Razzismo
Nell'Italia del XXI secolo come in America negli anni della segregazione?
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Razzismo contro la chef Mareme:
“È nera", i clienti lasciano il tavolo
La cuoca ad Agrigento dal 2012: la società sia multiculturale come la cucina
Indovina chi non viene a cena. Sembra una scena accaduta nell’America profonda degli anni della segregazione, eppure è successo due giorni fa in Italia, anno 2023. Due turisti italiani, sulla sessantina, si sono alzati dal tavolo del ristorante e se ne sono andati (senza salutare, precisa il titolare), quando hanno saputo che la cuoca era «una neg...».
Razzisti, poveretti. E ignoranti. Nel senso che ignorano. Ignorano che non esistono le razze. Che siamo tutti frutto di contaminazioni. E che anche i cibi sono contaminazioni. Il ristorante si chiama Ginger People&Food, e anche quello forse non l’hanno capito. Non sanno che lo zenzero è una spezia antica e che la cucina è frutto di incroci e di miscugli, è una miscela che si compone con la cultura. Non sapevano che ai fornelli del noto locale, gestito dalla cooperativa social Al Karhub, c’è la chef Mareme Cisse, originaria del Senegal, che nel 2012 ha raggiunto il marito in Sicilia e ha deciso di rimanere ed è diventata un personaggio noto per aver vinto varie competizioni gastronomiche e rinomata per i suoi couscous, anche loro pluripremiati.
Apprendiamo di questo incredibile episodio dalla pagina Facebook del titolare del ristorante, Carmelo Roccaro, che ha scritto una “Lettera a una sconosciuta”. Inizia così: «Sei entrata di fretta, con il tuo compagno, capelli brizzolati, tagliati cortissimi “alla Sinéad”, donna nostrana sulla sessantina circa. Sei stata accolta con il sorriso dalla nostra Karima, addetta di sala, giovane ragazza di seconda generazione, grande lavoratrice, che ti ha fatto accomodare dove volevi tu». Poi il titolare spiega la dinamica: «Karima mi guardava con gli occhi sgranati e a bocca aperta dicendomi: “Dopo avere visto il menù la signora mi ha chiesto se per caso la proprietaria del ristorante fosse una signora neg... di colore. E alla mia conferma si è alzata dicendo che non voleva più cenare qui...”. Io sono uscito e ti ho seguito mentre risalivi in macchina e andavi via, evitando di guardarmi, mentre costringevi il tuo compagno ad una improbabile inversione ad U. Io non conosco chi sei, la tua storia, i tuoi problemi e non oso nemmeno giudicarti. So solo che ho sentito una grande tristezza nel cuore. Ieri sera ho preso consapevolezza di quanto profondo e radicato sia questo sentire che emerge dal lato oscuro delle persone».
Non poteva usare parole migliori, Carmelo Roccaro. Per questo le riporto così, come le ha scritte lui. La tristezza nel cuore. Che buio deve avere una persona che non vuole mangiare cibo cucinato da una persona che ha il colore della pelle diverso dal suo. I bianchi con i bianchi, i neri con i neri, i gialli con i gialli?
Il diverso spaventa? Siamo abituati a farci servire da persone di colore, vanno bene quando lavano i piatti, quando puliscono i pavimenti e le strade e raccolgono l’immondizia e i pomodori, quando sono invisibili insomma. Solo in quella modalità – chiamiamola modalità di servizio – il nostro immaginario li ha metabolizzati e non danno fastidio. Ma il razzismo è una bestia strisciante, spesso inconscia, inconsapevole.
Ma questa storia, come tutte le storie, ha un lato luminoso, che si contrappone a quello oscuro della tristezza del razzismo. E la parte luminosa sono le foto di Mareme Cisse, bellissima, occhi magnetici, sorridente davanti alle sue spezie e alle sue verdure. Parlano i suoi premi: nel 2017 per la ricetta più originale al Couscous Fest di San Vito Lo Capo. L’anno seguente il Premio Bezzo, per una ristorazione sostenibile da un punto di vista ambientale, economico e sociale. Nel 2019 il World Couscous Championship di San Vito Lo Capo, competizione mondiale in cui ha rappresentato il Senegal con il Couscous di Falilou, che è il nome di suo figlio. Nel 2020 ha vinto anche Cuochi d’Italia di Tv8 sbaragliando chef provenienti da tutto il mondo.
