Charles de Foucauld
modello di fraternità universale.
Intervista a Brunetto Salvarani di Rocco Gumina
Il prossimo 15 maggio la Chiesa cattolica canonizzerà Charles de Foucauld. Soldato, viaggiatore, eremita, monaco, amico e conoscitore dei tuareg, la testimonianza di fraternità e di dialogo del religioso francese si pone a sostegno di un modello presente e futuro di cristianesimo. Di questi temi discutiamo con Brunetto Salvarani. Teologo, giornalista e scrittore, Salvarani dirige la rivista QOL. Docente di Missiologia e Teologia del dialogo nella Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e negli Studi Teologici di Bologna, Salvarani è presidente dell’associazione italiana degli Amici di Neve Shalom – Wahat al Salam. Da una settimana è uscito per la Cittadella Editrice il suo volume intitolato “Fino a farsi fratello di tutti – Charles de Foucauld e papa Francesco”.
– Professor Salvarani, nell’enciclica Fratelli tutti papa Francesco ricorda la figura del beato de Foucauld come esempio di fraternità universale. Come mai la testimonianza di un uomo ucciso in solitudine viene proposta agli uomini del nostro tempo come modello di fraternità?
Beh, la sua la chiamerei, parafrasando Fernando Pessoa, una solitudine affollata… Sin dall’inizio del suo soggiorno in Algeria a Béni Abbès, nel 1901, emerge chiaramente l’aspirazione di de Foucauld a produrre germi di fraternità universale. Rivelativa, fra le altre, è una lettera per la cugina Marie, del 7 gennaio 1902: “Mi avete chiesto una descrizione della cappella… La cappella, dedicata al Sacro Cuore di Gesù, si chiama cappella della fraternità del Sacro Cuore di Gesù; la mia piccola dimora si chiama fraternità del Sacro Cuore di Gesù. Voglio abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani, ebrei e idolatri, a considerarmi come loro fratello, il fratello universale… A poco a poco cominciano a chiamare la casa la fraternità, e ciò mi fa piacere…”.
Una fraternità, per l’appunto, assai movimentata, stando alle sue confidenze all’abate di Notre-Dame des Neiges: “Tutti i giorni ospiti, a cena, a dormire, a colazione; non c’è mai stato vuoto; ce ne sono stati undici, una notte, senza contare una vecchia inferma che ormai si è stabilita qui: ho dalle sessanta alle cento visite al giorno: questa fraternità è un alveare”. Due anni dopo, nel luglio 1904, ancora a Marie, scriverà: “Gli indigeni ci accolgono bene. Quando sapranno distinguere i soldati dai preti e vedere in noi dei servi di Dio, ministri di pace e di carità, fratelli universali? Non lo so. Se io faccio il mio dovere, Gesù effonderà grazie abbondanti, ed essi comprenderanno”.
Unico prete in un raggio di quattrocento chilometri di deserto sahariano, egli parla ormai esplicitamente della fraternità come della sua casa, un luogo aperto a chiunque nel quale tutti, cristiani, musulmani, ebrei, ma anche quelli chiama idolatri, si possano sentire accolti e mai giudicati. Un concetto di fraternità che risulta ancor più significativo se contestualizzato nella strategia missionaria elaborata dal papa dell’epoca, Leone XIII, basata sulla tesi che l’attività dei missionari cattolici deve nel contempo risultare evangelizzatrice e civilizzatrice, religiosa ma anche politico-sociale. E che troverà il suo compimento ideale quando Charles si porterà nell’Hoggar, nell’Algeria meridionale (duemila chilometri a sud di Algeri), a condividere la vita con i Tuareg a Tamanrasset. Che sarà la sua ultima dimora.
– Inoltre pare che nel magistero di Bergoglio il riferimento a de Foucauld sia costante. È così?
Sì, è così. In effetti l’attenzione per lui, da parte del papa, viene da lontano. Sappiamo, ad esempio, che nel marzo 2006 l’allora cardinale di Buenos Aires, parlando ai giovani, li esorta al sogno che può consentirci di “camminare alla presenza amorosa del Padre, abbandonandosi a Lui con infinita fiducia, come hanno saputo fare santa Teresina o il fratello Charles de Foucauld”.
