La Sua presenza in Turchia e Libano senz’altro rinvigorirà le ragioni dell’unità e della fratellanza umana".

Il saluto del Pontefice ai Paesi sorvolati

Nel telegramma al presidente della Repubblica di Croazia, Zoran Milanović, il Pontefice salutando il popolo croato, offre la sua benedizione e prega perché Dio conceda al Paese “doni di pace e gioia”. Benedizioni di unità, fraternità e concordia sono invocate dal Papa per il popolo della Bosnia-Erzegovina, nel telegramma inviato al presidente della presidenza del Paese, Željko Komšić. Sorvolando sul Montenegro, Leone XIV invia i suoi auguri al presidente Jakov Milatović, assicurando le sue preghiere “per la pace e il benessere della nazione” Pace e unità: è l’augurio del Papa al presidente della Repubblica serba Aleksandar Vučić, nel telegramma di sorvolo sul Paese. “Sorvolando la Bulgaria – scrive il Papa nel messaggio al presidente del Paese Rumen Radev – vi assicuro le mie preghiere” perché Dio benedica la nazione “con i doni di unità, della gioia e della pace”.
(fonte: Vatican News 27/11/2025)


Gigi De Palo - La scelta di bellezza che mi ha cambiato la vita

Gigi De Palo*
La scelta di bellezza
che mi ha cambiato la vita



Leggendo il documento Una caro, che la Chiesa ha voluto dedicare al senso profondo del matrimonio, mi sono sorpreso a ripensare alla mia storia. Alcune frasi mi hanno colpito come se fossero state scritte proprio per me. Per esempio quando si dice che il matrimonio è «una promessa di infinito» e non un possesso, né una gabbia.

E lì mi sono fermato. Perché, a pensarci bene, è proprio quello che ho scoperto nella mia vita.

Se anni fa mi avessero chiesto come immaginavo il mio futuro, avrei risposto senza esitazione: «Mi sposerò tardi... molto tardi». Non perché avessi qualcosa contro il matrimonio, ma perché mi sembrava una scelta enorme, definitiva, da prendere quando sei pronto, maturo, perfetto. E invece la vita, com’è suo stile, mi ha sorpreso. O meglio: mi ha mandato Anna Chiara.

Proprio leggendo Una caro mi è tornata davanti quella frase che dice che due persone possono donarsi davvero solo se il dono è totale, non parziale, e che questa esclusività non è un limite ma una forma di liberazione.

E ho capito che la mia vocazione non era “il matrimonio” come istituzione astratta, né tanto meno la vita sacerdotale. La mia vocazione aveva un nome e un cognome. Era proprio lei: Anna Chiara Gambini.

È stato un terremoto. Ti cambia il baricentro, lo sguardo, il battito del cuore. Con lei ho capito cosa significa davvero essere «una sola carne», come dice la Genesi e come riprende il documento, descrivendo questa unità come «la più grande amicizia» tra due persone che diventano casa l’una per l’altra.

E la cosa incredibile è che questa scelta mi ha migliorato. Mi ha aggiustato dove ero rotto. Mi ha fatto crescere dove ero immaturo. Mi ha dato pace.

Quando incontri chi è stato sognato per te, ti accorgi che il matrimonio non è un ostacolo alla libertà, ma la forma più piena di libertà: quella che nasce dal dono, non dallo scappare. Il documento lo dice in modo limpido: l’amore vero «non vuole mai assorbire l’altro», non lo controlla, ma lo custodisce con delicatezza, come si custodisce qualcosa di prezioso. È esattamente ciò che vivo con Anna Chiara.

Questo non significa che non ci siano difficoltà, momenti di distanza, fatiche piccole e grandi. Una caro ricorda che ogni matrimonio può attraversare momenti di solitudine e di riflessione, ma che la fedeltà nasce da un «noi due» che continua a scegliersi, ogni volta, nella verità.

Io, in quel «noi due», ho riconosciuto il mio posto.

Negli ultimi anni, avvicinandomi alla soglia della mezza età — quella dove cominci a fare i conti — mi sono accorto di una cosa che non avevo mai detto ad alta voce: mi rattrista il pensiero che gli anni da vivere con lei si stiano assottigliando. Non è paura della morte. È amore della vita. È la consapevolezza che ogni giorno con lei vale talmente tanto che ne vorrei altri mille.

Viviamo in un tempo frenetico, dove mettere la firma sotto un «per sempre» sembra quasi un atto di incoscienza. Ma la verità è che nessuno di noi desidera essere amato a tempo determinato, a progetto, con un contratto rinnovabile. E qui il documento ha una lucidità pazzesca quando dice che il matrimonio non è «costrizione morale», ma una via per imparare la grandezza di un amore che trascende l’immediatezza e apre alla speranza .

E lo vediamo ogni giorno. Basta guardare i giovani che mettono i lucchetti sui ponti delle grandi città. Sarà un gesto naïf, sarà anche kitsch, ma dice una cosa gigantesca: il cuore umano sogna il “per sempre”. Anche quando la testa ha paura di dirlo.

Il matrimonio è questo: la risposta concreta a un desiderio infinito. Non una gabbia, ma un’esplosione di bellezza. Non un limite, ma una vocazione alla pienezza. E quando quella vocazione ha il volto di qualcuno che ami — quel volto lì, non un altro — allora tutto diventa chiaro: la vita non va semplicemente vissuta... va condivisa.

Io mi sono convertito al matrimonio camminando, cadendo, rialzandomi. Ma oggi posso dirlo senza imbarazzo: scegliere Anna Chiara è stata la decisione più bella della mia vita. E rifarla ogni giorno è la mia preghiera più semplice e più vera. Perché la bellezza, quando è reale, non si spiega: si sceglie. E si custodisce. Sempre.

*Presidente della Fondazione per la natalità
(fonte: L'Osservatore Romano 25/11/2025)

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Vedi anche il post precedente:


mercoledì 26 novembre 2025

Solo perché donne di Tonio Dell'Olio

Solo perché donne
di Tonio Dell'Olio

Una giornata contro la violenza sulle donne 
serve solo nella misura in cui diventa
unità di misura per il quotidiano



Una giornata contro la violenza sulle donne serve solo nella misura in cui diventa unità di misura per il quotidiano. È importante solo se la politica mette mano alle cause ultime della violenza stessa varando leggi come l’educazione affettiva nelle scuole, l’apertura di centri di sostegno per gli uomini maltrattanti e violenti, norme per l’immagine delle donne nella comunicazione pubblicitaria, nella rete, nei programmi d’intrattenimento... Perché una giornata da sola non basta se un’intera società è inzuppata di patriarcato e nemmeno se ne rende conto. Una dichiarazione autorevole non scuote le coscienze se non sfonda le pareti domestiche. Un segno rosso sul volto dei calciatori può essere un richiamo ma rischia di finire come arte naif, patto transitorio, traccia trascurabile se quando torni a casa non accetti anche i “no”. Insomma dobbiamo entrare nell’idea che per una donna, essere donna, non è un dato casuale e che il femminicidio non è semplice neologismo per distinguere il genere della vittima. Lo diceva l’anima di quella grande poetessa che è Alda Merini: “Siamo state amate e odiate, adorate e rinnegate, baciate e uccise, solo perché donne”.

(Fonte: Mosaico dei Giorni - 25.11.2025)

«UNA CARO - Elogio della monogamia» «Nota» dottrinale sul valore del matrimonio come unione esclusiva e appartenenza reciproca

Dicastero per la Dottrina della fede
«UNA CARO - Elogio della monogamia»

«Nota» dottrinale sul valore del matrimonio
come unione esclusiva e appartenenza reciproca



«Indissolubile unità»: così la Nota dottrinale del Dicastero per la Dottrina della fede (Ddf) definisce il matrimonio, ovvero come una «unione esclusiva e appartenenza reciproca». Non a caso, il documento — approvato da Leone XIV lo scorso 21 novembre, memoria liturgica della Presentazione della Beata Vergine Maria, e illustrato alla stampa il 25 novembre — ha per titolo «Una caro (una sola carne). Elogio della monogamia».