C’è luce nei suoi piatti in cui la tradizione senegalese si mescola con specialità siciliane, un mix di culture e di sapori. C’è luce quando racconta che tiene corsi di cucina ed è impegnata nella cooperativa Al Kharub nell’inserimento lavorativo di donne, giovani, rifugiati o persone in condizioni di fragilità. Lo diciamo con le parole di Mareme Cisse, che offuscano ogni tristezza del cuore: «Lo spirito che anima il mio lavoro è la consapevolezza della necessità di costruire una società multiculturale, colorata e aperta verso il futuro».
(fonte: La Stampa, articolo di Caterina Soffici 11/08/2023)
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L’omicidio di Mahmoud Abdalla, la violenza della narrazione
La morte di Mahmoud Abdalla, diciannovenne di origine egiziana, arrivato nel 2021 come minore non accompagnato, arriva come un fulmine a ciel sereno non solo per la comunità di Genova che ha conosciuto il ragazzo, ma a chiunque abbia letto la notizia. Un omicidio la cui crudeltà è indicibile, sia per le modalità con cui è avvenuto, riportate in tutte le testate con dovizie di particolari, sia per il movente: il ragazzo voleva interrompere il rapporto di lavoro in quanto sfruttato dai titolari.
In questa storia ci sono tante cose ancora da chiarire, ma è importante porre l’accento sulle modalità con cui questa sta venendo raccontata. Nelle espressioni, nel modo di costruire i titoli, nello scendere in particolari macabri e raccapriccianti, è presente un meccanismo narrativo che strizza l’occhio ad un animo facilmente incline alle generalizzazioni o al razzismo, riproponendo alcuni stereotipi.
La pista dello spaccio e della baby gang
Quando è stato ritrovato e identificato il corpo acefalo di Mahmoud Sayed Mohamed Abdalla i giornali hanno proposto una narrazione molto simile sia nei titoli che nei contenuti. Insistenza sullo stato del corpo trovato – mutilato – e l’età del giovane, la nazionalità non era molto presente nei titoli, ma espressa in tutti gli articoli. Tutto sembra ascriversi al dovere di cronaca, ciò che tuttavia balza all’attenzione è come nel momento in cui si fanno luce alcune ipotesi di movente dell’omicidio, nonostante siano presenti due piste (quella della malavita e quella del litigio con i titolari), la prima viene narrata come certa. Il 28 Luglio si legge su Il Secolo XIX «È ormai indubbio che una delle piste seguite dagli investigatori porti al mondo della droga. Nelle urine di Abdalla il medico legale ha riscontrato tracce di anfetamine, ma ulteriori informazioni su questo aspetto potrebbero emergere dagli esami tossicologici. Secondo alcune delle persone già sentite dai militari, il giovane faceva uso di hashish.» Il giorno dopo sullo stesso quotidiano si alimenta la stessa ipotesi con il seguente titolo «Giallo del ragazzo ucciso e mutilato: spunta la pista della baby gang» e il sottotitolo a seguire «Mahmoud probabilmente assassinato da più persone. Gli amici svelano: “Era entrato in un brutto giro a Genova”», rinforzando la teoria del legame fra il giovane e il mondo della criminalità, nonostante nello stesso articolo sia menzionata anche l’altra pista aperta dal litigio con i titolari del Barber Shop in cui lavorava.
Si parla incessantemente di baby-gang, di spaccio, di malavita, regolamento di conti, tutto un immaginario che troppo spesso viene ricondotto facilmente a persone di origine straniera, in particolare nordafricana.
La scoperta dell’identità degli assassini
Le cose mutano appena viene scoperta l’identità degli assassini di Abdalla, Mohamed Ali Abdelghani, detto Tito, e Abdelwahab Ahmed Gamal Kamel, detto Bob, il titolare e il socio di Aly Barber Shop, la barberia a Sestri Ponente, attualmente sotto sequestro, in cui lavorava al nero in condizioni di sfruttamento e viveva il giovane diciannovenne. I due sono stati incastrati attraverso immagini video e intercettazioni telefoniche ed attualmente sono detenuti nel carcere genovese di Marassi.
