IL CAMPO VISIVO
di Gianfranco Ravasi
Ognuno di noi confonde i limiti del suo campo visivo per i confini del mondo.
È bella, anche se amara, questa considerazione di un filosofo piuttosto pessimista com’era Arthur Schopenhauer. Coglie, infatti, in modo ironico un atteggiamento a cui tutti siamo tentati di indulgere, quello di ritenere noi stessi misura di ogni cosa. Spesso, sull’onda di questa attitudine, si cade persino nel ridicolo oppure nell’ostinazione, cercando di difendere l’indifendibile e di opporsi anche all’evidenza. Alla radice di questo comportamento c’è la smisurata venerazione del proprio io, delle proprie idee e convinzioni, del proprio comportamento. Quando ci si incammina a praticare questo «massaggio» dolce e appassionato del «super-ego», come dicono gli psicologi, è difficile fermarsi. Anzi, si può persino giungere alla convinzione di essere vittime di invidia o cattiveria quando altri tentano di mostrarci che il mondo della verità è ben più ampio del nostro perimetro intellettivo e visivo. E così si diventa acrimoniosi, ci si lamenta di essere incompresi, ci si rinchiude in un altezzoso silenzio. Ecco, allora, la necessità dell’autocritica, dell’esame di coscienza e di quella virtù che ai nostri giorni è un po’ sbeffeggiata, l’umiltà o almeno un sano realismo. Il poeta Thomas S. Eliot ammoniva che questa «è la virtù più difficile da conquistare perché niente è più arduo a morire della volontà di pensar bene di se stessi, sempre e comunque».