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giovedì 17 aprile 2025

2025 - LA SETTIMANA SANTA AL CARMINE - Orari e canti

LA SETTIMANA SANTA AL CARMINE


Barcellona Pozzo di Gotto




GIOVEDÌ SANTO

Preghiera del Mattino:                    h. 7.30  (in chiesa)

Preghiera di Mezzogiorno:            h. 12.00 (in chiesa)

Messa della Cena del Signore:  h. 18.00 (in chiesa)

Adorazione eucaristica:                h. 22.00 (in chiesa)



VENERDÌ SANTO

Preghiera del Mattino:                               h. 7.30 (in chiesa)

Preghiera di Mezzogiorno:                       h. 12.00 (in chiesa)

Liturgia della Croce:                                h. 15.30 (in chiesa)

Lectio divina sulle letture della Pasqua: h. 19.00 (in cappella)



SABATO SANTO

Preghiera del Mattino:          h. 7.30 (in chiesa)

Preghiera di Mezzogiorno:  h. 12.00 (in chiesa)

Preghiera della Sera:           h. 18.30 (in chiesa)

Veglia Pasquale:                h. 22.30 (in chiesa)




FOGLIO DEI CANTI

CANTI GIOVEDÌ SANTO (pdf)

CANTI VENERDÌ SANTO (pdf)

CANTI NOTTE DI PASQUA  (pdf)

CANTI PASQUA (pdf)




S. MESSE NEI MERCOLEDÌ SOLENNI
DA PASQUA A PENTECOSTE


Mattino:         h. 7.30
Pomeriggio: h. 17.00
                     h. 19.00

Enzo Bianchi: Il Giovedì Santo

Enzo Bianchi
Il Giovedì Santo


Con il tramonto del giovedì santo ha inizio il triduo pasquale, quei giorni “santi”, distinti dagli altri, in cui noi cristiani meditiamo, celebriamo, riviviamo il mistero centrale della nostra fede: Gesù entra nella sua passione, conosce la morte e la sepoltura e il terzo giorno è risuscitato dal Padre nella forza di vita che è lo Spirito santo. Ma questo evento della passione di Gesù era dovuto al caso o a un destino che incombeva su Gesù? Perché Gesù ha conosciuto una condanna, la tortura e la morte violenta? Sono domande cui si deve dare una risposta se si vuole cogliere e conoscere in profondità il senso della passione. Ma sono gli stessi Vangeli che vogliono fornirci questa risposta testimoniando gli eventi di quei giorni pasquali dell’anno 30 della nostra era. Infatti Gesù, proprio per manifestare ai discepoli che entrava nella passione assumendola come un atto, non costretto dal fato e neppure per la casualità di eventi a lui sfavorevoli, anticipa con un mimo, con un gesto simbolico quello che gli sta per succedere e ne svela così il significato. Nella libertà, dunque, Gesù accetta quella fine che va profilandosi: avrebbe potuto fuggire, avrebbe potuto evitare di affrontare quella prova e, certo, ha chiesto al Padre se non fosse possibile questo, ma se Gesù voleva dimorare nella giustizia, se voleva collocarsi dalla parte dei giusti che in un mondo ingiusto sono sempre osteggiati e perseguitati, se voleva restare nella solidarietà con le vittime, gli agnelli della storia, allora doveva accettare quella condanna e quella morte. Sì, liberamente l’ha accettata perché fosse fatta la volontà del Padre: non che il Padre volesse la sua morte, ma la volontà del Padre chiedeva che Gesù restasse nella giustizia, nella carità, nella solidarietà con le vittime.

Ma questa libertà di Gesù era nutrita e accompagnata anche dall’amore: amore per il Padre, certo, ma anche per la verità e la giustizia, amore per noi uomini. Sì, proprio perché fosse manifesto che Gesù deponeva la sua vita liberamente e per amore – non costretto dal destino né da circostanze fortuite – Gesù anticipa con il segno quello che sta per accadergli. A tavola con i suoi discepoli, Gesù compie sul pane e sul vino delle azioni accompagnate dalle sue parole: il suo corpo è spezzato e dato per gli uomini, il suo sangue è versato e dato per tutti. E il segno della sua morte imminente, il sacramento del rendimento di grazie è l’eucaristia che i cristiani dovranno celebrare in memoria di Gesù per essere essi pure coinvolti in quel gesto che è dare la vita per i fratelli, per gli altri: alla fine di quell’azione Gesù esclama “Fate questo in memoria di me!”. Fino al suo ritorno, per tutto il tempo in cui i cristiani vivono nel mondo tra la morte-risurrezione di Gesù e la sua venuta nella gloria, è nella celebrazione di quel gesto del loro Maestro e Signore che i cristiani saranno plasmati come discepoli, parteciperanno alla vita stessa di Cristo, conosceranno che lui, il Signore, è con loro fino alla fine della storia.

Il giovedì santo non può dunque non celebrare questo evento anticipatore della passione di Gesù, narrazione del suo esodo da questo mondo al Padre. Ma la chiesa, significativamente, nella liturgia del giovedì santo sera, oltre a ricordare e vivere questo gesto del suo Signore come in ogni eucaristia, vive e ripete anche un altro gesto di Gesù, quello della lavanda dei piedi. Anche il quarto Vangelo, infatti, ricorda “l’ultima cena di Gesù con i suoi”, quella cena in cui fu svelato il traditore e annunciato il rinnegamento di Pietro e la fuga di tutti gli altri discepoli, quella cena vissuta in occasione dell’ultima pasqua di Gesù a Gerusalemme prima della sua morte. Però, anziché narrare il segno del pane e del vino, Giovanni narra il segno della lavanda! Perché un’azione “altra”, un segno “altro”? Eppure anche il quarto evangelista conosce il racconto dell’eucaristia, la chiesa ormai da decenni celebra questo sacramento. Perché allora la memoria di quest’altro segno?

Possiamo ritenere molto probabile che questa scelta del quarto Vangelo sia motivata da un’urgenza avvertita nella chiesa alla fine del I secolo: la celebrazione eucaristica non può essere un rito disgiunto da una prassi coerente di agape, di amore e servizio ai fratelli, poiché proprio questo è il suo significato: dare la vita per i fratelli! L’evangelista vuole così riattualizzare il messaggio dell’eucaristia ricordando che o essa è servizio reciproco, dono della vita per l’altro, amore fino all’estremo, oppure è solo un rito che appartiene alla “scena” di questo mondo. Potremmo dire che l’intenzione di Giovanni è che il sacramento dell’altare sia letto e vissuto sempre come sacramento del fratello: celebrazione eucaristica con il pane spezzato e il vino offerto e servizio concreto, quotidiano al fratello si richiamano reciprocamente come due facce della partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Ecco allora il gesto di Gesù narrato lentamente, quasi al rallentatore, affinché resti ben impresso nella mente del discepolo di ogni tempo: Gesù depone la veste, prende un asciugamano, se lo cinge ai fianchi, verso l’acqua nel catino, lava i piedi, li asciuga, riprende la veste… Sono verbi di azione che rendono plasticamente l’evento della lavanda. E’ un gesto che Gesù compie in piena consapevolezza: Gesù, il Kyrios, il Signore, lava i piedi ai discepoli. Gesto anomalo, gesto paradossale che capovolge i ruoli, gesto scandaloso, come testimonia la reazione di Pietro! Eppure, proprio così Gesù racconta, “evangelizza” Dio, nel senso che rende Dio “buona notizia” per noi.