Nel documento si spiega che quanti donano se stessi pienamente e completamente all’altro possono essere soltanto due, altrimenti sarebbe un dono parziale di sé che non rispetta la dignità del partner.

Le motivazioni del documento

Tre le motivazioni all’origine del testo: in primo luogo — scrive nell’introduzione il cardinale prefetto, Víctor Manuel Fernández — c’è l’attenzione all’attuale «contesto globale di sviluppo del potere tecnologico» che porta l’uomo a pensarsi come «una creatura senza limiti» e quindi lontano dal valore di un amore esclusivo e riservato a una sola persona. Si accenna anche alle discussioni con i vescovi africani sul tema della poligamia, ricordando che «studi approfonditi sulle culture africane» smentiscono «l’opinione comune» sulla eccezionalità del matrimonio monogamo. Infine, il documento constata, in Occidente, la crescita del «poliamore», ovvero di forme pubbliche di unione non monogama.

L’unità coniugale e l’unione tra Cristo e la Chiesa

In tale contesto, il documento del Ddf vuole rimarcare la bellezza dell’unità coniugale che, «con l’aiuto della grazia», rappresenta anche «l’unione tra Cristo e la sua sposa amata, la Chiesa». Destinata anzitutto ai vescovi, la Nota — sottolinea il cardinale Fernández — vuole essere anche di aiuto ai giovani, ai fidanzati, agli sposi affinché colgano «la ricchezza» del matrimonio cristiano, così da stimolare «una serena riflessione e un prolungato approfondimento» sul tema.

L’appartenenza fondata sul consenso libero

Suddiviso in sette capitoli, più le Conclusioni, il testo ribadisce che la monogamia non è una limitazione, ma la possibilità di un amore che si apre all’eterno. Due elementi appaiono decisivi: l’appartenenza reciproca e la carità coniugale. La prima, «fondata sul consenso libero» dei due coniugi, è riflesso della comunione trinitaria e diventa «una forte motivazione per la stabilità dell’unione». Si tratta della «appartenenza del cuore, là dove solo Dio vede» e dove solo Lui può entrare, «senza perturbare la libertà e l’identità della persona».

Non profanare la libertà dell’altro

Così intesa, «la mutua appartenenza propria dell’amore reciproco esclusivo implica una cura delicata, un santo timore di profanare la libertà dell’altro, che ha la stessa dignità e pertanto gli stessi diritti». Perché chi ama, sa che «l’altro non può essere un mezzo per risolvere le proprie insoddisfazioni» e sa che il proprio vuoto non deve mai essere colmato «attraverso il dominio dell’altro». Al riguardo, la Nota deplora le «tante forme di desiderio malsano che sfociano in varie manifestazioni di violenza esplicita o sottile, di oppressione, di pressione psicologica, di controllo e infine di asfissia». Si tratta di «mancanza di rispetto e riverenza di fronte alla dignità dell’altro».

Il matrimonio non è possesso

Al contrario un «noi due» sano implica «la reciprocità di due libertà che non vengono mai violate, ma si scelgono a vicenda, lasciando sempre al sicuro un limite che non si può superare». Ciò accade quando «la persona non si disperde nella relazione, non si fonde con la persona amata», nel rispetto di ogni amore sano «che non intende mai assorbire l’altro». In proposito, la Nota sottolinea che la coppia potrà «comprendere e accettare» un momento di riflessione o qualche spazio di solitudine o di autonomia chiesto da uno dei due coniugi, in quanto «il matrimonio non è possesso», non è «pretesa di tranquillità assoluta», né liberazione totale dalla solitudine (solo Dio, infatti, può colmare il vuoto che un essere umano prova), bensì fiducia e capacità di affrontare nuove sfide. Al contempo, si invitano i coniugi a non rifiutarsi l’un l’altro, perché «quando la distanza diventa troppo frequente, il “noi due” si espone alla sua possibile eclissi». Un dialogo sincero consentirà, invece, di sanare le cause dell’allontanamento reciproco e di trovare il giusto equilibrio.

La preghiera, mezzo prezioso per crescere nell’amore

L’appartenenza reciproca si esprime anche nell’aiuto vicendevole tra i coniugi per maturare come persone: in questo, la preghiera è «un mezzo prezioso» con il quale la coppia può santificarsi e crescere nell’amore. Così facendo, si realizza la carità coniugale, «potenza unitiva» «affettiva, fedele e totale», «dono divino» chiesto nella preghiera e nutrito nella vita sacramentale e che, proprio nel matrimonio, diventa «la più grande amicizia» tra due cuori vicini, «prossimi», che si amano e che si sentono «a casa» l’uno nell’altro.

Sessualità e fecondità

Grazie al potere trasfigurante della carità, sarà inoltre possibile intendere la sessualità «in corpo e anima», ossia non come un impulso o uno sfogo, bensì come «un regalo meraviglioso di Dio» che orienta alla donazione di sé stessi e al bene dell’altro, assunto nella totalità della sua persona. La carità coniugale si riversa pure nella fecondità, «anche se ciò non significa che questo debba essere lo scopo esplicito di ogni atto sessuale». Al contrario, il matrimonio conserva il suo carattere essenziale anche se è senza figli. Si ricorda, inoltre, la legittimità del rispetto dei tempi naturali di infertilità.

I social network e l’urgenza di una nuova pedagogia

Tuttavia, «nel contesto dell’individualismo consumista postmoderno» che nega il fine unitivo della sessualità e del matrimonio, come si può preservare la possibilità di un amore fedele? La risposta, afferma il documento, si trova nell’educazione: «L’universo dei social network, dove il pudore svanisce e proliferano le violenze simboliche e sessuali, mostra l’urgenza di una nuova pedagogia». Occorre dunque «preparare le generazioni ad accogliere l’esperienza amorosa come mistero antropologico», presentando l’amore non come mera pulsione, bensì come chiamata alla responsabilità, e «capacità di speranza di tutta la persona». L’educazione alla monogamia non è «arcaismo», né «costrizione morale», ma costituisce «un’iniziazione alla grandezza di un amore che trascende l’immediatezza» e anticipa in qualche modo «il mistero stesso di Dio».

L’attenzione per i poveri «antidoto» all’endogamia

La carità dell’unione coniugale si vede anche nelle coppie che non si chiudono nel proprio individualismo, ma si aprono a progetti condivisi per «fare qualcosa di bello per la comunità e per il mondo», in quanto «l’uomo realizza sé stesso ponendosi in relazione con gli altri e con Dio». Diversamente, è solo egoismo, autoreferenzialità, endogamia da contrastare, ad esempio, praticando «il senso sociale» della coppia che si impegna, insieme, nella ricerca del bene comune. Centrale, in tale ambito, è l’attenzione verso i poveri, i quali — come affermato da Leone XIV — sono «una questione familiare» del cristiano, non un mero «problema sociale».

L’amore coniugale come promessa di infinito

In conclusione, la Nota ribadisce che «ogni matrimonio autentico è un’unità composta da due singoli, che richiede una relazione così intima e totalizzante da non poter essere condivisa con altri». Pertanto, tra le due proprietà essenziali del vincolo matrimoniale — unità e indissolubilità — è la prima a fondare la seconda: la fedeltà è possibile solo a partire da una comunione scelta e rinnovata. Solo così l’amore coniugale sarà una realtà dinamica, chiamata a una crescita e uno sviluppo continui nel tempo, in una «promessa d’infinito».

Dal Libro della Genesi al magistero dei Papi

Da evidenziare che il documento offre anche un ampio excursus teologico, filosofico e poetico sul tema della monogamia, a partire dal capitolo 2 della Genesi («I due saranno un’unica carne») e passando per i Padri della Chiesa, tra cui sant’Agostino che descrive la bellezza dell’unità coniugale come «un camminare insieme, fianco a fianco». Non mancano, poi, i riferimenti ai principali interventi magisteriali in materia: da Leone XIII che lega la difesa della monogamia alla difesa della dignità della donna, a Pio XI, autore dell’enciclica Casti connubii. Numerose inoltre le citazioni del Concilio Vaticano II, nelle quali si evidenzia come l’amore monogamico sia specchio della «uguale dignità di ognuno dei due coniugi».

