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mercoledì 4 agosto 2021

4 agosto: memoria di San Giovanni Maria Vianney - Papa Francesco: “V’invito a pregare in modo particolare per i vostri parroci e per tutti i sacerdoti” - IL PATRONO DEI PARROCI CHE FU CACCIATO DAL SEMINARIO - Alla scuola di S. Giovanni Maria Vianney di Antonio Savone

4 agosto: memoria di San Giovanni Maria Vianney, 
noto come Curato d’Ars, patrono dei parroci.

“Nel riprendere i nostri incontri settimanali, oggi, memoria di San Giovanni Maria Vianney, v’invito a pregare in modo particolare per i vostri parroci e per tutti i sacerdoti”. 
Così Papa Francesco, durante l’udienza di oggi, la prima dopo la pausa estiva, ha salutato i fedeli di lingua portoghese, al termine della catechesi. “Possano, ispirati dall’esempio del Santo Curato D’Ars, offrire le loro vite alla missione di predicare il Vangelo della salvezza”, l’auspicio di Francesco.


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SAN GIOVANNI MARIA VIANNEY, IL PATRONO DEI PARROCI CHE FU CACCIATO DAL SEMINARIO


Il Curato d’Ars proveniva da una famiglia contadina e privo della prima formazione, riuscì, nell'agosto 1815, ad essere ordinato prete. Per farlo sacerdote, ci volle tutta la tenacia dell'abbé Charles Balley, parroco di Ecully, vicino Lione: lo avviò al seminario e lo riaccolse quando venne sospeso dagli studi. Si dedicò all'evangelizzazione, attraverso l'esempio della sua bontà e carità. Benedetto XVI nel 2009 ha indetto l’Anno sacerdotale nel 150° anniversario della sua morte


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Alla scuola di S. Giovanni Maria Vianney
Esercizi spirituali seminaristi – Ars 2011 –
di Antonio Savone

A scuola di umiltà

Il Curato d’Ars era un umanamente povero, non dotato di chissà quali capacità o risorse. Ha impiegato non poco per diventare prete anche se ben presto aveva cominciato a pensare a questa scelta di vita. Fu ordinato a 29 anni superando non poche traversie nelle quali emergeva la sua tenacia a voler rimanere fedele alla vocazione che egli riteneva ricevuta da Dio proprio mentre faceva esperienza dell’inadeguatezza dei suoi mezzi umani. Non aveva una memoria brillante, faticava ad intendere e a discernere: si possono immaginare le umiliazioni e le sconfitte cui fu sottoposto. Esami falliti, recriminazioni di ogni tipo. L’umiltà è stata senz’altro una delle virtù che più lo ha caratterizzato.

Oggi si esalta – anche in seno alla comunità cristiana e in seno al presbiterio – chi è pieno di sé, chi ha una fiducia incondizionata nelle proprie risorse, chi non arretra di fronte a nulla. Non poche volte queste sembrano le attitudini necessarie per un candidato al sacerdozio. Tuttavia, l’umiltà è la virtù che non può mancare in un cristiano e tanto più in un prete e in chi si prepara ad esserlo. Cosa intendo? L’umiltà come consapevolezza di non meritare il sacerdozio, come consapevolezza che il dono fattoci dal Signore è infinitamente più grande di noi: io non posso essere sacerdote pensando di bastare a me stesso ma solo in una comunione da cui ricevo molto e a cui devo molto. L’umiltà come verità, per usare un’espressione di s. Teresa.

Sono prete umile? Sono un seminarista umile? Come ho vissuto e come intendo vivere la dimensione dell’umiltà? Non c’è identità sacerdotale senza umiltà. Dove manca l’umiltà cresce l’ipocrisia, si moltiplica la presunzione, aumentano le pretese tanto da non essere più capaci di dono di sé ma solo uomini che dilatano a dismisura la loro bramosia di successo.