Due azioni diverse, due mimi sacramentali, due segni che narrano la stessa realtà: Gesù offre la sua vita e, liberamente e per amore, va verso la propria morte facendosi schiavo. Per questo, come al gesto eucaristico, così anche al gesto della lavanda fa seguito il comando: “Come io ho lavato i piedi a voi, così fate anche voi”. E la chiesa, se vuole essere chiesa del Signore, così deve fare in obbedienza al suo mandato: spezzare il pane, offrire il vino, lavare i piedi nell’assemblea dei credenti e nella storia degli uomini.

mercoledì 16 aprile 2025

Papa Francesco: «Il Vangelo vuole consegnarci un messaggio di speranza, perché ci dice che dovunque ci siamo persi, in qualunque modo ci siamo persi, Dio viene sempre a cercarci!» Catechesi Udienza 16/04/2025

È stata pubblicata dalla Sala Stampa della Santa Sede la catechesi di Papa Francesco preparata per l'udienza generale che si sarebbe dovuta svolgere mercoledì 16 aprile, annullata data la convalescenza del Pontefice a Casa Santa Marta, dopo il ricovero di oltre un mese al Policlinico Gemelli. Di seguito il testo dedicato alla parabola del figlio prodigo, tratta dal Vangelo di Luca.

CATECHESI DEL SANTO PADRE
PREPARATA PER L'UDIENZA GENERALE DEL 16 APRILE 2025

Mercoledì, 16 aprile 2025



Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. II. La vita di Gesù. Le parabole. 5. Il Padre misericordioso. Era perduto ed è stato ritrovato (Lc 15,32)

Cari fratelli e sorelle,

dopo aver meditato sugli incontri di Gesù con alcuni personaggi del Vangelo, vorrei fermarmi, a cominciare da questa catechesi, su alcune parabole. Come sappiamo, sono racconti che riprendono immagini e situazioni della realtà quotidiana. Per questo toccano anche la nostra vita. Ci provocano. E ci chiedono di prendere posizione: dove sono io in questo racconto?

Partiamo dalla parabola più famosa, quella che tutti noi ricordiamo forse da quando eravamo piccoli: la parabola del padre e dei due figli (Lc 15,1-3.11-32). In essa troviamo il cuore del Vangelo di Gesù, cioè la misericordia di Dio.


L’evangelista Luca dice che Gesù racconta questa parabola per i farisei e gli scribi, i quali mormoravano per il fatto che Lui mangiava con i peccatori. Per questo si potrebbe dire che è una parabola rivolta a coloro che si sono persi, ma non lo sanno e giudicano gli altri.

Il Vangelo vuole consegnarci un messaggio di speranza, perché ci dice che dovunque ci siamo persi, in qualunque modo ci siamo persi, Dio viene sempre a cercarci! Ci siamo persi forse come una pecora, uscita dal sentiero per brucare l’erba, o rimasta indietro per la stanchezza (cfr Lc 15,4-7). O forse ci siamo persi come una moneta, che magari è caduta per terra e non si trova più, oppure qualcuno l’ha messa da qualche parte e non ricorda dove. Oppure ci siamo persi come i due figli di questo padre: il più giovane perché si è stancato di stare dentro una relazione che sentiva come troppo esigente; ma anche il maggiore si è perso, perché non basta rimanere a casa se nel cuore ci sono orgoglio e rancore.

L’amore è sempre un impegno, c’è sempre qualcosa che dobbiamo perdere per andare incontro all’altro. Ma il figlio minore della parabola pensa solo a se stesso, come accade in certe fasi dell’infanzia e dell’adolescenza. In realtà, intorno a noi vediamo anche tanti adulti così, che non riescono a portare avanti una relazione perché sono egoisti. Si illudono di ritrovare se stessi e invece si perdono, perché solo quando viviamo per qualcuno viviamo veramente.

Questo figlio più giovane, come tutti noi, ha fame di affetto, vuole essere voluto bene. Ma l’amore è un dono prezioso, va trattato con cura. Egli invece lo sperpera, si svende, non si rispetta. Se ne accorge nei tempi di carestia, quando nessuno si cura di lui. Il rischio è che in quei momenti ci mettiamo a elemosinare l’affetto e ci attacchiamo al primo padrone che capita.

Sono queste esperienze che fanno nascere dentro di noi la convinzione distorta di poter stare in una relazione solo da servi, come se dovessimo espiare una colpa o come se non potesse esistere l’amore vero. Il figlio minore, infatti, quando ha toccato il fondo, pensa di tornare a casa del padre per raccogliere da terra qualche briciola d’affetto.

Solo chi ci vuole veramente bene può liberarci da questa visione falsa dell’amore.
Nella relazione con Dio facciamo proprio questa esperienza. Il grande pittore Rembrandt, in un famoso dipinto, ha rappresentato in maniera meravigliosa il ritorno del figlio prodigo. Mi colpiscono soprattutto due particolari: la testa del giovane è rasata, come quella di un penitente, ma sembra anche la testa di un bambino, perché questo figlio sta nascendo di nuovo. E poi le mani del padre: una maschile e l’altra femminile, per descrivere la forza e la tenerezza nell’abbraccio del perdono.


Ma è il figlio maggiore che rappresenta coloro per i quali la parabola viene raccontata: è il figlio che è sempre rimasto a casa con il padre, eppure era distante da lui, distante nel cuore. Questo figlio forse avrebbe voluto andarsene anche lui, ma per timore o per dovere è rimasto lì, in quella relazione. Quando però ti adatti contro voglia, cominci a covare rabbia dentro di te, e prima o poi questa rabbia esplode. Paradossalmente, è proprio il figlio maggiore che alla fine rischia di rimanere fuori di casa, perché non condivide la gioia del padre.

Il padre esce anche incontro a lui. Non lo rimprovera e non lo richiama al dovere. Vuole solo che senta il suo amore. Lo invita a entrare e lascia la porta aperta. Quella porta rimane aperta anche per noi. È questo, infatti, il motivo della speranza: possiamo sperare perché sappiamo che il Padre ci aspetta, ci vede da lontano, e lascia sempre la porta aperta.


Cari fratelli e sorelle, chiediamoci allora dove siamo noi in questo meraviglioso racconto. E chiediamo a Dio Padre la grazia di poter ritrovare anche noi la strada per tornare verso casa.


Sudan, l’inferno dimenticato di Gaia Giletta

Sudan, l’inferno dimenticato 
di Gaia Giletta*


Gaza, una pausa nella mia Torino, e poi il Darfur, in Sudan. In quest’ordine ho vissuto i miei ultimi mesi come infermiera di Medici Senza Frontiere (Msf). Gaza è una striscia di terra chiusa e soffocante, dove i rumori della guerra e le urla di dolore risuonano più intensamente, mentre in Sudan il fragore della sofferenza si disperde in un territorio grande sei volte l’Italia. La frustrazione è immensa. In Sudan si combatte da due anni, oggi è l’anniversario dello scoppio della guerra, ma il mondo resta sordo. E, quindi, anche muto.

A Gaza la popolazione è ammassata in una striscia di terra da cui non può uscire, dal Sudan invece si fugge, all’interno come all’esterno del Paese, verso il Ciad, l’Etiopia, il Sud Sudan. I campi per persone sfollate sono svariati, il più grande si trova in Darfur, a Zamzam, in questi giorni sotto attacco delle Forze di Supporto Rapido. Questi campi sono la prefigurazione di quel che potrebbe succedere anche a Gaza se gli spostamenti lungo i confini fossero consentiti. La crisi di sfollati causata dalla guerra in Sudan è allarmante, ma non se ne parla, come se ci fosse umanamente estranea e si consumasse su un altro pianeta. Ci sono quasi 13 milioni di persone sfollate, la maggior parte di loro non ha accesso al cibo per sopravvivere e all’assistenza sanitaria. Tra le tende si muore di stenti.

Sono appena rientrata dal Sudan, dove ho lavorato per otto settimane, come specialista in malnutrizione, cominciando da El Geneina, nel Darfur orientale. Sono pronta a ripartire per una nuova missione. Laggiù, avrei dovuto spostarmi a Khartoum, nell’ospedale di Msf per coordinare un programma di malnutrizione. Purtroppo, a Khartoum non sono mai riuscita ad arrivare: è inaccessibile.