I santi Paolo VI e Giovanni Paolo II

Ulteriori spunti di riflessione scaturiscono da passi di san Paolo VI che, nell’enciclica Humanae vitae, sottolinea sì il significato procreativo del matrimonio ma, allo stesso tempo, ne mostra anche un altro, inseparabile dal primo, ovvero il significato unitivo. Di san Giovanni Paolo II viene ricordata, invece, «l’ermeneutica del dono»: l’essere umano, immagine di Dio, è stato creato per donarsi all’altro e solo in questo dono di sé porta a compimento il vero significato della sua esistenza. Inoltre, poiché Dio ha fatto l’uomo a sua somiglianza creandolo maschio e femmina, ne deriva che «l’umanità, per somigliare a Dio, deve essere una coppia».

Il giovane Karol Wojtyła

Di Karol Wojtyła si riprende anche la riflessione filosofica svolta come giovane vescovo, in particolare il «principio personalistico» che esige di «trattare la persona in modo corrispondente al suo essere» e non come «un oggetto a servizio di un’altra persona», come succede nella poligamia. Al contempo, il futuro Pontefice nega la tesi rigorista che guarda alla sessualità matrimoniale solo a scopo procreativo, sostenendo invece che «esiste una gioia conforme» sia all’unione fisica che alla dignità della persona. Perché l’altro può essere amato come persona e, «allo stesso tempo, desiderato».

Benedetto XVI e Francesco

Ampie citazioni rimandano pure a Deus caritas est e Amoris laetitia: con la prima enciclica di Benedetto XVI si ricorda che il matrimonio raccoglie e porta a compimento «quella forza dirompente che è l’amore il quale, nella sua dinamica di esclusività e definitività, non vuole mortificare la libertà umana», bensì «apre la vita a un orizzonte di eternità». Dell’esortazione apostolica di Papa Francesco si riprende in particolare il capitolo IV, con una descrizione dettagliata dell’amore e della carità coniugale.

Leone XIV

Infine, di Leone XIV si cita soprattutto il messaggio per il decimo anniversario della canonizzazione di Louis e Zélie Martin, genitori di santa Teresa di Gesù Bambino. In esso, il Pontefice agostiniano descrive i coniugi come «un modello di fedeltà e di attenzione all’altro; di fervore e di perseveranza nella fede; di educazione cristiana dei figli, di generosità nell’esercizio della carità e della giustizia sociale; un modello anche di fiducia nella prova».

Alcuni filosofi del XX secolo

Il documento del Ddf ripercorre poi il pensiero di alcuni filosofi del XX secolo, come Emmanuel Lévinas, il quale vede nell’unione esclusiva del matrimonio «un faccia a faccia» che «rivendica per sé l’appartenenza reciproca esclusiva e non trasferibile al di fuori di quel “noi due”». Ne consegue che «la poligamia, l’adulterio o il poliamore si fondano sull’illusione che l’intensità del rapporto possa trovarsi nella successione dei volti». Del pensatore Jacques Maritain si ricorda, invece, la concezione dell’amore come «una completa e irrevocabile donazione dell’uno all’altro», alla ricerca del bene dell’altro fino all’unione totale con Dio.

La parola poetica

Un capitolo a parte è dedicato alla «parola poetica»: i versi celebri di autori come Whitman, Neruda, Montale, Tagore, Dickinson approfondiscono il senso di appartenenza che si prova nel «noi due» e che arriva ad avvertirsi come totalizzante, indistruttibile e intrasferibile. Perché alla fine, come diceva sant’Agostino, «Dammi un cuore che ama e capirà ciò che dico».

Leggi anche:

(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Isabella Piro 25/11/2025)


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L'essere umano ha sempre giocato a fare Dio ma oltre alla scienza c'è bisogno dell'etica. Di fronte ai progressi della biotecnologia serve una governance mondiale per la salvaguardia dell’umanità


La Stampa 14 novembre 2025

«Giocano a fare Dio», diciamo spaventati riferendoci a coloro che intendono riprogettare l'essere umano tramite tecnologie sempre più pervasive, applicate questa volta non più su macchine e computer ma su gli stessi corpi umani. In realtà l'umanità ha sempre cercato di fare Dio, non a caso ci siamo dichiarati suoi figli, proclamati "a sua immagine e somiglianza", quindi cosa c'è da stupirsi se ora proseguiamo nell'impresa di emulare il Padre celeste? Da sempre i figli desiderano essere come il padre, anzi persino più forti di lui. E poi scusate, che male c'è nel cercare di prevenire le svariate migliaia di malattie genetiche che minacciano il formarsi degli esseri umani nel seno materno, in quei momenti in cui Dio Padre (sempre per stare alla metafora del giocare a fare Dio) si distrae un po' e invece del corretto numero di cromosomi ne lascia posizionare uno in più o uno in meno, generando irreversibili malformazioni nei bambini che nascono e un dolore abissale nei genitori? …

E che male c'è nel prevenire la degenerazione delle cellule nervose che conduce un essere umano a vivere gli ultimi anni senza consapevolezza di sé, in preda alla demenza, con il conseguente indescrivibile strazio dei parenti e un sordo odio verso la vita per il suo beffardo destino? Domande retoriche, la cui unica sensata risposta è nessun male; anzi, solo tanto auspicabilissimo bene. La scienza deve fare il suo mestiere, che, come dice il nome dal latino scire, consiste nel "sapere": nell'incrementare sempre più la conoscenza. Sembrerebbe quindi che non vi sia nulla da temere e che occorra solo salutare con gioia le notizie fornite da questo giornale nei giorni scorsi riguardanti il progetto "Preventive" e le intenzioni (forse giá ben più che solo tali) di Altman, Amstrong, Musk e altri miliardari che mirano a creare "uomini geneticamente modificati".

L'umanità, però, non è solo conoscenza e azione, è anche coscienza e dubbio, cioè riflessione sull'utilizzo della conoscenza ottenuta, la quale può essere usata in vari modi: o per i benefici di tutti, o per i privilegi di pochi; o per curare malattie, o per allestire un catalogo di caratteristiche biologiche da mettere in vendita; o per il bene comune, o per il profitto di privati. Perché il punto che tendiamo a dimenticare, inebriati come siamo non dalla serietà della conoscenza scientifica ma dal senso di onnipotenza che la società dei consumi infonde nelle menti per condurle a consumare sempre più, è che il bene e il male esistono per davvero e che non tutto quello che si può fare è davvero lecito fare. Inebriati dall'ideologia vincente ai nostri giorni denominabile "scientismo", dimentichiamo la lezione di Kant secondo cui sono tre le domande alla base dell'umano: 1) che cosa posso sapere? 2) che cosa devo fare? 3) che cosa mi è lecito sperare?

Accanto al sapere c'è anche il dovere, oltre alla conoscenza c'è anche la coscienza. Il che si gnifica che noi, oltre alla scienza, abbiamo bisogno dell'etica (e della spiritualità, se prendiamo sul serio anche la terza domanda). Che sia necessaria l'etica appare del tutto evidente non appena si riflette sul fatto che un conto è usare le biotecnologie per sconfiggere le malattie genetiche, un altro conto è selezionare dal menu eugenetico il colore degli occhi, l'altezza e l'intelligenza del figlio in arrivo (privandolo cosi della sua irriducibile differenza rispetto ai genitori, fondamento della sua originarietà e della sua libertà). Insomma, se è vero che a seguito delle tecnologie sempre più performanti siamo entrati dentro un mondo del tutto nuovo, è altrettanto vero che siamo pur sempre rimasti dentro il mondo di sempre che necessita di una bussola del bene e del male, se vogliamo custodire la libertà.