Il discorso si conclude fra l’altro con un passaggio sulla fraternità e l’amicizia sociale, assi portanti dell’enciclica Fratelli tutti. Eletto nel 2013, il 2 marzo 2015 Francesco riceve, per la visita ad limina, i vescovi della Conferenza regionale del Nord Africa. Qui egli presenta la vicenda di quella terra come “segnata da numerose figure di santità, da Cipriano e Agostino, patrimonio spirituale di tutta la Chiesa, al beato Charles de Foucauld, di cui il prossimo anno celebreremo il centenario della morte”. Due mesi più tardi, l’uscita dell’enciclica Laudato si’ conferma questa attenzione privilegiata.
Al n.125 si legge: “La spiritualità cristiana, insieme con lo stupore contemplativo per le creature che troviamo in san Francesco d’Assisi, ha sviluppato anche una ricca e sana comprensione del lavoro, come possiamo riscontrare, per esempio, nella vita del beato Charles de Foucauld e dei suoi discepoli”. Passata l’estate, il 3 ottobre, in preparazione all’atteso Sinodo sulla famiglia, in Piazza San Pietro si tiene una veglia di preghiera. Nell’omelia papale la figura del fratello universale rifulge largamente: “Charles de Foucauld, forse come pochi altri, ha intuito la portata della spiritualità che emana da Nazaret. Attraverso la vicinanza fraterna e solidale ai più poveri e abbandonati, egli comprese che alla fine sono proprio loro a evangelizzare noi, aiutandoci a crescere in umanità”.
L’anno seguente, nella memoria liturgica del beato Charles, in coincidenza con i cent’anni dalla morte, al termine della messa a Santa Marta del 1° dicembre 2016, egli sceglie di indicare la sua testimonianza concreta per sollecitare a “camminare sulle sue tracce di povertà, contemplazione e servizio ai poveri”. De Foucauld, sostiene Francesco, è “un uomo che ha vinto tante resistenze e ha dato una testimonianza che ha fatto bene alla Chiesa”. Successivamente, un nuovo accenno lo troviamo nell’Esortazione Gaudete et exsultate (19 marzo 2018).
Al n.155, in una rassegna sulle caratteristiche della santità nel mondo attuale, soffermandosi sul bisogno di una preghiera costante, leggiamo: “Se veramente riconosciamo che Dio esiste, non possiamo fare a meno di adorarlo, a volte in un silenzio colmo di ammirazione, o di cantare a Lui con lode festosa. Così esprimiamo ciò che viveva il beato Charles de Foucauld quando disse: «Appena credetti che c’era un Dio, compresi che non potevo fare altrimenti che vivere solo per Lui»”. Ancora. Il 30 e 31 marzo 2019 Francesco si porta in pellegrinaggio apostolico in Marocco: un banco di prova dopo la firma, il mese prima, del Documento di Abu Dhabi.
Nella cattedrale di Rabat, il suo discorso è tutto dedicato al dialogo interreligioso: “Il cristiano, in queste terre, impara a essere sacramento vivo del dialogo che Dio vuole intavolare con ciascun uomo e donna, in qualunque condizione viva. In questo spirito, troviamo dei fratelli maggiori che ci mostrano la via, perché con la loro vita hanno testimoniato che questo è possibile, una misura alta che ci sfida e ci stimola… come non menzionare il Beato Charles de Foucault che, profondamente segnato dalla vita umile e nascosta di Gesù a Nazaret, che adorava in silenzio, ha voluto essere un fratello universale?”. Non stupisce, alla luce di tutti questi riferimenti, l’ennesimo rilancio del paradigma de Foucauld che campeggia nelle conclusioni della Fratelli tutti. Che conferma ulteriormente la centralità del fratello universale nella sua strategia ecclesiale.
– Nel deserto e con un’azione solitaria, fratello Charles ha sperimentato amicizia e dialogo con i musulmani. Lui non ha teorizzato il dialogo fra le religioni ma lo ha vissuto nella quotidianità. Un metodo che dovremmo imitare nella nostra società sempre più complessa e plurale. Concorda?
“In un tempo di pluralismo culturale e religioso – rifletteva vent’anni fa, all’indomani dell’11 settembre 2001, l’allora vescovo di Novara Renato Corti – il servizio della Chiesa alla missione di Cristo, in favore di ogni uomo, è quello che ci è testimoniato da Charles de Foucauld mentre è immerso in un mondo non cristiano, dove intende vivere da fratello universale: è proprio lì che, con assoluta semplicità, dal mattino alla sera, il mistero di Cristo lo avvolge, lo spiega, lo trasforma, lo rende vicino a tutti, mentre egli custodisce dentro sé la più grande novità”.