Col team siamo però riusciti a inviare medicinali e altri beni essenziali per supportare i colleghi sul posto. Spesso le videochiamate con i colleghi erano interrotte dai bombardamenti, dovevano correre al riparo o prepararci ad accogliere con urgenza centinaia di feriti. Avrei voluto fare molto di più per aiutarli. Ho convissuto con un grande senso di frustrazione, abbiamo potuto fare solo quel che ci veniva concesso, eppure sentivo che non bastava, i bisogni della popolazione sono esorbitanti.

Con le cliniche mobili nel Darfur orientale curiamo circa 500 bambini malnutriti a settimana. 
Gli afflussi di feriti in ospedale, dopo gli attacchi indiscriminati contro la popolazione, sono continui, si vedono arrivare anche 100 persone al giorno in condizioni gravi. Tanti di questi attacchi avvengono vicino agli ospedali, anche a meno di 100 metri, e spesso sono direzionati proprio verso le strutture e lo staff sanitario. Non c’è alcun rispetto per la vita umana.

La conseguenza di questi attacchi è stata drastica: tante organizzazioni umanitarie hanno lasciato il Sudan, anche Msf ha dovuto sospendere più volte le attività in alcuni punti del Paese, come è successo a metà gennaio per l’ospedale Bashair Teaching di Khartoum. Curare i pazienti diventa un rischio per la vita degli operatori: in Sudan, come a Gaza, è saltata ogni regola, lo stato d’eccezione della guerra non ha risparmiato neppure gli ospedali. Il Sudan è un deserto umanitario che singhiozza nell’indifferenza del mondo, anche di fronte al bombardamento di un mercato, i cui bersagli sono stati solo civili affamati e inermi.

* Infermiera specialista in malnutrizione di Medici Senza Frontiere

(Fonte: “La Stampa” - 15 aprile 2025)

martedì 15 aprile 2025

Il rischio dell’indifferenza di Tonio Dell'olio

Il rischio dell’indifferenza  
di Tonio Dell'olio


Si elevi una preghiera dall’umanità tutta verso il cielo affinché non degradiamo nell’indifferenza. 
La strage delle Palme a Sumy in Ucraina e il bombardamento dell’ultimo ospedale di Gaza City hanno avuto un trattamento diverso tanto dalla politica quanto dall’informazione. Indignazione per la prima e un mezzo silenzio per il secondo. Non credo ci sia solo un calcolo politico di schieramenti e di convenienza ma che piuttosto prevalga una sorta di callo a ciò che appare come inarrestabile e sacrificato ormai alla potenza di fuoco “dell’unica democrazia del Medio Oriente”. 
L’indignazione sbiadisce, sfuma, degrada e arriva ad ammettere – oltre ogni computo consapevole – un grado di sofferenza accettabile da infliggere. È il ritorno della guerra. Ma non quella combattuta tra i cavalieri o nelle trincee! È piuttosto quella moderna che si abbatte sulla gente nella vita ordinaria di una festa da celebrare in chiesa o di una malattia da curare in ospedale. 
Dovrebbe spaventarci perché si tratta di una deriva antropologica in cui il dolore dell’altro ci lascia indifferenti, sembra non riguardarci. Succede così persino col terremoto in Myanmar. Sembra essere avvenuto vent’anni fa e invece le ferite sono aperte e sanguinano. È urgente correre ai ripari e ritornare alla solidarietà del sapersi tutte sorelle e fratelli sotto lo stesso cielo, sopra la stessa terra.

(Fonte: Mosaico dei giorni - 14 aprile 2025)

Papa Francesco: Gesù non ha timore di avvicinarsi al peccatore, anche il più imperterrito

Papa Francesco:
Gesù non ha timore
di avvicinarsi al peccatore,
anche il più imperterrito

È in libreria il nuovo volume del padre gesuita statunitense James Martin dal titolo «Lazzaro, vieni fuori!» (Libreria Editrice Vaticana) con prefazione di Papa Francesco. “In queste pagine - scrive il Pontefice - si scorge una verità del cristianesimo sempre attuale e feconda … Gesù non ha solo parlato di vita eterna, l’ha donata”

PAPA FRANCESCO
Dobbiamo essere molto grati a padre James Martin, di cui conosco e apprezzo anche altri scritti, per questo suo nuovo libro dedicato a quello che egli definisce «il più grande miracolo di Gesù»: la vicenda della resurrezione di Lazzaro. I motivi per cui essergli riconoscenti sono diversi, strettamente collegati al modo in cui ha scritto questo testo brillante, appassionante e mai scontato.

Anzitutto, padre James fa parlare il testo biblico: lo esamina con lo sguardo e lo studio di diversi autori che hanno analizzato in profondità questa pagina biblica, cogliendone i vari aspetti, le diverse sottolineature, le differenti interpretazioni. Ma questo studio è sempre “amorevole”, mai distaccato né freddamente scientifico: è lo sguardo di chi è innamorato di quella che è la Parola di Dio, il racconto dei gesti del Figlio di Dio, Gesù. Leggere tutte le argomentazioni e le disamine degli studiosi di Bibbia che padre Martin riporta mi ha interrogato su quanto riusciamo ad avvicinare la Scrittura con la “fame” di chi sa che quella parola è veramente ed effettivamente Parola di Dio.

Che Dio “parli” dovrebbe farci sobbalzare sulla sedia ogni giorno. Perché davvero la Bibbia è il nutrimento di cui abbiamo bisogno per affrontare la nostra vita, rappresenta la “lettera d’amore” che Dio ha fatto arrivare, da secoli, agli uomini e alle donne di ogni tempo e di ogni luogo. Custodire la Parola, amare la Bibbia, portarla ogni giorno con noi con un piccolo Vangelo in tasca, magari anche cercarla sul nostro telefonino quando abbiamo un incontro importante, un appuntamento delicato, un momento di sconforto... tutto questo ci farà cogliere quanto la Scrittura sia un corpo vivo, un libro aperto, una testimonianza pulsante di un Dio che non è morto sepolto negli scaffali impolverati della storia, ma cammina con noi sempre, anche oggi. Anche per te che adesso apri questo libro incuriosito dal racconto di una storia che tanti conoscono, ma che pochi hanno compreso nella sua profonda e completa significanza.

Inoltre, in queste pagine si scorge una verità del cristianesimo sempre attuale e feconda: il Vangelo è eterno e concreto, riguarda il nostro intimo e la nostra vita interiore così come la storia e la vita quotidiana. Gesù non ha solo parlato di vita eterna, l’ha donata. Non ha solo detto «Io sono la resurrezione», ha anche fatto risorgere Lazzaro, morto da tre giorni. La fede cristiana è la compenetrazione sempre attuale dell’eterno e del contingente, del cielo e della terra, del divino e dell’umano. Mai l’uno senza l’altro. Se fosse solo “terreno”, che cosa lo distinguerebbe da una buona filosofia, da un’ideologia strutturata, da un pensiero articolato che resta solamente tale, da una teoria che resta distaccata dal tempo e dalla storia? E se il cristianesimo riguardasse solo il “dopo”, unicamente l’eternità, questo sarebbe il tradimento della scelta che Dio ha compiuto, una volta per tutte, compromettendosi con l’umanità intera. Il Signore non si è incarnato per finta, ma ha scelto di entrare nella storia dell’uomo perché la storia degli uomini e delle donne possa configurarsi come il Regno di Dio, il tempo e il luogo nei quali la pace germoglia, la speranza si sostanzia e l’amore fa vivere.