La libertà è un bene prezioso ma fragile, si può perdere facilmente e di sicuro viene meno laddove non vi sia imprevedibilità e indeterminazione. In assenza di queste dimensioni funzioneremo di più, ma sentiremo di meno; saremo sempre vincitori, ma saremo privati del prezioso sale che viene dalla sconfitta e dal saperla rielaborare.

Il fisico Alessandro Vespignani dichiarava ieri a questo giornale che ormai da anni noi siamo «intelligenze aumentate». É proprio così? È davvero aumentata in questi ultimi anni l'intelligenza degli esseri umani? La maggiore performatività tecnologica ha davvero prodotto un aumento dell'intelligenza individuale? Io non ne sono per nulla sicuro. L'intelligenza umana infatti non si caratterizza solo per essere "problem solving", ma anche per sapersi costituire come "problem posing", cioè per la sua dimensione critica e dubitativa. Funzionare di più e risolvere più problemi non significa necessariamente essere più intelligenti. Senza calcolare che questa "intelligenza aumentata" è stata finora ben lungi dall'aumentare la felicità e la serenità, ma ha semmai ha prodotto uno spaventoso aumento dell'ansia da prestazione per essere tutti all'altezza di questa "intelligenza aumentata" che ci vuole tutti più smart e più tech. Ma a che serve questo aumento dell'intelligenza se coincide con la diminuzione della felicità? Mi viene in mente questa domanda evangelica: "A che serve a un uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?". Il concetto di anima esprime il centro vitale di ognuno di noi. Noi siamo intelligenza, certo, ma non solo; siamo anche sentimento, passione, bisogno di senso. L'intelligenza ci offre conoscenza, ma è solo il sentimento che ci offre il significato. E ognuno di noi è ultimamente una domanda di significato. Questo non si può limitare al fare e all'eseguire, perché richiede anche il non-fare, il contemplare, il tacere, ovvero ciò che i nostri padri chiamavano otium e che ritenevano più prezioso del pur essenziale negotium.

Sempre Vespignani dichiarava che programmare il biologico con strumenti digitali è sì un processo inevitabile, ma non dobbiamo preoccuparci perché l'obiettivo non è progettare persone ma ridurre la sofferenza e la mortalità, cioè la prevenzione e la cura. Aggiungeva inoltre che il potenziamento genetico è una promessa fuorviante e una deriva eticamente inaccettabile e che non si deve «aprire la porta al mercato>>. Parole bellissime che si traducevano nell'auspicio della necessità di regole chiare per l'operatività tecnologica nell'ambito clinico e biologico al fine di tenere il mercato a distanza e di conseguenza nella necessità di una solida cooperazione internazionale, visto che la scienza e la tecnologia non conoscono confini e nessun paese può regolarsi da solo.

Il problema, però, qual è? È che la scienza corre a passi da gigante, mentre il diritto e la politica che devono provvedere alle regolamentazioni auspicate arrancano lenti come una lumaca. È quindi necessario tener conto di questa doppia velocità prendendo la seguente decisione: che sia vietata ogni applicazione dell'IA e delle tecnologie sulla biologia umana prima che le normative siano definite in modo chiaro e trasparente per il mondo intero. Non si tratta di fermare la scienza, si tratta di custodire l'umanità. Perché se veramente si vuole non aprire la porta al mercato, chi può davvero tenere chiusa quella porta è solo la politica in quanto costruttrice di diritto. Di fronte alle biotecnologie che possono mutare definitivamente la natura umana aumentandone l'intelligenza e diminuendone il cuore, abbiamo l'urgente necessità di una governance mondiale. Penso che i rettori e i senati accademici delle università di tutto il mondo, gli imprenditori più responsabili, i leader delle religioni mondiali, gli intellettuali più seguiti debbano coordinarsi tra loro per far sentire la voce dell'umano. Prima si stabiliscano le regole chiare per la salvaguardia dell'umanità, poi si intraprenda il lavoro biotecnologico sull'essere umano. Solo così si potrà davvero lavorare per sconfiggere le malattie senza cadere nello spaventoso marketing eugenetico. In sé non è sbagliato "fare Dio", ma lo si deve fare seriamente, non giocando con l'umano ma servendolo con la più alta responsabilità.
(fonte: sito dell'autore)


martedì 25 novembre 2025

«Ornella Vanoni ha scattato un ritratto eterno dell'anima umana»


«Ornella Vanoni ha scattato un ritratto eterno dell'anima umana»

 È lei, l’«Anima che canta», non una santa canonizzata, ma una che ha trovato nella pratica del canto la sua via di salvezza. La sua allegria non è felicità spensierata, ma forza coraggiosa di chi canta nonostante il dolore, di chi trova un "sorriso" proprio "dentro al pianto". La forza di trasformare ogni ferita in una strofa, ogni amore finito in un salmo per cuori infranti 

Foto Ansa

La notizia della scomparsa di Ornella Vanoni non è un semplice annuncio di cronaca. Per il popolo dei credenti nella musica, la sua non è una morte, ma una trasfigurazione: l'ingresso definitivo di un Archetipo nell'eternità della cultura. Piangere sarebbe un fraintendimento del suo messaggio. Come ci ha insegnato in una delle sue canzoni più rivelatrici – non la più famosa, ma forse la più profonda – la sua essenza era proprio la coesistenza degli opposti: un sorriso dentro al pianto. E oggi, il nostro pianto per la sua dipartita non può fare a meno di contenere il sorriso grato per il patrimonio di umanità che ci ha donato. La sua intera opera è stata un "incorniciare" le emozioni più turbe, le storie più scomode, dando loro la dignità di un'icona. Ha scattato un ritratto eterno all'anima umana, con tutte le sue imperfezioni.

Non ha mai nascosto le sue crepe. Il suo carisma non era fatto di perfezione inarrivabile, ma di una schiettezza rituale. Le sue interviste fuori riga, la sua autoironia tagliente, erano atti di un vero e proprio esorcismo pubblico contro l'ipocrisia. Come le divinità ingannatrici, ha giocato per tutta la vita con le aspettative del pubblico, trasformando l'ansia, la depressione e una vita sentimentale turbolenta in una liturgia emozionale.

È lei, l’«Anima che canta», non una santa canonizzata, ma una che ha trovato nella pratica del canto la sua via di salvezza. «Parole sulle note sono state la migliore compagnia / Per affrontare la stupidità abbiamo ancora l'allegria», recita il testo. L'allegria non è felicità spensierata, ma la forza coraggiosa di chi canta nonostante il dolore, di chi trova un "sorriso" proprio "dentro al pianto". È la stessa resilienza che la Vanoni ha incarnato: la forza di trasformare ogni ferita in una strofa, ogni amore finito in un salmo per cuori infranti.

È in questa dichiarazione – «Io sono tutto l'amore che ho dato, tutto l'amore incondizionato» – che troviamo il nucleo del suo credo, una fede laica eppure profondamente spirituale. Questa non è la promessa di un'anima immortale in attesa di un paradiso ultraterreno. È qualcosa di più radicale e terreno: è l'affermazione che la nostra unica, vera resurrezione sta nella scia d'amore che lasciamo nel mondo.

La “fede” di Ornella Vanoni, così come emerge dalla sua opera, era una fede nella resistenza resiliente dell'umano contro l'oblio. Credeva che l'unico modo per sfidare la morte non fosse attraverso la preghiera a un dio lontano, ma attraverso l'atto coraggioso di donare pezzi della propria anima – le proprie emozioni, le proprie fragilità, il proprio amore incondizionato – all'ascoltatore. Quell'amore, una volta dato, cessava di essere un suo possesso personale per diventare un bene comune, un patrimonio emotivo eterno.

La sua morte fisica, quindi, non è la fine di questa esistenza, ma il momento in cui il suo "Io Sono" – cioè la somma totale di tutto l'amore che ha cantato e incarnato – si stacca definitivamente dalla sua persona per diventare pura eredità, pura energia a disposizione di chiunque abbia un cuore per ascoltare. La sua resurrezione avviene ogni volta che una sua canzone accende un'emozione, consola un dolore o semplicemente fa sentire qualcuno meno solo. È una fede nella vita dopo la morte dell'io, ma non della relazione.