Nonostante buona parte degli articoli non espliciti la nazionalità dei presunti assassini di Mahmoud, non è difficile trovare commenti stigmatizzanti nei social al di sotto di moltissimi articoli, commenti che aumentano quando invece la provenienza è esplicitata nei titoli. «Cadavere mutilato, in procura due giovani nordafricani» oppure «Cadavere mutilato, due egiziani indagati per omicidio», la titolazione in questi due articoli dell’Ansa, rappresenta un tipo di comunicazione che lungi dal rientrare nel semplice dovere di cronaca, ricalca una precisa linea stigmatizzante e razzista che troppo spesso si è vista, dando spazio a generalizzazioni nei confronti di intere comunità. A confermarlo sono proprio i commenti che si possono trovare ad esempio su Facebook come «Ci mancavano anche gli egiziani. Si stanno tutti integrando…ma con le leggi italiane», «Niente da fare la violenza conoscono e con quella vivono»; un post in cui si ricondivide la notizia presenta un incipit piuttosto esplicativo per il suo razzismo «MAGREBINI …. sempre loro!!».
Fra macabro ed espressionismo: i dettagli di un omicidio raccapricciante
Generalizzazioni indebite, stigmatizzazione e razzismo continuano ad essere alimentati e proposti ai lettori man mano che emergono maggiori dettagli su questo omicidio. Dettagli che non nascondono il macabro, dall’arma del delitto all’utilizzo di un linguaggio espressionistico ogni qual volta si richiama l’atto omicida di “Tito” e “Bob”. Questo incedere nei dettagli così violenti, per quanto sia un espediente giornalistico utilizzato spesso per catturare l’attenzione dei lettori guadagnando qualche click in più, ha degli effetti su chi legge che non possono essere ignorati. Un omicidio così violento è già di per sé una notizia; scegliere di raccontarne i particolari, specificando ove possibile nell’articolo la nazionalità dei presunti assassini, crea una precisa associazione mentale, come se quella violenza fosse tipica solo di una comunità, come se la nazionalità determinasse le modalità con cui vengono commessi i reati. «Non mi risulta che gli imprenditori italiani taglino le teste», commenta un utente su Facebook, dimenticando come anche da parte dei cosiddetti italiani “autoctoni” siano stati compiuti tantissimi reati che purtroppo possono equipararsi al livello di crudeltà presente in questo omicidio.
Ad ogni dettaglio o aggiornamento segue una nuova declinazione dello stigma, come in questo titolo di un articolo su GenovaToday, uscito a seguito delle intercettazioni telefoniche: «Tito e Bob: “Odio l’Italia” e dopo il delitto sono andati a svagarsi». Ma è presente anche un latente rancore nei confronti della comunità egiziana: se all’appello dei genitori di riportare il corpo di Mahmoud Abdalla in Egitto, insieme agli assassini affinché siano processati nel loro Paese, alcuni rispondono a favore di questa richiesta, altri richiamano un’altrettanta tragica vicenda, quella di Giulio Regeni, richiedendo che i suoi assassini siano anch’essi processati in Italia.
Se il giornalismo oggi vive di click, engagement e molto più di prima la comunicazione si piega alla necessità di fare leva sulle emozioni per catturare l’attenzione del lettore, la terribile vicenda di Mahmoud Abdalla mostra come nel mondo dell’informazione spesso manchi la responsabilità rispetto a ciò che viene comunicato. Non stiamo ai livelli di altri casi e altri relativi articoli visti in passato in cui la generalizzazione è esplicita, molto probabilmente perché la vittima è anche questa di origine straniera, ma non manca quel pensiero che vuole racchiudere un certo tipo di violenza alla “barbarie” legata all’altro, allo straniero. Una “guerra di civiltà” tra Occidente e Oriente che si sta combattendo nei commenti degli articoli, anche quando questi apparentemente si mostrano come neutri. Ma l’informazione non può dirsi davvero neutra se è l’omicidio nelle sue modalità o l’omicida stesso, più che la gravità del reato commesso, a stare al centro dell’informazione. L’informazione non è davvero neutra se, come in questo caso, un ragazzo appena maggiorenne, di origine straniera, lavoratore sfruttato, viene totalmente deumanizzato nella sua storia, diventando strumentale al tipo di narrazione che si vuole fare. Storie di questo tipo, così oscure, andrebbero trattate con maggior rispetto e delicatezza, responsabilizzando il mondo dell’informazione affinché l’occhio e l’orecchio dei lettori sia educato alla ricezione della notizia reale e non alla ricerca del particolare scabroso.
Rimaniamo in attesa dei risvolti delle indagini, unendoci al dolore della famiglia, con il pensiero rivolto a Mahmoud Abdalla, il 19enne che sognava di aprire il suo salone Rest In Power.
(fonte: Cronache di ordinario razzismo 09/08/2023)