Lazzaro, infine, siamo tutti noi. Padre Martin, sotto questo aspetto aderente alla tradizione ignaziana, ci fa immedesimare nella vicenda di questo amico di Gesù. Siamo anche noi suoi amici, siamo anche noi, talvolta, “morti” per il nostro peccato, le nostre mancanze e infedeltà, lo scoraggiamento che ci avvilisce e ci annienta l’anima. Ma Gesù non ha paura di venirci vicino, anche quando “puzziamo” come un morto sepolto da tre giorni. No, Gesù non ha paura della nostra morte né del nostro peccato. Lui si ferma solo davanti alla porta chiusa del nostro cuore, quella porta che si apre solo dall’interno e che noi chiudiamo a doppia mandata quando pensiamo che Dio non possa più perdonarci. E invece, leggendo la dettagliata analisi di James Martin, si tocca con mano il significato profondo del gesto di Gesù di fronte a un morto “morto”, che emana cattivo odore, metafora della putrefazione interiore che il peccato genera nella nostra anima. Gesù non ha timore di avvicinarsi al peccatore, a nessun peccatore, anche il più imperterrito e sfacciato. Lui ha solo una preoccupazione: che nessuno si perda, che nessuno perda la possibilità di sentire l’abbraccio amoroso di suo Padre. Uno scrittore americano, deceduto nel 2023, ha lasciato una mirabile descrizione di quello che è “il lavoro di Dio”. Cormac McCarthy, romanziere, in un suo libro ha fatto parlare così un suo personaggio: «Disse che credeva in Dio anche se dubitava della pretesa umana di conoscere i pensieri di Dio. Ma un Dio incapace di perdonare non sarebbe nemmeno stato Dio». Sì, davvero è così: il mestiere di Dio è perdonare.

Infine, le pagine di padre James Martin mi hanno fatto tornare alla mente una frase di uno studioso della Bibbia italiano, Alberto Maggi, il quale, parlando del testo del miracolo di Lazzaro, ha così commentato: «Con questo miracolo Gesù ci ha insegnato non tanto che i morti risorgono, ma che i vivi non muoiono!». Che bella definizione piena di paradosso! Certo che i morti risorgono, ma che verità ricordarci che noi, i vivi, non moriamo! Certamente la morte arriva, la morte ci colpisce, non solo la nostra, ma soprattutto quella dei nostri cari e dei nostri famigliari, di tutte le persone: quanta morte vediamo intorno a noi, ingiusta e dolorosa, perché causata dalle guerre, dalla violenza e dalla prevaricazione di Caino su Abele. Ma l’uomo e la donna sono destinati all’eternità.

Tutti noi lo siamo. Siamo una semiretta, per usare un’immagine geometrica: abbiamo un punto d’inizio, la nostra nascita umana, ma la nostra vita è votata all’infinito. Sì, davvero all’Infinito. E quella che la Scrittura chiama «vita eterna» è quella vita che ci aspetta dopo la morte e che già qui possiamo toccare con mano quando la viviamo non nell’egoismo che ci intristisce, ma nell’amore che ci dilata il cuore. Siamo fatti per l’eternità. Lazzaro, grazie a queste pagine di padre Martin, è nostro amico. E la sua risurrezione ce lo ricorda e attesta.

Città del Vaticano, 11 marzo 2024

(Fonte: Vatican news)

lunedì 14 aprile 2025

PAPA FRANCESCO: Tutti abbiamo dolori, fisici o morali, e la fede ci aiuta a non cedere alla disperazione, non chiuderci nell’amarezza, ma ad affrontarli sentendoci avvolti, come Gesù, dall’abbraccio provvidente e misericordioso del Padre.

PAPA FRANCESCO:  
Tutti abbiamo dolori, fisici o morali, 
e la fede ci aiuta a non cedere alla disperazione, 
non chiuderci nell’amarezza,
ma ad affrontarli sentendoci avvolti, come Gesù, 
dall’abbraccio provvidente e misericordioso del Padre.

Testo Preparato da Papa Francesco
per l'Angelus - Domenica delle Palme -
13 marzo 2025



Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, Domenica delle Palme, nel Vangelo abbiamo ascoltato il racconto della Passione del Signore secondo Luca (cfr Lc 22,14-23,56). Abbiamo sentito Gesù rivolgersi più volte al Padre: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (22,42); «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (23,34); «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (23,46). Indifeso e umiliato, l’abbiamo visto camminare verso la croce con i sentimenti e il cuore di un bambino aggrappato al collo del suo papà, fragile nella carne, ma forte nell’abbandono fiducioso, fino ad addormentarsi, nella morte, tra le sue braccia.

Sono sentimenti che la liturgia ci chiama a contemplare e a fare nostri. Tutti abbiamo dolori, fisici o morali, e la fede ci aiuta a non cedere alla disperazione, non chiuderci nell’amarezza, ma ad affrontarli sentendoci avvolti, come Gesù, dall’abbraccio provvidente e misericordioso del Padre.

Sorelle e fratelli, vi ringrazio tanto per le vostre preghiere. In questo momento di debolezza fisica mi aiutano a sentire ancora di più la vicinanza, la compassione e la tenerezza di Dio. Anch’io prego per voi, e vi chiedo di affidare con me al Signore tutti i sofferenti, specialmente chi è colpito dalla guerra, dalla povertà o dai disastri naturali. In particolare, Dio accolga nella sua pace le vittime del crollo di un locale a Santo Domingo, e conforti i loro familiari.

Il 15 aprile ricorrerà il secondo triste anniversario dell’inizio del conflitto in Sudan, con migliaia di morti e milioni di famiglie costrette ad abbandonare le proprie case. La sofferenza dei bambini, delle donne e delle persone vulnerabili grida al cielo e ci implora di agire. Rinnovo il mio appello alle parti coinvolte, affinché pongano fine alle violenze e intraprendano percorsi di dialogo, e alla Comunità internazionale, perché non manchino gli aiuti essenziali alle popolazioni.

E ricordiamo anche il Libano, dove cinquant’anni fa cominciò la tragica guerra civile: con l’aiuto di Dio possa vivere in pace e prosperità.

Venga finalmente la pace nella martoriata Ucraina, in Palestina, Israele, Repubblica Democratica del Congo, Myanmar, Sud Sudan. Maria, Madre Addolorata, ci ottenga questa grazia e ci aiuti a vivere con fede la Settimana Santa.

domenica 13 aprile 2025

Papa Francesco: Gesù viene incontro a tutti, in qualsiasi situazione - Omelia Domenica delle Palme 2025 (Testo e video)

Papa Francesco:
Gesù viene incontro a tutti,
in qualsiasi situazione
Omelia Domenica delle Palme 2025
(Testo e video)


OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
LETTA DA CARDINALE LEONARDO SANDRI

«Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore» (Lc 19,38). È così che la folla acclama Gesù, mentre entra in Gerusalemme. Il Messia passa dalla porta della città santa, spalancata per accogliere Colui che pochi giorni dopo ne uscirà maledetto e condannato, carico della croce.

Oggi anche noi abbiamo seguito Gesù, prima con un corteo festoso e poi su una via dolorosa, inaugurando la Settimana Santa che ci prepara a celebrare la passione, morte e risurrezione del Signore.

Mentre guardiamo, tra la folla, i volti dei soldati e le lacrime delle donne, la nostra attenzione viene attirata da uno sconosciuto, il cui nome entra nel Vangelo all’improvviso: Simone di Cirene. Quest’uomo viene preso dai soldati, che «gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù» (Lc 23,26). Arrivava in quel momento dalla campagna, passava di là, e si è imbattuto in una vicenda che lo travolge, come il pesante legno sulle sue spalle.

Mentre siamo in cammino verso il Calvario, riflettiamo un momento sul gesto di Simone, cerchiamo il suo cuore, seguiamo il suo passo accanto a Gesù.

Anzitutto il suo gesto, che è così ambivalente. Da un lato, infatti, il Cireneo viene obbligato a portare la croce: non aiuta Gesù per convinzione, ma per costrizione. Dall’altro, egli si trova a partecipare in prima persona alla passione del Signore. La croce di Gesù diventa la croce di Simone. Non però di quel Simone detto Pietro che aveva promesso di seguire sempre il Maestro. Quel Simone è scomparso nella notte del tradimento, dopo aver proclamato: «Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte» (Lc 22,33). Dietro a Gesù non cammina ora il discepolo, ma questo cireneo. Eppure il Maestro aveva insegnato chiaramente: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23). Simone di Galilea dice, ma non fa. Simone di Cirene fa, ma non dice: tra lui e Gesù non c’è alcun dialogo, non viene pronunciata una parola. Tra lui e Gesù c’è solo il legno della croce.