Attraverso la lente della Pop-Theology, vediamo in lei l'ultima sacerdotessa di un culto più necessario che mai per tutti: il culto della verità emotiva. Il suo "sorriso dentro al pianto" non è una semplice metafora, ma un dogma di speranza per un'umanità fragile: un inno alla resilienza dell'umano che, morendo come individuo, rinasce eternamente come eco d'amore. Per il resto, quanto al suo vero destino, ora, dopo la sua morte, i cristiani sono educati a “sperare per tutti” (H. urs von Balthasar). Speriamo dunque anche per Ornella, affinché si possa meravigliare della bellezza paterna del Dio -agape nel paradiso di Luce e di pace di Gesù, giudice “giusto nella sua grande misericordia”.
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di monsignor Antonio Staglianò 23/11/2025)


"In unitate fidei" - Lettera Apostolica di Leone XIV nel 1700° anniversario del Concilio di Nicea (commento/sintesi e testo integrale)

Lettera Apostolica di Leone XIV nel 1700° anniversario del Concilio di Nicea

In unitate fidei


«È ormai vicino il Viaggio apostolico che compirò in Turchia e in Libano. In Turchia sarà celebrato il 1700° anniversario del Concilio di Nicea. Per questo, oggi viene pubblicata la Lettera apostolica In unitate fidei, che commemora tale storico evento». All’Angelus di ieri Leone XIV ha annunciato così il documento, firmato e diffuso nella solennità di Cristo Re, che rilancia l’invito all’unità tra i cristiani affinché possano essere segno di pace nel mondo.

Nella Lettera il Papa incoraggia «un rinnovato slancio nella professione della fede, la cui verità» da secoli è «il patrimonio condiviso» tra i credenti in Cristo; e ripercorrendo la storia del Concilio in cui per prima volta furono invitati tutti i vescovi, ne evidenzia il «valore ecumenico». Dal Pontefice dunque l’esortazione ai cristiani di ogni Chiesa e confessione a «camminare insieme per raggiungere l’unità e la riconciliazione», lasciandosi «alle spalle controversie teologiche», per «un ecumenismo rivolto al futuro».

«Nell’unità della fede» ha come riferimento il documento della Commissione Teologica Internazionale «Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore. Il 1700° anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea» dell’aprile scorso, per «l’approfondimento dell’importanza e dell’attualità non solo teologica ed ecclesiale, ma anche culturale e sociale» dell’assise apertasi il 20 maggio 325 e rimasta nella coscienza cristiana principalmente attraverso il Simbolo che raccoglie, definisce e proclama la fede nella salvezza in Gesù Cristo e nel Dio Uno, Padre, Figlio e Spirito Santo. «Essa — commenta Leone XIV accennando al tema del Giubileo 2025 — ci dà speranza nei tempi difficili che viviamo, in mezzo a molte preoccupazioni e paure, minacce di guerra e di violenza, disastri naturali, gravi ingiustizie e squilibri, fame e miseria patita da milioni di nostri fratelli e sorelle».
(fonte: L'Osservatore Romano 24/11/2025)

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Il testo integrale

LEONE XIV

LETTERA APOSTOLICA

IN UNITATE FIDEI

NEL 1700° ANNIVERSARIO DEL CONCILIO DI NICEA

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1. Nell’unità della fede, proclamata fin dalle origini della Chiesa, i cristiani sono chiamati a camminare concordi, custodendo e trasmettendo con amore e con gioia il dono ricevuto. Esso è espresso nelle parole del Credo: «Crediamo in Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio, disceso dal cielo per la nostra salvezza», formulate dal Concilio di Nicea, primo evento ecumenico della storia della cristianità, 1700 anni or sono.

Mentre mi accingo a compiere il Viaggio Apostolico in Türkiye, con questa lettera desidero incoraggiare in tutta la Chiesa un rinnovato slancio nella professione della fede, la cui verità, che da secoli costituisce il patrimonio condiviso tra i cristiani, merita di essere confessata e approfondita in maniera sempre nuova e attuale. A tal riguardo, è stato approvato un ricco documento della Commissione Teologica Internazionale: Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore. Il 1700° anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea. Ad esso rimando, perché offre utili prospettive per l’approfondimento dell’importanza e dell’attualità non solo teologica ed ecclesiale, ma anche culturale e sociale del Concilio di Nicea.

2. «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio»: così San Marco intitola il suo Vangelo, riassumendone l’intero messaggio proprio nel segno della figliolanza divina di Gesù Cristo. Allo stesso modo, l’Apostolo Paolo sa di essere chiamato ad annunciare il Vangelo di Dio sul suo Figlio morto e risorto per noi (cfr Rm 1,9), che è il “sì” definitivo di Dio alle promesse dei profeti (cfr 2Cor 1,19-20). In Gesù Cristo, il Verbo che era Dio prima dei tempi e per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte – recita il prologo del Vangelo di San Giovanni –, «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). In Lui, Dio si è fatto nostro prossimo, così che tutto quello che noi facciamo ad ognuno dei nostri fratelli, l’abbiamo fatto a Lui (cfr Mt 25,40).

È quindi una provvidenziale coincidenza che in questo Anno Santo, dedicato alla nostra speranza che è Cristo, si celebri anche il 1700° anniversario del primo Concilio Ecumenico di Nicea, che proclamò nel 325 la professione di fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio. È questo il cuore della fede cristiana. Ancor oggi nella celebrazione eucaristica domenicale pronunciamo il Simbolo Niceno-costantinopolitano, professione di fede che unisce tutti i cristiani. Essa ci dà speranza nei tempi difficili che viviamo, in mezzo a molte preoccupazioni e paure, minacce di guerra e di violenza, disastri naturali, gravi ingiustizie e squilibri, fame e miseria patita da milioni di nostri fratelli e sorelle.

3. I tempi del Concilio di Nicea non erano meno turbolenti. Quando esso iniziò, nel 325, erano ancora aperte le ferite delle persecuzioni contro i cristiani. L’Editto di tolleranza di Milano (313), emanato dai due imperatori Costantino e Licinio, sembrava annunciare l’alba di una nuova epoca di pace. Dopo le minacce esterne, tuttavia, nella Chiesa emersero presto dispute e conflitti.

Ario, un presbitero di Alessandria d’Egitto, insegnava che Gesù non è veramente il Figlio di Dio; seppure non una semplice creatura, Egli sarebbe un essere intermedio tra il Dio irraggiungibilmente lontano e noi. Inoltre, vi sarebbe stato un tempo in cui il Figlio “non era”. Ciò era in linea con la mentalità diffusa all’epoca e risultava perciò plausibile.

Ma Dio non abbandona la sua Chiesa, suscitando sempre uomini e donne coraggiosi, testimoni nella fede e pastori che guidano il suo Popolo e gli indicano il cammino del Vangelo. Il Vescovo Alessandro di Alessandria si rese conto che gli insegnamenti di Ario non erano affatto coerenti con la Sacra Scrittura. Poiché Ario non si mostrava conciliante, Alessandro convocò i Vescovi dell’Egitto e della Libia per un sinodo, che condannò l’insegnamento di Ario; agli altri Vescovi dell’Oriente inviò poi una lettera per informarli dettagliatamente. In Occidente si attivò il Vescovo Osio di Cordova, in Spagna, che si era già dimostrato fervente confessore della fede durante la persecuzione sotto l’imperatore Massimiano e godeva della fiducia del Vescovo di Roma, Papa Silvestro.

Anche i seguaci di Ario, però, si compattarono. Ciò portò a una delle più grandi crisi nella storia della Chiesa del primo millennio. Il motivo della disputa, infatti, non era un dettaglio secondario. Si trattava del centro della fede cristiana, cioè della risposta alla domanda decisiva che Gesù aveva posto ai discepoli a Cesarea di Filippo: «Voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15).