La vicenda del Curato d’Ars è stata una scuola che lo ha plasmato sulla via dell’umiltà giorno dopo giorno: pensiamo soltanto a quante tentazioni paurose ha subìto, quanti scoramenti di disperazione!

Oggi ci fa ridere che questo giovane prete trentenne abbia avuto paura dell’inferno. E invece deve farci pensare: non siamo forse troppo disinvolti? Non viviamo con una certa sicumera alcuni doni di Dio che se solo ne avessimo consapevolezza non ci farebbero che tremare? Quale consapevolezza che lui è i il Signore?

L’atteggiamento di umiltà è propedeutico a un itinerario vocazionale ma è anche ciò che fa una seria identità di prete.

Quando manca quel confronto continuo tra la mia condizione di fragilità e il mistero santo di Dio a me partecipato ecco che il ministero diventa ripetitivo, annoiato, ci si ritrova stanchi di fare sempre le stesse cose, di vivere sempre le stesse difficoltà. Dimentichiamo così che se ripetitivi possono essere i gesti il mistero non si ripete, sempre, di nuovo, si attua e si rende presente.

Il Curato d’Ars non era mai frustrato, mai stanco, mai deluso: le sue tentazioni di fuga, infatti, non nascevano da queste esperienze ma dallo sgomento che lo prendeva ogni volta che ripensava alla incommensurabilità del dono a lui partecipato.

Mentre noi vorremmo capire tutto, scandagliare tutto, quest’uomo conosceva bene un gesto che noi abbiamo disimparato: gettarsi a terra davanti al tabernacolo proprio per assaporare il mistero di non capire e nello stesso tempo la gioia di credere e di rimanere fedele.

Il mistero della mia fragilità esalta ed illustra la magnificenza del Signore.

A scuola di ministerialità

Questo povero prete – come si era soliti chiamare il Curato d’Ars – era il continuatore della missione salvifica di Cristo nel mondo, era ministro dell’amore del Padre.

Cosa vuol dire essere costituiti ministri mediante l’ordinazione? L’itinerario della santità del prete è il suo ministero. Il ministero non è un ostacolo alla santità del prete quasi che l’essere ministri per altri ci impedisca di pensare a noi stessi. L’essere ministri non è qualcosa a latere della nostra identità sacerdotale, ma deve essere la sostanza del nostro sacerdozio. Fare del ministero ed essere ministri non si equivalgono. Quanti, esercitando un ministero, sono animati da atteggiamento di potere e di prepotenza. Non poche volte si fa il ministro senza voler essere ministro: si assume un compito senza voler essere servi.

Non sono venuto per essere servito ma per servire: chiamati anche noi a essere servi, sacramento del ministero di Gesù.

Divenuto prete, per il Curato d’Ars vivere era esercitare il ministero. Non aveva altro da fare che essere prete. Noi facciamo fatica a totalizzare questa identità: basti pensare a quante energie profondiamo per curare i nostri hobbies.

Il Curato d’Ars non aveva un programma di vita: il suo programma era l’abbandonarsi alle esigenze pastorali. Questo dava unità al suo essere prete. Non c’erano altre ragioni di vita, non esistevano altri criteri per decidere cosa fare: consegnato al ministero non con l’atteggiamento del padrone ma del servo.

L’essere ministro prendeva il suo tempo e i suoi interessi: trascorreva in confessionale dalle 15 alle 17 ore al giorno. Era il suo ministero a prendere le decisioni per lui.

Come immagino il mio ministero? Come lo penso? Quanto in me è presente il dualismo tra ministero da una parte e itinerario di santità personale dall’altra? Da dove le ragioni della mia preghiera? Può dire un prete che la sua vita di preghiera personale è una cosa e il suo ministero un’altra?