Per sapere se il Cireneo ha soccorso o detestato l’esausto Gesù, col quale deve spartire la pena, per capire se porta o sopporta la croce, dobbiamo guardare al suo cuore. Mentre sta per aprirsi il cuore di Dio, trafitto da un dolore che rivela la sua misericordia, il cuore dell’uomo resta chiuso. Non sappiamo cosa abiti nel cuore del Cireneo. Mettiamoci nei suoi panni: sentiamo rabbia o pietà, tristezza o fastidio? Se ricordiamo che cosa ha fatto Simone per Gesù, ricordiamo pure che cosa ha fatto Gesù per Simone – come per me, per te, per ognuno di noi –: ha redento il mondo. La croce di legno, che il Cireneo sopporta, è quella di Cristo, che porta il peccato di tutti gli uomini. Lo porta per amore nostro, in obbedienza al Padre (cfr Lc 22,42), soffrendo con noi e per noi. È proprio questo il modo, inatteso e sconvolgente, col quale il Cireneo viene coinvolto nella storia della salvezza, dove nessuno è straniero, nessuno è estraneo.

Seguiamo allora il passo di Simone, perché ci insegna che Gesù viene incontro a tutti, in qualsiasi situazione. Quando vediamo la moltitudine di uomini e donne che odio e violenza gettano sulla via del Calvario, ricordiamoci che Dio trasforma questa via in luogo di redenzione, perché l’ha percorsa dando la sua vita per noi. Quanti cirenei portano la croce di Cristo! Li riconosciamo? Vediamo il Signore nei loro volti, straziati dalla guerra e dalla miseria? Davanti all’atroce ingiustizia del male, portare la croce di Cristo non è mai vano, anzi, è la maniera più concreta di condividere il suo amore salvifico.

La passione di Gesù diventa compassione quando tendiamo la mano a chi non ce la fa più, quando solleviamo chi è caduto, quando abbracciamo chi è sconfortato. Fratelli, sorelle, per sperimentare questo grande miracolo della misericordia, scegliamo lungo la Settimana Santa come portare la croce: non al collo, ma nel cuore. Non solo la nostra, ma anche quella di chi soffre accanto a noi; magari di quella persona sconosciuta che il caso – ma è proprio un caso? – ci ha fatto incontrare. Prepariamoci alla Pasqua del Signore diventando cirenei gli uni per gli altri.

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Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - DOMENICA DELLE PALME - ANNO C

Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli


Domenica delle Palme: Passione del Signore

 

Per chi presiede

Fratelli e sorelle, Gerusalemme è la città che ci attende, la città dove Dio vuole abitare, perché è la città della vera fraternità, della convivialità tra popoli diversi. Da veri discepoli del Signore, sentiamoci abitatori di questa città, invocando Dio Padre misericordioso per la salvezza di tutti gli uomini. Preghiamo insieme e diciamo:              

R. Per la passione del tuo Figlio, ascoltaci, o Padre

 

Lettore

- Per tutto il popolo cristiano in cammino con Gesù verso la città della fraternità e della pace, perché non si lasci sedurre da altri signori e non faccia proprie le logiche del disprezzo, del respingimento e della negazione degli altri. Preghiamo.

 - Per le nostre comunità parrocchiali e religiose, la celebrazione della Settimana Santa diventi un’occasione propizia per meditare la Passione del Signore e interiorizzare il suo amore appassionato per l’umanità, e in particolare per coloro che sperimentano il fallimento della vita. Preghiamo.

 - Per tutte le grandi religioni, perché, lasciandosi guidare dalla forza dello Spirito, diventino in mezzo ai popoli un fattore di comprensione e di tolleranza reciproca. Preghiamo.

 - Per i governanti delle Nazioni, e in particolare della Russia e dell’Ucraìna, di Israele e della Palestina e dell’intero Medioriente, perché il Signore ispiri pensieri, parole e progetti di pace. Preghiamo.

 - Per coloro che governano il nostro Paese e amministrano le nostre città, perché siano attenti ai poveri, al bene comune e al bene delle nuove generazioni. Preghiamo.

 - Per le nostre famiglie, perché la ricorrenza della Pasqua susciti in tutti il desiderio di una vita nuova, segnata dalla riconciliazione, dal dialogo e dalla comprensione reciproca. Preghiamo.

- Per tutti noi, che ci prepariamo a celebrare la Pasqua del Signore, perché segni un vero passaggio, un vero salto di qualità nella nostra vita di credenti e di cittadini. Preghiamo.


Per chi presiede

Ascolta, o Padre, le nostre preghiere. Rendici capaci di saper camminare con Gesù nella via della Croce, nella via del dono e dell’amore, e così partecipare alla sua Risurrezione. Te lo chiediamo perché Lui è nostro Signore e Fratello, vivente nei secoli dei secoli. AMEN.


E L'ASINO? - Domenica delle Palme 2025 - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Ronchi

E L'ASINO?
Domenica delle Palme
13 aprile 2025
Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Ronchi


Racconto della Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca

Lc 22,14-23,56

E L'ASINO?

Quando facciamo fatica, quando non abbiamo più voglia, pensiamo all’asino del corteo delle Palme, forse siamo come quella creatura i più vicini a Cristo: stiamo portando lui e il peso del vangelo.

Il racconto della passione e morte di Gesù è la lettura più bella e regale che si possa fare. La croce è l’immagine più pura e alta che Dio ha dato di se stesso. «Per sapere chi sia Dio devo solo inginocchiarmi ai piedi della Croce» (Karl Rahner).

Mentre stiamo per ripercorre i giorni supremi della nostra storia, il primo brano del vangelo che ci viene incontro riferisce la festa che circonda Gesù mentre scende dal Monte degli Ulivi e si avvia verso Gerusalemme, a dorso d’asino.

Ad ogni ritorno della settimana santa riemerge dalla memoria un dialogo di molti anni fa con un monaco trappista dell’abbazia di Orval, in Belgio. Un giorno, mentre lo aiutavo nel suo lavoro, ad un certo punto gli chiesi: «Mi permetta una domanda, padre: le è mai successo di stancarsi di Dio? Di averne abbastanza della comunità, dei voti, delle esigenze del vangelo? Le è mai successo? A me, sì. Cosa possiamo fare quando ci si stanca di Dio?». Pensavo che mi avrebbe risposto qualcosa tipo: quanto sei indietro nella fede! Come è possibile stancarsi di Dio? O con una delle tante frasi fatte che ho ascoltato sulla bocca di tanti...

Lui invece mi guardò con occhi profondi e dolci, e cominciò a parlarmi di san Bernardo e di un suo commento al vangelo dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Ricordo solo l’essenziale, ed era questo: «nel giorno che noi chiamiamo delle palme, nel corteo che accompagna Gesù giù dal Monte degli Ulivi, c’è chi canta, chi applaude, chi fa ala e stende i mantelli, chi agita rami di palma, un giardino che cammina. Alcuni sono più vicini a Gesù, camminano al suo fianco, altri sono più indietro e lontani. Aria di festa per tutti..., ma c’è un personaggio che non partecipa a quell’atmosfera gioiosa, una creatura che fa più fatica di tutti, doppia fatica, e si stanca: è l’asino su cui è seduto Gesù, con il suo puledro, che sente tutto il peso di quella strada ripida, sotto la soma di quell’uomo sconosciuto che trasporta; eppure non si ferma, continua a salire. L’asino è quello che fa fatica più di tutti, ma è anche il più vicino a Gesù. Ne sente il calore, e la vicinanza. Così succede anche noi» mi diceva «quando facciamo fatica, oppure sentiamo il peso della preghiera, della vita secondo il vangelo, del ministero, della comunità, quando non abbiamo più voglia, possiamo pensare all’asino del corteo delle Palme, forse siamo come quella creatura i più vicini a Cristo: stiamo portando lui e il peso del vangelo, lui e le fatiche della missione. Portiamo pietre d’angolo per un mondo nuovo. L’importante è non arrendersi, perché poca strada ancora e ormai ecco Gerusalemme». Perseverare, perché -diceva don Lorenzo Milani- : Fino a che c’è fatica c’è speranza”.