4. Mentre la controversia divampava, l’imperatore Costantino si rese conto che insieme all’unità della Chiesa era minacciata anche l’unità dell’Impero. Convocò quindi tutti i Vescovi a un concilio ecumenico, cioè universale, a Nicea, per ristabilire l’unità. Il sinodo, detto dei “318 Padri”, si svolse sotto la presidenza dell’imperatore: il numero dei Vescovi riuniti insieme era senza precedenti. Alcuni di loro portavano ancora i segni delle torture subite durante la persecuzione. La grande maggioranza di essi proveniva dall’Oriente, mentre sembra che solo cinque fossero occidentali. Papa Silvestro si affidò alla figura, teologicamente autorevole, del Vescovo Osio di Cordova, e inviò due presbiteri romani.

5. I Padri del Concilio testimoniarono la loro fedeltà alla Sacra Scrittura e alla Tradizione apostolica, come veniva professata durante il battesimo secondo il mandato di Gesù: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» ( Mt 28,19). In Occidente ne esistevano varie formule, tra le quali il cosiddetto Credo degli Apostoli. [1] Anche in Oriente esistevano molte professioni battesimali, tra loro simili nella struttura. Non si trattava di un linguaggio erudito e complicato, ma piuttosto – come si disse in seguito – del semplice linguaggio comprensibile ai pescatori del mare di Galilea.

Su questa base il Credo niceno inizia professando: «Noi crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili». [2] Con ciò i Padri conciliari espressero la fede nel Dio uno e unico. Al Concilio non ci fu controversia al riguardo. Venne invece discusso un secondo articolo, che utilizza anch’esso il linguaggio della Bibbia per professare la fede in « un solo Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio». Il dibattito era dovuto all’esigenza di rispondere alla questione sollevata da Ario su come si dovesse intendere l’affermazione “Figlio di Dio” e come potesse conciliarsi con il monoteismo biblico. Il Concilio era perciò chiamato a definire il corretto significato della fede in Gesù come “il Figlio di Dio”.

I Padri confessarono che Gesù è il Figlio di Dio in quanto è « dalla sostanza ( ousia) del Padre [...] generato, non creato, della stessa sostanza ( homooúsios) del Padre». Con questa definizione veniva radicalmente respinta la tesi di Ario. [3] Per esprimere la verità della fede, il Concilio ha usato due parole, “sostanza” ( ousia) e “della stessa sostanza” ( homooúsios) , che non si trovano nella Scrittura. Così facendo non ha voluto sostituire le affermazioni bibliche con la filosofia greca. Al contrario, il Concilio ha utilizzato questi termini per affermare con chiarezza la fede biblica distinguendola dall’errore ellenizzante di Ario. L’accusa di ellenizzazione non si applica dunque ai Padri di Nicea, ma alla falsa dottrina di Ario e dei suoi seguaci.

In positivo, i Padri di Nicea vollero fermamente restare fedeli al monoteismo biblico e al realismo dell’incarnazione. Vollero ribadire che l’unico vero Dio non è irraggiungibilmente lontano da noi, ma al contrario si è fatto vicino e ci è venuto incontro in Gesù Cristo.

6. Per esprimere il suo messaggio nel linguaggio semplice della Bibbia e della liturgia familiare a tutto il Popolo di Dio, il Concilio riprende alcune formulazioni della professione battesimale: «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero». Il Concilio riprende poi la metafora biblica della luce: «Dio è luce» (1Gv 1,5; cfr Gv 1,4-5). Come la luce che irradia e comunica sé stessa senza venire meno, così il Figlio è il riflesso (apaugasma) della gloria di Dio e l’immagine (character) del suo essere (ipostasi) (cfr Eb 1,3; 2Cor 4,4). Il Figlio incarnato, Gesù, è perciò la luce del mondo e della vita (cfr Gv 8,12). Attraverso il battesimo, gli occhi del nostro cuore vengono illuminati (cfr Ef 1,18), affinché anche noi possiamo essere luce nel mondo (cfr Mt 5,14).

Il Credo, infine, afferma che il Figlio è «Dio vero da Dio vero». In molti luoghi, la Bibbia distingue gli idoli morti dal Dio vero e vivente. Il vero Dio è il Dio che parla e agisce nella storia della salvezza: il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, che si è rivelato a Mosè nel roveto ardente (cfr Es 3,14), il Dio che vede la miseria del popolo, ascolta il suo grido, lo guida e lo accompagna attraverso il deserto con la colonna di fuoco (cfr Es 13,21), gli parla con voce di tuono (cfr Dt 5,26) e ne ha compassione (cfr Os 11,8-9). Il cristiano è quindi chiamato a convertirsi dagli idoli morti al Dio vivo e vero (cfr At 12,25; 1Ts 1,9). In questo senso, Simon Pietro confessa a Cesarea di Filippo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).

7. Il Credo di Nicea non formula una teoria filosofica. Professa la fede nel Dio che ci ha redenti attraverso Gesù Cristo. Si tratta del Dio vivente: Egli vuole che abbiamo la vita e che l’abbiamo in abbondanza (cfr Gv 10,10). Per questo il Credo continua con le parole della professione battesimale: il Figlio di Dio che “per noi uomini e per la nostra salvezza discese e si è incarnato e si è fatto uomo, morì, il terzo giorno è risuscitato, è salito al cielo e verrà per giudicare i vivi e i morti”. Ciò rende chiaro che le affermazioni di fede cristologiche del Concilio sono inserite nella storia di salvezza tra Dio e le sue creature.

Sant’Atanasio, che aveva partecipato al Concilio come diacono del Vescovo Alessandro e gli succedette sulla cattedra di Alessandria d’Egitto, ha sottolineato più volte e con grande forza la dimensione soteriologica che il Credo niceno esprime. Scrive infatti che il Figlio, disceso dal cielo, «ci rese figli del Padre e, divenuto egli stesso uomo, divinizzò gli uomini. Non divenne Dio da uomo che era, ma da Dio che era divenne uomo per poterci divinizzare». [4] Solo se il Figlio è veramente Dio questo è possibile: nessun essere mortale può, di fatto, sconfiggere la morte e salvarci; solo Dio può farlo. È Lui che ci ha liberati nel Figlio suo fatto uomo perché fossimo liberi (cfr Gal 5,1).

Merita di essere sottolineato, nel Credo di Nicea, il verbo descendit, “discese”. San Paolo descrive con espressioni forti questo movimento: «[Cristo] svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,7). Così come scrive il prologo del Vangelo di San Giovanni, «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Per questo – insegna la Lettera agli Ebrei – «non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). La sera prima della sua morte, si è chinato come uno schiavo per lavare i piedi ai discepoli (cfr Gv 13,1-17). E l’apostolo Tommaso, solo quando ha potuto mettere le dita nella ferita del costato del Signore risorto, ha confessato: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).

È proprio in virtù della sua incarnazione che incontriamo il Signore nei nostri fratelli e sorelle bisognosi: «Quello che avete fatto a loro, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Il Credo niceno non ci parla dunque del Dio lontano, irraggiungibile, immoto, che riposa in sé stesso, ma del Dio che è vicino a noi, che ci accompagna nel nostro cammino sulle strade del mondo e nei luoghi più oscuri della terra. La sua immensità si manifesta nel fatto che si fa piccolo, si spoglia della sua maestà infinita rendendosi nostro prossimo nei piccoli e nei poveri. Questo fatto rivoluziona le concezioni pagane e filosofiche di Dio.