La canonizzazione di de Foucauld è un evento lungamente atteso non solo dalle tante famiglie di Piccoli fratelli e Piccole sorelle di Gesù postesi sulla scia dell’eremita francese, ma dai molti che, leggendone la vita avventurosa e meditandone gli scritti, l’hanno eletto a figura chiave di un nuovo modello di dialogo, in particolare con i musulmani. Modello che ha per bussola l’atteggiamento di Francesco d’Assisi verso i saraceni (si veda il capitolo 16 della Regola non bollata), che Bergoglio, nel discorso napoletano del 21 giugno 2019 sulla teologia mediterranea, definisce un entrare “in dialogo dal di dentro con gli uomini e le loro culture, le loro storie, le loro differenti tradizioni religiose; una modalità che, coerentemente con il Vangelo, comprende anche la testimonianza fino al sacrificio della vita” (fra gli esempi ripresi c’è appunto quello, “luminoso”, di frère Charles).
In questa chiave, de Foucauld si avvia a diventare, di fatto, il santo del dialogo interreligioso. Che fu ricondotto alla fede cristiana dell’infanzia dall’incontro, durante un viaggio in Marocco, con musulmani ed ebrei che scandivano i propri giorni nella preghiera e l’abbandono a Dio. Perché gli incontri con l’alterità, a un orecchio capace di ascolto, non lasciano mai indifferenti.
– A partire dalla testimonianza di de Foucauld, nel suo recente volume intitolato Fino a farsi fratello di tutti. Charles de Foucauld e papa Francesco, lei sostiene l’avvento di un “cristianesimo fragile”. Di che si tratta?
È noto come negli ultimi decenni il concetto di missione sia stato sottoposto a un’ampia revisione rispetto ai modelli finora adottati, attuata non solo dai teorici della materia (i missiologi), ma anche dagli stessi operatori sul campo. Le risposte alla crisi di tale nozione sono assai diversificate, così come i vissuti concreti degli attori diretti: dal recupero dei modelli più tradizionali che puntano a riproporre antichi schemi ritenuti inscalfibili fino a tentare vie inedite che nel corso della loro messa in opera sperimentano a caro prezzo l’arduo cammino di inculturazione dell’annuncio evangelico, nella consapevolezza che occorre sempre prendere le mosse ascoltando la realtà, prima ancora di sbandierare dottrine e idee da portare sul luogo sic et simpliciter.
Molte le cause della trasformazione in atto: dagli effetti della decolonizzazione nei Paesi chiamati fino a qualche anno fa del Terzo mondo agli sviluppi nelle scienze sociali, finalmente accolte come necessarie per capire i cambiamenti in corso; dai mutamenti di mentalità legati al decreto conciliare Ad gentes, che fonda biblicamente e teologicamente la missione e allarga a tutta la Chiesa il compito di fare missione, fino all’emergere di una cultura cosiddetta postmoderna.
Caratterizzata, quest’ultima, da un sistema di valori e credenze ben più profondi di quanto una prima superficiale osservazione faccia pensare: un forte senso dello sviluppo storico delle idee e dei punti di vista; un’accettazione della costruzione sociale della conoscenza e dell’influenza delle culture sulla sua comprensione; la consapevolezza dell’immensità e della diversità del mondo fisico e sociale; l’esaurimento delle metanarrazioni, le ideologie che descrivevano la realtà a tutto tondo. In questo panorama, gli istituti missionari, e tutta la missione della Chiesa, stanno facendo i conti con la loro debolezza, con una crescente fragilità; e, contestualmente, con la necessità di annunciare e testimoniare il vangelo non nella potenza dei mezzi o di sostegni di vario tipo, ma nell’estrema precarietà di una situazione di crisi sistemica costantemente in progress.
Insuperabile, al riguardo, la considerazione del vescovo di Poitiers, Albert Rouet, autore del bestseller La chance di un cristianesimo fragile, a un giornalista che lo sollecitava a esprimersi su cosa la Chiesa avrebbe dovuto fare per poter essere accolta nell’attuale congiuntura culturale, con cui indicava con parresia il proprio sogno: “Rispondo alla domanda con un’utopia. Vorrei una Chiesa che osa mostrare la sua fragilità. A volte la Chiesa dà l’impressione di non aver bisogno di nulla e che gli uomini non abbiano nulla da darle.
Desidererei una Chiesa che si metta al livello dell’uomo senza nascondere che è fragile, che non sa tutto e che anch’essa si pone degli interrogativi”. Rileggere oggi la vicenda di de Foucauld può aiutarci a entrare in sintonia con questo clima e a rimetterci in marcia, a dispetto di ogni oggettiva difficoltà.
(fonte: Tuttavia 11/05/2022)