(Fonte: Blog S.Maria del Cencio)

"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 23 - 2024/2025 anno C

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


 DOMENICA DELLE PALME  ANNO C

«Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono stati inviati: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia fa con i pulcini, sotto le ali e voi non avete voluto» (Lc 13,34). Questo è il grido di dolore di Gesù di fronte alla "sklerocardìa" dei capi religiosi, la loro durezza di cuore. Il Signore non piange sulla sua sorte, ma su quella di coloro che, a breve, lo inchioderanno ad una croce. E' la manifestazione più grande dell'amore del Padre, come lo è l'amore di una madre che piange per la malvagità di un figlio. «Vi dico, infatti, che non mi vedrete più finché verrà il tempo in cui direte: Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore» (Lc 13,35). Da sempre e per sempre Gesù è il Veniente, colui che si manifesta al mondo in povertà, umiltà e mitezza. Per questo subisce il rifiuto degli uomini. In un mondo dominato dal potere del danaro e dalla violenza delle armi, un Messia umile che manifesta la sua gloria nella piccolezza, impegnando la sua vita nel servizio agli ultimi, agli scarti dell'umanità, genera solo il rigetto, l'espulsione, come fa un organismo, che rifiuta ed espelle da sé un corpo estraneo. La nostra salvezza, allora, starà nell'accogliere Colui che viene nella nostra vita, la nostra fede nell'accettarlo così com'è: umile, povero, indifeso, perché solo così, e non in altro modo, Egli stabilisce il suo Regno. Solo allora anche noi, insieme alla moltitudine dei discepoli, potremo intonare il canto del salmista che proclama: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra d'angolo. Questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi» (Sal 118,22-23).



sabato 12 aprile 2025

Religione. Nella Chiesa di oggi c’é bisogno di profeti di Enzo Bianchi

Religione. 
Nella Chiesa di oggi 
c’é bisogno di profeti 
di Enzo Bianchi



Pubblicato su "Vita Pastorale" - Aprile 2025


Questo è un articolo scritto alcuni mesi fa, da me successivamente riletto, limato e migliorato. L’ho dato da leggere ad amici teologi affinché correggessero o completassero le mie asserzioni. E ho deciso solo ora di darlo alle stampe perché lo vorrei pubblicato mentre ancora papa Francesco è vivo e non c’è un suo successore. Sono parole, le mie, meditate, pensate, piene di parresia; parole taciute, trattenute come le conservava in petto il profeta Geremia che, da profeta fedele qual era, non voleva essere sordo alle parole di Dio e, nello stesso tempo, muto verso il suo popolo Israele.

Non sono né un radicale né un massimalista. E non sono mosso da nessuna ideologia nel guardare alle Chiese nella storia ma, pur restando un battezzato nella Chiesa cattolica, mi sento semplicemente un cristiano che prende la parola per ricordare le esigenze dettate da Gesù ai suoi discepoli. 
Rimango convinto che, come i discepoli e le discepole della comunità del Signore, siamo tutti e solo fratelli e sorelle e che dobbiamo dirci l’un l’altro con umiltà, ma con trasparenza, ciò che consideriamo urgente per la comunità del Signore che sta nella storia in attesa di essere purificata, fatta bella, santificata per diventare la sposa di Cristo, la Gerusalemme celeste.

Sì, perché devo dire che nella nostra Chiesa — ed è mio dovere limitarmi alla Chiesa che conosco, cioè quella occidentale (dalla Polonia al Portogallo, fino al Nord America) — la Chiesa cattolica, che vive lo statuto di maggioranza anche se non più di egemonia, mostra tutta la stanchezza, la mancanza di fede; una Chiesa più burocratica che viva. È a tale Chiesa che mi riferisco in questo articolo, la nostra, e non oso pensare alle Chiese della diaspora — da quella mongolica a quella medio orientale, a quelle altrove —, a quelle che conoscono il martirio in luoghi in cui è impedita l’eucaristia ed è perseguitato chi professa la nostra fede.

Eppure, la nostra Chiesa è nata come popolo sacerdotale e profetico, e quando l’apostolo Paolo indica i doni che devono essere presenti in una comunità cristiana, necessari perché la si possa dire tale, accanto agli apostoli pone sempre i profeti seguiti dai didascali. La Chiesa non monopolizza la profezia, ma ne sente l’urgenza e resta il sito naturale nel quale i profeti possono esprimersi per discernere come il Signore opera all’interno di essa. «Tutte le genti hanno il loro profeta», ricordava Agostino nel Contra Faustum (PL 42,348), ma nella Chiesa la profezia deve emergere accanto all’apostolato.
Il concilio Vaticano II ribadisce il triplice ufficio di Gesù Cristo — sacerdote, profeta e re — ed estende a tutti i fedeli, al popolo di Dio, queste prerogative. Il cristiano è dotato, quindi, del sensus fidei, l’intuizione spirituale, l’istinto che sa discernere l’autentico senso della Parola e armonizza a essa tutto il suo vivere. Proprio lo Spirito santo donato a ogni cristiano nel battesimo e nella confermazione costituisce ed edifica la Chiesa quale popolo profetico «la cui luce brilla agli occhi del mondo» affinché rendano gloria al Padre che è nei cieli (cf Mt 5,16).

Nei giorni dopo la Pentecoste, nella Chiesa nascente non solo c’è la coscienza di essere il popolo profetico predetto dai profeti come destinatario dell’effusione dello Spirito (cf G13,1-2 e At 2,17 ss.), ma sorgono profeti tra i discepoli del Signore Gesù. Gli Atti degli apostoli testimoniano la loro presenza e la loro azione. Barnaba, Agapo, Giuda, Sila, Simeone soprannominato Niger, Lucio di Cirene, Manaèn, e le figlie di Filippo: profeti e profetesse riconosciuti tali per il loro ministero dalla comunità. Va riconosciuta una si- gnificativa presenza profetica che l’apostolo Paolo invita a discernere e a non spegnere, perché nella Chiesa non ci sono solo gli apostoli e i loro successori che presiedono, ma anche i profeti (sempre al secondo po- sto) e quindi i didascali, i maestri della fede. Nessuno può impedire ai vescovi stessi di essere profeti com’è successo in passato, soprattutto in Oriente.

Fino alla metà del I secolo il ministero profetico era dunque visibile, presente, accolto e apprezzato nella Chiesa, ma poi arrivò una gelata improvvisa che ne impedì ogni manifestazione. Da allora fino a oggi i profeti appaiono nella vita della Chiesa, ma raramente, e sono come sempre osteggiati e persino perseguitati proprio dalla Chiesa che loro amano, a tal punto da soffrire a causa di essa. Se Giustino (II secolo) poteva affermare nel Dialogo con rabbi Trifone: «Noi cristiani oggi abbiamo ciò che voi ebrei avevate una volta e ora non avete più, i profeti!», la Chiesa dal II secolo in poi non solo non può dirlo, ma preferisce non doverlo dire.

Eppure, oggi appare forte all’orizzonte della nostra Chiesa l’urgenza profetica. Abbiamo bisogno di profeti! Certo risuona sempre la poesia di Nelly Sachs: «Se i profeti irrompessero […] sapresti ascoltare?». Ma noi abbiamo bisogno che si levino voci profetiche in tutto il corpo ecclesiale, che ci siano dati segni profetici! Oggi, più che mai, addirittura nei documenti ecclesiali, scritti dai soliti addetti ai lavori, si osa parlare di profezia e di profeti: è una superficialità che stupisce. Si è addirittura giunti a programmare nel piano “sinodale” della Chiesa italiana una “fase profetica”, come se fosse possibile avere a disposizione lo Spirito santo e programmarlo. Ma possibile che nessuno tra i vescovi s’accorga di quanto vuoto producano i soliti addetti ai lavori che da un Sinodo all’altro compilano documenti preparatori o stendono documenti finali che ripetono le stesse cose dette e ridette?