Un’altra parola del Credo niceno è per noi oggi particolarmente rivelatrice. L’affermazione biblica «si fece carne», precisata inserendo la parola «uomo» dopo la parola «incarnato». Nicea prende così le distanze dalla falsa dottrina secondo cui il Logos avrebbe assunto solo un corpo come rivestimento esterno, ma non l’anima umana, dotata di intelletto e libero arbitrio. Al contrario, vuole affermare ciò che il Concilio di Calcedonia (451) avrebbe dichiarato esplicitamente: in Cristo, Dio ha assunto e redento l’intero essere umano, con corpo e anima. Il Figlio di Dio si è fatto uomo – spiega Sant’Atanasio – perché noi uomini potessimo essere divinizzati. [5] Questa luminosa intelligenza della Rivelazione divina era stata preparata da Sant’Ireneo di Lione e da Origene, sviluppandosi poi con grande ricchezza nella spiritualità orientale.

La divinizzazione non ha nulla a che vedere con l’auto-deificazione dell’uomo. Al contrario, la divinizzazione ci custodisce dalla tentazione primordiale di voler essere come Dio (cfr Gen 3,5). Ciò che Cristo è per natura, noi lo diventiamo per grazia. Attraverso l’opera della redenzione, Dio non solo ha restaurato la nostra dignità umana come immagine di Dio, ma Colui che ci ha creati in modo meraviglioso ci ha resi partecipi, in modo ancor più mirabile, della sua natura divina (cfr 2Pt 1,4).

La divinizzazione è quindi la vera umanizzazione. Ecco perché l’esistenza dell’uomo punta al di là di sé, cerca al di là di sé, desidera al di là di sé ed è inquieta finché non riposa in Dio: [6] Deus enim solus satiat, Dio solo soddisfa l’uomo! [7] Solo Dio, nella sua infinità, può soddisfare l’infinito desiderio del cuore umano, e per questo il Figlio di Dio ha voluto diventare nostro fratello e redentore.

8. Abbiamo detto che Nicea respinse chiaramente gli insegnamenti di Ario. Ma Ario e i suoi seguaci non si arresero. Lo stesso imperatore Costantino e i suoi successori si schierarono sempre più con gli ariani. Il termine homooúsios divenne pomo della discordia tra niceni e anti-niceni, scatenando così altri gravi conflitti. San Basilio di Cesarea descrive la confusione che si produsse con immagini eloquenti, paragonandola a una battaglia navale notturna in una violenta tempesta, [8] mentre Sant’Ilario testimonia l’ortodossia dei laici rispetto all’arianesimo di molti vescovi, riconoscendo che «le orecchie del popolo sono più sante dei cuori dei sacerdoti». [9]

La roccia del credo niceno fu Sant’Atanasio, irriducibile e fermo nella fede. Nonostante fosse stato deposto ed espulso ben cinque volte dalla sede episcopale di Alessandria, ogni volta vi tornò come Vescovo. Anche dall’esilio continuò a guidare il Popolo di Dio attraverso i suoi scritti e le sue lettere. Come Mosè, Atanasio non poté entrare nella terra promessa della pace ecclesiale. Questa grazia era riservata a una nuova generazione, nota come i “giovani niceni”: in Oriente, i tre Padri cappadoci, San Basilio di Cesarea (circa 330-379), a cui fu dato il titolo “il Grande”, suo fratello San Gregorio di Nissa (335-394) e il più grande amico di Basilio, San Gregorio Nazianzeno (329/30-390). In Occidente furono importanti Sant’Ilario di Poitiers (circa 315-367) e il suo allievo San Martino di Tours (circa 316-397). Poi soprattutto Sant’Ambrogio di Milano (333-397) e Sant’Agostino d’Ippona (354-430).

Il merito dei tre Cappadoci, in particolare, è stato quello di portare a compimento la formulazione del Credo niceno, mostrando che l’Unità e la Trinità in Dio non sono affatto in contraddizione. In questo contesto, venne formulato l’articolo di fede sullo Spirito Santo nel primo Concilio di Costantinopoli del 381. Così il Credo, che da allora si chiamò niceno-costantinopolitano recita: «Noi crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti». [10]

Dal Concilio di Calcedonia, nel 451, il Concilio di Costantinopoli fu riconosciuto come ecumenico e il Credo niceno-costantinopolitano venne dichiarato universalmente vincolante. [11] Esso, dunque, costituì un vincolo di unità tra Oriente e Occidente. Nel XVI secolo lo hanno mantenuto anche le Comunità ecclesiali sorte dalla Riforma. Il Credo niceno-costantinopolitano risulta così la professione comune di tutte le tradizioni cristiane.

9. È stato lungo e lineare il cammino che ha portato dalla Sacra Scrittura alla professione di fede di Nicea, poi alla sua ricezione da parte di Costantinopoli e Calcedonia, e ancora fino al XVI e al nostro XXI secolo. Tutti noi, come discepoli di Gesù Cristo, «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» siamo battezzati, facciamo su noi stessi il segno della croce e veniamo benedetti. Concludiamo ogni volta la preghiera dei salmi nella Liturgia delle Ore con «Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo». La liturgia e la vita cristiana sono dunque saldamente ancorate al Credo di Nicea e Costantinopoli: ciò che diciamo con la bocca deve venire dal cuore, così da essere testimoniato nella vita. Dobbiamo quindi chiederci: che ne è della ricezione interiore del Credo oggi? Sentiamo che riguarda anche la nostra situazione odierna? Comprendiamo e viviamo ciò che diciamo ogni domenica, e che cosa significa ciò che diciamo per la nostra vita?

10. Il Credo di Nicea inizia professando la fede in Dio, l’Onnipotente, il Creatore del cielo e della terra. Oggi per molti, Dio e la questione di Dio non hanno quasi più significato nella vita. Il Concilio Vaticano II ha rimarcato che i cristiani sono almeno in parte responsabili di questa situazione, perché non testimoniano la vera fede e nascondono il vero volto di Dio con stili di vita e azioni lontane dal Vangelo. [12] Si sono combattute guerre, si è ucciso, perseguitato e discriminato in nome di Dio. Invece di annunciare un Dio misericordioso, si è parlato di un Dio vendicatore che incute terrore e punisce.

Il Credo di Nicea ci invita allora a un esame di coscienza. Che cosa significa Dio per me e come testimonio la fede in Lui? L’unico e solo Dio è davvero il Signore della vita, oppure ci sono idoli più importanti di Dio e dei suoi comandamenti? Dio è per me il Dio vivente, vicino in ogni situazione, il Padre a cui mi rivolgo con fiducia filiale? È il Creatore a cui devo tutto ciò che sono e che ho, le cui tracce posso trovare in ogni creatura? Sono disposto a condividere i beni della terra, che appartengono a tutti, in modo giusto ed equo? Come tratto il creato, che è opera delle sue mani? Ne faccio uso con riverenza e gratitudine, oppure lo sfrutto, lo distruggo, invece di custodirlo e coltivarlo come casa comune dell’umanità? [13]

11. Al centro del Credo niceno-costantinopolitano campeggia la professione di fede in Gesù Cristo, nostro Signore e Dio. È questo il cuore della nostra vita cristiana. Perciò ci impegniamo a seguire Gesù come Maestro, compagno, fratello e amico. Ma il Credo niceno chiede di più: ci ricorda infatti di non dimenticare che Gesù Cristo è il Signore (Kyrios), il Figlio del Dio vivente, che «per la nostra salvezza discese dal cielo» ed è morto «per noi» sulla croce, aprendoci la strada della vita nuova con la sua risurrezione e ascensione.