Non poche volte pensiamo all’essere preti ognuno a modo suo, della serie: lasciatemi fare il prete come voglio. Ma ha senso fare il prete a modo proprio? L’essere ministri radica ed emerge continuamente dal sacramento dell’Ordine, pertanto è essenzialmente una realtà di comunione. L’unico sacramento dell’Ordine che riceviamo esige l’unità del ministero. Si è ministri insieme: lo penso così il mio sacerdozio? Pensiamo solo per un attimo alle tensioni tra parroco e curato, vescovo e preti. Quanto avverto un’esigenza di comunione, di fraternità, di condivisione? Pensiamo a quante divisione in nome del ministero!

La biografia del Curato d’Ars attesta che pur nella povertà dei suoi mezzi, quest’uomo era sempre disponibile ad aiutare i suoi confratelli, non mancando nei momenti difficili e condividendo le preoccupazioni altrui.

A pensarci fa rabbrividire: i santi risolvono i problemi delle grandi dottrine senza neppure sapere che esistano delle dottrine. C’è una sapienza che nasce dalla santità della vita che non nasce da discettazioni sul tema.

Alla scuola di un uomo eucaristico

Scorrendo la biografia del Curato scopriamo che ha faticato non poco per arrivare ad essere prete: dicevamo delle umiliazioni subite, della pazienza che ha dovuto esercitare. Tutti attorno a lui pretendevano che egli capisse quel che diceva e quel che diceva e non fosse soltanto un uomo dai buoni sentimenti: volevano che egli possedesse la verità così da poterla trasmettere agli altri. Il suo vivo desiderio era diventare prete per dire messa. Quando era ragazzo, infatti, i preti erano perseguitati, costretti a vivere da clandestini: non era possibile officiare il culto e le chiese erano chiuse. Doveva fare della strada per trovare un prete che dicesse messa: gli capitò persino di partecipare alla messa detta da un prete scismatico perché aveva giurato fedeltà alla repubblica eversiva. Giovanni Maria era all’oscuro di questo: ad attrarlo era la messa. Aveva fame dell’Eucaristia: farà la prima comunione a 14 anni in un regime di clandestinità, in una stanza chiusa dall’interno. L’incontro con l’Eucaristia gli è costato non poco ma è proprio lì che è nata la sua vocazione, da quell’Eucaristia proscritta, ridotta in clandestinità. E il dire messa sarà il suo ministero. La sua messa attirerà non poche persone dal momento che non poche volte veniva tratto in estasi e tutti potevano deliziarsi di un fervore non comune.

In una parrocchia di 300 anime la frequenza a messa era solo quella delle donne, nessun uomo: e lui se ne faceva una pena tanto che si mise a cercarli uno ad uno. Ve li portò tutti, tranne uno e quell’uno gli peserà sul cuore attribuendo a se stesso, ai suoi peccati, il motivo di quel non essere riuscito.

La sua passione di prete si alimentava all’Eucaristia: in un contesto piuttosto povero era sua cura garantire alla liturgia il suo decoro. Povero com’era, contrario a tutto ciò che è inutile, fece di tutto per abbellire la sua chiesa proprio perché era il santuario dell’Eucaristia.

L’Eucaristia lo legava agli ammalati: non voleva che alcuno lo sostituisse nel portare la comunione agli ammalati, neppure alla fine, quando gli fu messo accanto un coadiutore.

In un clima rigorista, giansenistico, l’Eucaristia gli raddolcì lo spirito rendendolo pastore di misericordia e di bontà al punto che morirà con l’accusa di essere lassista.

Quanto percepisco l’Eucaristia come fondante e insostituibile per la mia vita di prete?

Quando penso al mio essere prete come mi penso? Impegnato in che cosa? Quando guardiamo alla vita di molti preti sono tante le cose che vengono prima e che sembrano essere la ragione del loro essere preti: dalle comunicazioni sociali alle nuove povertà al rapporto fede-cultura.