Perché tanti riferimenti al vescovo Tonino Bello che oggi tutti vogliono santo, quando era oggetto di sorrisi e di giudizi poco caritatevoli dai confratelli non più di trent’anni fa? E perché tanto affanno per proclamare santo il vescovo Romero, quando nessuno si sentirebbe di adottare il suo coraggio in un’omelia? La profezia significa accettare l’ostilità non solo del mondo ma dei propri familiari, di casa nostra, della nostra comunità, semplicemente come è successo a Gesù.

Sono pochissimi i vescovi che conoscono la parresia, il coraggio di difendere chi è oggetto di ingiusti- zia, di alzare la voce quando occorre, di assumere una parola profetica… Ho sognato che alcuni preti di- ventassero vescovi, per alcuni di loro ho dato parere favorevole, ma poi una volta assunto il ruolo vivono in modo grigio il loro compito di pastore, e certo non sono visibili tratti di profezia. Perché? E a volte proprio loro sono pronti a spegnere la profezia che compare nel popolo di Dio. E perché in alcune ordinazioni episcopali abbiamo visto gli ordinati sorridere tutto il tempo come se provassero soddisfazione per essere finalmente “arrivati”? Qual è il livello di consapevolezza in chi accede a un ministero così grave e così importante nella Chiesa, un ministero istituito dallo Spirito santo?

Papa Francesco — possiamo dirlo dopo dodici anni di ministero petrino — ha indicato un altro stile, ha insegnato l’umiltà, il servizio e l’ascolto dei segni dei tempi e dei profeti fino a dare più volte alla Chiesa un volto profetico. Non sono malato di papolatria: ho amato Benedetto XVI e amo ancor di più Francesco, due Papi che ho potuto conoscere e considerare amici. Ho criticato una volta Benedetto XVI e ne ho parlato direttamente con lui; ho detto a papa Francesco ciò che penso e sempre ho trovato ascolto, anzi ho trovato uno sguardo più profondo sugli orizzonti della chiesa. Papa Francesco è un Papa esigente: ha percepito l’urgenza profetica che ha cercato di ubbidire come una via da percorrere da parte della Chiesa. Ma ho l’impressione che non sia stato capito e che sovente i più vicini, che spesso sono anche “addetti ai lavori”, non riescano a vedere con un occhio limpido come il suo ciò che occorre fare nella vita della Chiesa: compresi i vescovi nominati da lui.

Ci saranno nei tempi futuri dei profeti e soprattutto dei vescovi con qualità profetiche visibili operanti nella Chiesa e capaci di rispettare la profezia che si manifesta nel popolo di Dio?

(Fonte: sito dell'autore)

venerdì 11 aprile 2025

Perseguire la pace nell’80° della tragica morte di Dietrich Bonhoeffer per mano nazista di Paolo Naso

Perseguire la pace 
nell’80° della tragica morte 
di Dietrich Bonhoeffer 
per mano nazista 
di Paolo Naso


Ottant’anni fa, all’alba del 9 aprile del 1945, nel campo di concentramento di Flossenbürg, fu eseguita la condanna a morte del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer. Il progetto hitleriano del Terzo Reich era ormai crollato e mancavano solo poche settimane al crollo definitivo del nazismo e al suicidio del Führer, eppure fu proprio lui, con un ultimo e brutale colpo di coda, a ordinare l’esecuzione di Bonhoeffer.

Figlio della buona borghesia, questo teologo protestante aveva scelto con convinzione la strada del pastorato anche se, in breve, questa si espresse soprattutto nella forma della ricerca e della riflessione teologica.

In una Germania che virava verso il nazismo, ben presto Bonhoeffer aveva manifestato la sua avversione al Führer denunciando, già nel 1933, l’immoralità delle leggi antiebraiche e il pericolo costituito dall’ascesa di un leader capace di sedurre le masse con il linguaggio facile del populismo. Con il passare degli anni, la sua opposizione al nazismo si fece militante e lo avvicinò ai circoli della resistenza per la quale svolse missioni di intelligence. È ben nota la frase attribuitagli da un compagno di prigionia a cui Bonhoeffer spiegava perché, di fronte alla tragedia e al pericolo, il cristiano non potesse restare fermo e inoperoso: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante».

Finito nel mirino delle autorità, Bonhoeffer avrebbe potuto riparare negli Stati Uniti e svolgere una brillante carriera in una rassicurante facoltà teologica protestate. Invece, nel 1939 scelse di tornare nella sua Germania. Era lì che la coerenza cristiana era messa a più dura prova: sinodi e vertici della Chiesa luterana si erano sostanzialmente accodati al regime e soltanto il piccolo gruppo della Chiesa confessante, ispirato dal teologo Karl Barth, aveva difeso l’indipendenza della chiesa dal regime e aveva affermato che il cristiano doveva proclamare la sua unica e assoluta fedeltà a Dio soltanto e non alle autorità terrene.

Morto prima di compiere i 40 anni, Bonhoeffer lascia una consistente mole di scritti alcuni dei quali sono ormai dei classici della teologia cristiana. Il testo più noto, anche a un pubblico non specialistico, è probabilmente Resistenza e resa, una raccolta di testi datati tra il 1943 e il 1945. Nonostante si tratti di scritti dal carcere, resta deluso il lettore che in quelle pagine cerchi le parole di un manifesto o un proclama politico. La critica teologica al nazismo e alla sua ideologia risuona in quei testi ma la sostanza è una riflessione sul cristianesimo e la sua crisi. In tempi così cambiati e così difficili, la fede cristiana non può ridursi a una religione convenzionale e consumistica, all’idea di un “Dio tappabuchi” che risponde alle domande umane che non trovano risposta. Dio non va cercato solo di fronte alla morte, ai limiti della nostra vita ma al suo centro, di fronte alle questioni che più ci interrogano e più ci sfidano. In quelle pagine Bonhoeffer polemizza con l’idea di una grazia divina “a buon mercato”, grazia senza sequela, grazia senza croce, grazia senza Gesù Cristo vivo, incarnato. La grazia di Dio impegna il cristiano, lo invita ad abbandonare le reti con le quali sta pescando per porsi nel cammino della sequela cristiana.

Sono le parole di un credente che sente il peso della storia che sta attraversando e, proprio perché crede nell’azione di Dio, sa di dovere fare la sua parte e di doversi assumere le sue responsabilità di credente “adulto”. Una fede che non è un rifugio rassicurante ma che, al contrario, ci espone alle sfide del mondo. In tempi drammatici come i primi anni ’40 del secolo scorso, questo appello alla responsabilità della propria coscienza di fronte al male condusse Bonhoeffer fino al patibolo. E non ci deve stupire che la sua lezione morale e teologica abbia ispirato il pensiero e l’azione di personaggi come Martin Luther King o Desmond Tutu e abbia riscosso tanto interesse anche in ambito cattolico.

Molto ricca resta anche la pubblicistica su questo gigante della teologia cristiana del secolo scorso e, tra i tanti titoli, segnaliamo Bonhoeffer. Un profilo, a firma del teologo protestante Fulvio Ferrario, arrivato in libreria per i tipi della Claudiana. Qualcuno però va oltre e arriva a beatificare questo credente luterano, restato fino in fondo coerente con la sua fede e la sua tradizione. È un paradosso inaccettabile. Il protestante Bonhoeffer non va santificato e posto sugli altari dell’ecumenismo ma invece capito e studiato. Egli rimane un pensatore complesso, segnato dal maggiore dei drammi del Novecento, che non può iscriversi nelle liste dei teorici del pacifismo o della resistenza armata ma che continua a interrogare ogni credente che si ponga di fronte alle scelte drammatiche della storia.