Certo, la sequela di Gesù Cristo non è una via larga e comoda, ma questo sentiero, spesso impegnativo o persino doloroso, conduce sempre alla vita e alla salvezza (cfr Mt 7,13-14). Gli Atti degli Apostoli parlano della via nuova (cfr At 19,9.23; 22,4.14-15.22), che è Gesù Cristo (cfr Gv 14,6): seguire il Signore impegna i nostri passi sulla via della croce, che attraverso il pentimento ci conduce alla santificazione e alla divinizzazione. [14]

Se Dio ci ama con tutto sé stesso, allora anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Non possiamo amare Dio che non vediamo, senza amare anche il fratello e la sorella che vediamo (cfr 1Gv 4,20). L’amore per Dio senza l’amore per il prossimo è ipocrisia; l’amore radicale per il prossimo, soprattutto l’amore per i nemici senza l’amore per Dio, è un eroismo che ci sovrasta e opprime. Nella sequela di Gesù, l’ascesa a Dio passa attraverso la discesa e la dedizione ai fratelli e alle sorelle, soprattutto agli ultimi, ai più poveri, agli abbandonati e agli emarginati. Ciò che abbiamo fatto al più piccolo di questi, lo abbiamo fatto a Cristo (cfr Mt 25,31-46). Di fronte alle catastrofi, alle guerre e alla miseria, possiamo testimoniare la misericordia di Dio alle persone che dubitano di Lui solo quando esse sperimentano la sua misericordia attraverso di noi. [15]

12. Infine, il Concilio di Nicea è attuale per il suo altissimo valore ecumenico. A questo proposito, il raggiungimento dell’unità di tutti i cristiani è stato uno degli obiettivi principali dell’ultimo Concilio, il Vaticano II. [16] Esattamente trent’anni fa, San Giovanni Paolo II ha proseguito e promosso il messaggio conciliare nell’Enciclica Ut unum sint (25 maggio 1995). Così, con il grande anniversario del primo Concilio di Nicea, celebriamo anche l’anniversario della prima Enciclica ecumenica. Essa può essere considerata come un manifesto che ha aggiornato quelle stesse basi ecumeniche poste dal Concilio di Nicea.

Il movimento ecumenico, grazie a Dio, ha raggiunto molti risultati negli ultimi sessant’anni. Anche se la piena unità visibile con le Chiese ortodosse e ortodosse orientali e con le Comunità ecclesiali sorte dalla Riforma non ci è ancora stata donata, il dialogo ecumenico ci ha portato, sulla base dell’unico battesimo e del Credo niceno-costantinopolitano, a riconoscere i nostri fratelli e sorelle in Gesù Cristo nei fratelli e sorelle delle altre Chiese e Comunità ecclesiali e a riscoprire l’unica e universale Comunità dei discepoli di Cristo in tutto il mondo. Condividiamo infatti la fede nell’unico e solo Dio, Padre di tutti gli uomini, confessiamo insieme l’unico Signore e vero Figlio di Dio Gesù Cristo e l’unico Spirito Santo, che ci ispira e ci spinge alla piena unità e alla testimonianza comune del Vangelo. Davvero quello che ci unisce è molto più di quello che ci divide! [17] Così, in un mondo diviso e lacerato da molti conflitti, l’unica Comunità cristiana universale può essere segno di pace e strumento di riconciliazione contribuendo in modo decisivo a un impegno mondiale per la pace. San Giovanni Paolo II ci ha ricordato, in particolare, la testimonianza dei tanti martiri cristiani provenienti da tutte le Chiese e Comunità ecclesiali: la loro memoria ci unisce e ci sprona ad essere testimoni e operatori di pace nel mondo.

Per poter svolgere questo ministero in modo credibile, dobbiamo camminare insieme per raggiungere l’unità e la riconciliazione tra tutti i cristiani. Il Credo di Nicea può essere la base e il criterio di riferimento di questo cammino. Ci propone, infatti, un modello di vera unità nella legittima diversità. Unità nella Trinità, Trinità nell’Unità, perché l’unità senza molteplicità è tirannia, la molteplicità senza unità è disgregazione. La dinamica trinitaria non è dualistica, come un escludente aut-aut, bensì un legame coinvolgente, un et–et: lo Spirito Santo è il vincolo di unità che adoriamo insieme al Padre e al Figlio. Dobbiamo dunque lasciarci alle spalle controversie teologiche che hanno perso la loro ragion d’essere per acquisire un pensiero comune e ancor più una preghiera comune allo Spirito Santo, perché ci raduni tutti insieme in un’unica fede e un unico amore.

Questo non significa un ecumenismo di ritorno allo stato precedente le divisioni, né un riconoscimento reciproco dell’attuale status quo della diversità delle Chiese e delle Comunità ecclesiali, ma piuttosto un ecumenismo rivolto al futuro, di riconciliazione sulla via del dialogo, di scambio dei nostri doni e patrimoni spirituali. Il ristabilimento dell’unità tra i cristiani non ci rende più poveri, anzi, ci arricchisce. Come a Nicea, questo intento sarà possibile solo attraverso un paziente, lungo e talvolta difficile cammino di ascolto e accoglienza reciproca. Si tratta di una sfida teologica e, ancor più, di una sfida spirituale, che chiede pentimento e conversione da parte di tutti. Per questo abbiamo bisogno di un ecumenismo spirituale della preghiera, della lode e del culto, come accaduto nel Credo di Nicea e Costantinopoli.

Invochiamo dunque lo Spirito Santo, affinché ci accompagni e ci guidi in quest’opera.

Santo Spirito di Dio, tu guidi i credenti nel cammino della storia.

Ti ringraziamo perché hai ispirato i Simboli della fede e perché susciti nel cuore la gioia di professare la nostra salvezza in Gesù Cristo, Figlio di Dio, consostanziale al Padre. Senza di Lui nulla possiamo.

Tu, Spirito eterno di Dio, di epoca in epoca ringiovanisci la fede della Chiesa. Aiutaci ad approfondirla e a tornare sempre all’essenziale per annunciarla.

Perché la nostra testimonianza nel mondo non sia inerte, vieni, Spirito Santo, con il tuo fuoco di grazia, a ravvivare la nostra fede, ad accenderci di speranza, a infiammarci di carità.

Vieni, divino Consolatore, Tu che sei l’armonia, a unire i cuori e le menti dei credenti. Vieni e donaci di gustare la bellezza della comunione.

Vieni, Amore del Padre e del Figlio, a radunarci nell’unico gregge di Cristo.

Indicaci le vie da percorrere, affinché con la tua sapienza torniamo ad essere ciò che siamo in Cristo: una sola cosa, perché il mondo creda. Amen.

Dal Vaticano, 23 novembre 2025, Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo

LEONE PP. XIV

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[1] Denzinger – Hünermann, Enchiridion Symbolorum, Bologna 2018 (d’ora in poi DH), 30.
[2] Ibid., 125.
[3] Dalle affermazioni di Sant’Atanasio in Contra Arianos I, 9, è chiaro che homooúsios non significa “di uguale sostanza”, ma “della stessa sostanza” con il Padre; non si tratta quindi di uguaglianza di sostanza, ma di identità di sostanza tra Padre e Figlio. La traduzione latina di homooúsios parla quindi giustamente di unius substantiae cum Patre (cfr DH 125).
[4] Contra Arianos I, 38, 7- 39, 1.
[5] Cfr De incarnatione, 54, Contra Arianos I, 39; 42; 45; II, 59ss.
[6] S. Agostino, Confessiones, 1.
[7] S. Tommaso d’Aquino, In Symbolum Apostolorum, a. 12.
[8] S. Basilio, De Spiritu Sancto, 30.
[9] S. Ilario, Contra Arianos, vel Auxentium, 6. Memore delle voci dei Padri, il dotto teologo, poi Cardinale e oggi Santo e Dottore della Chiesa John Henry Newman (1801-1890) indagò su questa disputa e giunse alla conclusione che il Credo di Nicea è stato custodito soprattutto dal sensus fidei del popolo di Dio. Cfr On consulting the Faithful in Matters of Doctrine (1859).
[10] DH 150. L’affermazione “e procede dal Padre e dal Figlio ( Filioque)” non si trova nel testo di Costantinopoli; fu inserita nel Credo latino da Papa Benedetto VIII nel 1014 ed è oggetto del dialogo ortodosso – cattolico.
[11] DH 300.
[12] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 19.
[13] Cfr Francesco, Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 67; 78; 124.
[14] Cfr Id., Esort. ap. Gaudete et exsultate (19 marzo 2018), 92.
[15] Cfr Id., Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 67; 254.
[16] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Unitatis redintegratio, 1.
[17] Cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Ut unum sint (25 maggio 1995), 20.