Se guardiamo alla vita del Curato d’Ars il suo primo ministero, quello che informava tutto il resto, era l’Eucaristia. Come mi preparo ad essa, come la vivo, che risonanze ha sulla mia vita? Qual è l’habitat del mio voler essere un uomo eucaristico?

Il Curato d’Ars fece di tutto per portare gli uomini al Signore: quante volte ci anima l’ansia di dover dir messa dappertutto fuori chiesa invece di fare in modo che i nostri fratelli si ritrovino là dove il Signore ha scelto di abitare. Non poche volte l’Eucaristia diventa un accessorio e non già il punto cardine a cui riferirsi e da cui lasciarsi ispirare. È l’Eucaristia che deve condizionare noi, non viceversa: noi siamo ministri di essa, non padroni. Certo il Signore si lascia portare ovunque ma sta a noi far risplendere la dignità e la bellezza del mistero celebrato.

Quante volte nelle nostre catechesi ci ritroviamo alla ricerca di argomenti à la page. Chi di noi parla ancora dell’Eucaristia? Ci sembra un tema desueto, da non frequentare. Per il Curato d’Ars esisteva un solo domicilio: in chiesa davanti al tabernacolo. Chi aveva bisogno di lui sapeva di trovarlo lì, di giorno e di notte.

Il Curato d’Ars era un adoratore: l’adorazione dell’Eucaristia lo rendeva capace di stupirsi, di meravigliarsi, di entusiasmarsi, di sorprendersi. Parlando, non a caso usava spesso l’esclamativo e non già soltanto per la sua scarsa preparazione culturale ma soprattutto perché era un uomo stupefatto

A scuola di preghiera

Non poche volte tra noi preti serpeggia la convinzione che la preghiera sia qualcosa di diverso, alternativo al ministero. Non poche volte siamo convinti che il nostro ministero è per gli altri al punto che, anche se celebriamo messa, non preghiamo.

A noi manca una educazione presbiterale alla preghiera. Ora, il programma di preghiera di un prete è il suo ministero. Cosa portiamo nella preghiera se non il nostro ministero, cioè quelle situazioni che ci coinvolgono, situazioni di cui veniamo a conoscenza, situazioni che ci interpellano? La preghiera è il tessuto connettivo di tutte le nostre azioni ministeriali, tanto di quelle sacramentali quanto di quelle che non lo sono e che nondimeno sono finalizzate alla testimonianza del Signore in mezzo ai fratelli.

Noi siamo consapevoli che è il Signore ad averci costituiti suoi ministri rendendoci atti a compiere tante cose. Ma siamo mandati nella misura in cui non perdiamo il contatto con lui.

Il Curato d’Ars non aveva molte cose da fare se non essere ministro e pregare. Pregava al punto da perdere la nozione del tempo, persino della fame e della sete. È l’esperienza contemplativa ciò che fa da collante a tutte le nostre disgregazioni. Non poche volte siamo soggetti a stress per il modo disumano in cui ci capita di vivere ma anche perché non abbiamo ancora imparato a valorizzare tutte le risorse della grazia che il Signore ha messo a nostra disposizione.

A scuola di perdono

Il Curato d’Ars è per eccellenza l’uomo del confessionale. Se l’Eucaristia gli riempiva l’anima ed era esperienza di comunione con il Signore, il sacramento della penitenza era il suo incontro con l’umanità ferita.

Il suo tormento fu la scoperta che la maggior parte della gente non si accostasse al sacramento della penitenza. Questo non lo lasciò tranquillo: davanti al SS. Sacramento si struggeva perché voleva che la gente fosse riconciliata con Dio. Si sentiva colpevole perché se i suoi parrocchiani erano peccatori ciò dipendeva da lui che non era riuscito a far conoscere loro fino in fondo le insondabili ricchezze della grazia di Dio. Quante volte era lui a fare la penitenza per i peccati altrui! Il patire per il peccatore, il partecipare alla passione e morte del Signore era per lui criterio di vita.