Nonostante l’epilogo e il contesto così drammatico della sua morte, Bonhoeffer ci rivolge anche un messaggio di speranza. Nel 1933, in una Europa delle dittature che scivolava verso la guerra, egli lanciò un appello che oggi risuona quanto mai attuale. Propose, infatti, un «grande concilio ecumenico della santa chiesa di Cristo» che, di fronte alle guerre passate e a quelle che incombevano, pronunciasse una parola di pace e, nel nome di Cristo, promuovesse il disarmo. Allora le chiese non raccolsero quell’appello. Possono – devono – farlo oggi, di fronte alle guerre in atto e alle altre che, con intollerabile leggerezza, vengono ipotizzate e minacciate ogni giorno.


(Fonte: “Riforma” –  aprile 2025)

giovedì 10 aprile 2025

L’uomo ricco. Gesù fissò lo sguardo su di lui (Mc 10,21) - Catechesi di Papa Francesco preparata per l'Udienza del 9 aprile 2025

L’uomo ricco.
Gesù fissò lo sguardo 
su di lui (Mc 10,21)
Catechesi di Papa Francesco 
preparata per l'Udienza generale 
del  9 aprile 2025


Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. 
Gesù Cristo nostra speranza. 
II. La vita di Gesù. Gli incontri. 
4. L’uomo ricco. 
Gesù fissò lo sguardo su di lui (Mc 10,21)

Cari fratelli e sorelle,

oggi ci soffermiamo su un altro degli incontri di Gesù narrati dai Vangeli. Questa volta però la persona incontrata non ha nome. L’evangelista Marco la presenta semplicemente come «un tale» (10,17). 
Si tratta di un uomo che fin da giovane ha osservato i comandamenti, ma che, malgrado questo, non ha ancora trovato il senso della sua vita. Lo sta cercando. Forse è uno che non si è deciso fino in fondo, nonostante l’apparenza di persona impegnata. Al di là, infatti, delle cose che facciamo, dei sacrifici o dei successi, ciò che veramente conta per essere felici è quello che portiamo nel cuore. Se una nave deve salpare e lasciare il porto per navigare in mare aperto, può anche essere una nave meravigliosa, con un equipaggio d’eccezione, ma se non tira su le zavorre e le ancore che la tengono ferma, non riuscirà mai a partire. Quest’uomo si è costruito una nave di lusso, ma è rimasto nel porto!

Mentre Gesù va per la strada, questo tale gli corre incontro, si inginocchia davanti a Lui e gli chiede: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (v. 17). Notiamo i verbi: “che cosa devo fare per avere la vita eterna”. Poiché l’osservanza della Legge non gli ha dato la felicità e la sicurezza di essere salvato, si rivolge al maestro Gesù. Quello che colpisce è che quest’uomo non conosce il vocabolario della gratuità! Tutto sembra dovuto. Tutto è un dovere. La vita eterna è per lui un’eredità, qualcosa che si ottiene per diritto, attraverso una meticolosa osservanza degli impegni. Ma in una vita vissuta così, anche certamente a fin di bene, quale spazio può avere l’amore?

Come sempre, Gesù va al di là dell’apparenza. Se da un lato quest’uomo mette davanti a Gesù il suo bel curriculum, Gesù va oltre e guarda dentro. Il verbo che usa Marco è molto significativo: «guardandolo dentro» (v. 21). Proprio perché Gesù guarda dentro ognuno di noi, ci ama come siamo veramente. Cosa avrà visto infatti dentro questa persona? Cosa vede Gesù quando guarda dentro di noi e ci ama, nonostante le nostre distrazioni e i nostri peccati? Vede la nostra fragilità, ma anche il nostro desiderio di essere amati così come siamo.

Guardandolo dentro – dice il Vangelo – «lo amò» (v. 21). Gesù ama quest’uomo prima ancora di avergli rivolto l’invito a seguirlo. Lo ama così com’è. L’amore di Gesù è gratuito: esattamente il contrario della logica del merito che assillava questa persona. Siamo veramente felici quando ci rendiamo conto di essere amati così, gratuitamente, per grazia. E questo vale anche nelle relazioni tra noi: fin quando cerchiamo di comprare l’amore o di elemosinare l’affetto, quelle relazioni non ci faranno mai sentire felici.

La proposta che Gesù fa a quest’uomo è di cambiare il suo modo di vivere e di relazionarsi con Dio. Gesù infatti riconosce che dentro di lui, come in tutti noi, c’è una mancanza. È il desiderio che portiamo nel cuore di essere voluti bene. C’è una ferita che ci appartiene come esseri umani, la ferita attraverso cui può passare l’amore.

Per colmare questa mancanza non bisogna “comprare” riconoscimenti, affetto, considerazione; occorre invece “vendere” tutto quello che ci appesantisce, per rendere più libero il nostro cuore. Non serve continuare a prendere per noi stessi, ma piuttosto dare ai poveri, mettere a disposizione, condividere.

Infine Gesù invita quest’uomo a non rimanere da solo. Lo invita a seguirlo, a stare dentro un legame, a vivere una relazione. Solo così, infatti, sarà possibile uscire dall’anonimato. Possiamo ascoltare il nostro nome solo all’interno di una relazione, nella quale qualcuno ci chiama. Se restiamo da soli, non sentiremo mai pronunciare il nostro nome e continueremo a restare dei “tali”, anonimi.
Forse oggi, proprio perché viviamo in una cultura dell’autosufficienza e dell’individualismo, ci scopriamo più infelici, perché non sentiamo più pronunciare il nostro nome da qualcuno che ci vuole bene gratuitamente.

Quest’uomo non accoglie l’invito di Gesù e rimane da solo, perché le zavorre della sua vita lo trattengono nel porto. La tristezza è il segno che non è riuscito a partire. A volte pensiamo che siano ricchezze e invece sono solo pesi che ci stanno bloccando. La speranza è che questa persona, come ognuno di noi, prima o poi possa cambiare e decidere di prendere il largo.

Sorelle e fratelli, affidiamo al Cuore di Gesù tutte le persone tristi e indecise, perché possano sentire lo sguardo d’amore del Signore, che si commuove guardando con tenerezza dentro di noi.


mercoledì 9 aprile 2025

Sinodo come popolo in cammino di Tonio Dell'Olio

Sinodo come popolo in cammino 
di Tonio Dell'Olio


Finalmente alla Chiesa che è in Italia è dato di vivere un Sinodo. Si scrive Sinodo ma si legge respiro, azione dello Spirito. È un parlarsi senza le limitazioni imposte dalla diplomazia ovattata e ossequiosa a cui per troppo tempo, soprattutto i laici, sono stati educati. Sembrava un galateo da rispettare come un comandamento e invece… E invece l’Assemblea sinodale dei giorni scorsi (ma per la verità tutto il cammino di questi quattro anni) ha fatto emergere un coraggio di parresia fecondo e promettente. Senza strappi, senza dissenso organizzato, senza prevaricazioni e mancanza di rispetto. Tutt’altro! Quello emerso nell’aula Paolo VI è un tessuto di Chiesa che vuole scrutare l’orizzonte e prepararlo, e che pertanto vuole camminare (lo dice la parola stessa) e non accettare un semplice passaggio in autobus. Si tratta della prima manifestazione concreta della ricezione della primavera conciliare che ha definito la Chiesa come popolo di Dio. Ebbene oggi sappiamo che quel popolo ha una testa, dei piedi e un’anima e – come negli Atti degli Apostoli (15,2) – è capace di discutere animatamente. Ma la sorpresa ancora più grande è che tutto questo avviene senza spirito rivendicativo o con stile sindacale ma fraterno, tra vescovi, religiosi, laici e presbiteri che sanno di essere soggetto e di non avere una controparte. Insomma un popolo in cammino.

(Fonte: Mosaico dei Giorni del 7 aprile 2025)