Non solo numeri, ma vite da proteggere
(ansa)
Centounomila (101.000) sono le persone giunte via mare sulle coste italiane dall’inizio dell’anno. Una cifra che impressiona se paragonata a quelle degli anni passati. Ma forse, a impressionare, più dell’aspetto comparativo dovrebbe essere la consapevolezza del fatto che dietro a ogni singolo numero c’è una biografia. A volte giovane, altre meno, e altre ancora è lunga appena pochi giorni.
E nonostante questa realtà venga ribadita da anni e anni, ovvero da quando si parla di Mediterraneo centrale come frontiera liquida, spesso la si dimentica. Ed è forse la ragione per cui, nel tempo, sono stati presi provvedimenti che poco avevano a che fare con la vera tutela di quelle vite. E che, invece, hanno promosso politiche tese all’accusa e alla punizione di chi cercava di metterle al sicuro, di proteggerle.
Tra questi, anche chi opera nell’ambito del soccorso in mare per conto di un’organizzazione umanitaria. Sono centinaia le persone impiegate in questo mestiere e anche di loro si parla poco e spesso male. L’accusa da cui ancora oggi, in alcune aule di qualche Tribunale italiano, devono difendersi è quella di aver attirato l’attenzione di imbarcazioni in quel momento in mare e di aver soccorso chi stava sopra, diventando così un pull factor, un agente cioè di attrazione. Una teoria che ha suscitato l’interesse di accademici, giornalisti, scrittori, opinionisti mossi dall’intenzione di smontarla talmente tanto era evidente la sua infondatezza.
Solo nei primi 5 mesi del 2020, quando praticamente nessuno si muoveva, e nessuna barca umanitaria era operativa, a Lampedusa sono arrivate quattromila persone. Quale collegamento quindi tra Ong e flusso di arrivi? La risposta, dopo anni, è stata questa: nessuno. A Ferragosto, nel corso della consueta conferenza stampa, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, ha confermato i rumors dell’ultimo mese, ovvero la collaborazione tra enti umanitari e istituzionali. Perché è così che deve essere come previsto dalle principali norme in materia.
Quello che negli anni è mancato, e non solo in termini di politiche nazionali, è stato un lavoro costante su quelle che sono le cause principali che spingono le persone a partire. Una tra tutte riguarda il potere di ogni passaporto a richiedere un visto di ingresso. Quello italiano, ad esempio, permette a chi lo possiede di andare senza alcuna richiesta anticipata in 124 Paesi del mondo. Una cifra molto distante da quella che descrive la mobilità del passaporto bengalese che si attesta a 14. Nonostante ciò, nel 2022, oltre 11mila persone titolari di quel documento hanno chiesto all’Italia un visto di ingresso. E l’Italia ha risposto negativamente nel 41% dei casi. Forse, potrebbe essere questo uno dei motivi dietro alle 6.910 donne, uomini e bambini che hanno detto di essere bengalesi nei luoghi di sbarco? Ovvero la quinta nazionalità registrata da chi opera nei porti italiani.
Ecco, nell’estate del 2023, nessuno avrebbe voluto assistere a un tale scenario e soprattutto nessuno avrebbe voluto farlo senza che, ancora oggi, ci sia un vero assetto di ricerca e soccorso fuori dalle acque di competenza italiana. È questo che preoccupa chi quel Mediterraneo, sempre più simile a un cimitero, lo vede e affronta ogni giorno. Le centomila biografie di questi mesi dovrebbero farci agire immediatamente affinché altrettante abbiano la possibilità, in breve tempo, di superare le frontiere in modo sicuro. L’immigrazione è un’opportunità e bisogna lavorare per la tutela di chi, questa condizione, la vive. Solo in questo modo potremmo coltivare la nostra identità europea.
(fonte: La Stampa, articolo di Valentina Brinis 18/08/2023)