Accade sovente che noi preti ci abituiamo a sentire raccontare peccati. Ma quella sorta di disinvoltura di fronte al peccato degli altri è una insidia che non poche volte tradisce la disinvoltura di fronte ai nostri peccati. Il rischio è di diventare solo dei funzionari mentre i penitenti sono soltanto gli utenti di un servizio senza permetterla realizzazione di quel rapporto salvifico che è proprio del sacramento. Quando un peccatore non lascia un segno dentro di noi abbiamo esercitato solo una funzione. Pur avendoli confessati uno alla volta il più delle volte ci rimane il numero della statistica. Quale passione è accaduta dentro di noi mentre dicevamo: Io ti assolvo dai tuoi peccati?

Il perdono dato agli altri è strumento di conversione per noi. Nel sacramento della penitenza noi diventiamo partecipi della carità di Dio per ogni uomo, noi siamo lo strumento attraverso il quale Dio libera l’uomo dal peccato, noi la possibilità perché qualcuno possa fare ritorno al Padre che riapre loro le sorgenti della grazia e rinnova in loro la speranza: Va’ in pace e non peccare più.

Quante persone si accostano al Signore con animo contrito: ci sono dei giorni in cui l’esperienza della conversione di qualcuno a cui amministriamo il sacramento della penitenza può diventare viatico per la nostra stanchezza e sprone per la nostra fedeltà, per il superamento di certe tentazioni.

A scuola di carità

Tutti hanno diritto di bussare alla nostra porta e al nostro cuore e trovare accoglienza. Nostro compito è andare a cercare i fratelli. Guai all’atteggiamento della delega per cui distribuiamo servizi in modo che noi non siamo da nessuna parte. Oggi è tutto un discorso di organizzazione, di settori, di pastorale di un aspetto piuttosto che di un altro. Tutto serve nella misura in cui il prete resta ministro della carità. Non è l’organizzazione che fa la carità ma le persone: la carità, infatti, è un rapporto da uomo a uomo, da cuore a cuore. Chi incontra me deve poter dire di aver incontrato il Signore, di essere stato riconosciuto, guardato e accolto proprio come avrebbe fatto il Signore. Noi siamo il segno del cuore di Dio. Nostro compito è quello di essere anticipatori, di capire al volo, di renderci conto per primi.

Il Curato d’Ars ha amato la sua gente come non mai, quasi alla loro mercè: i poveri sapevano di trovare attenzione presso di lui. Li accoglieva a mensa: per loro non c’erano soltanto le due patate che abitualmente egli mangiava, ma ben di più.

Non aveva bisogno di chiedere al suo interlocutore chi fosse o da dove venisse: bastava bussare ed entrare per trovare accoglienza.

Una delle sue attenzioni speciali erano i malati: andava in crisi quando non riusciva ad assisterli com’era giusto che fosse.

Quante volte – si pensi a questi nostri giorni – ci perdiamo in discussioni infinite per stabilire se alcune cose tocchino o meno a noi. Quante problematiche, quante discussioni! E magari chi è nella necessità non trova nessuno che lo ascolti.

Detestava il peccato al punto da vivere nell’angoscia ma il Curato d’Ars amava i peccatori. I peccatori diventavano i finanziatori delle sue opere di carità: sapeva a chi ricorrere.

Quanto io ho attenzione alle persone? Mi sta a cuore conoscerle? Sono capace di ricordare volti, situazioni per entrare nel vissuto di chi il Signore mi affida? Quanto riesco a vivere relazioni di amicizia? Sono capace di instaurare un rapporto umano?

Alla scuola del Curato d’Ars si comprende che non è vero che il ministero è altra cosa dal nostro personale cammino verso la santità. Quest’uomo non ha frequentato una scuola di spiritualità: soltanto si è abbandonato al suo ministero che certo lo ha consumato ma senz’altro gli ha permesso di diventare santo.
(fonte: A casa di Cornelio)

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